La Cappella di San Severo a Napoli, di Fabrizio Falconi (con una breve nota in appendice di Andrea Lonardo)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /05 /2016 - 15:00 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal blog di Fabrizio Falconi http://fabriziofalconi.blogspot.it/ un testo  tratto da F. Falconi, Monumenti Esoterici d’Italia, Newton Compton, Roma, 2013 e pubblicato on-line il 20/5/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede

Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)

Dieci anni della mia vita pur d’essere lo scultore del Cristo Velato! La celebre esclamazione, frutto di una sconfinata ammirazione unita alla irrefrenabile invidia degli artisti, suole essere attribuita nientemeno che ad Antonio Canova quando nel 1780, in visita a Napoli, alla Cappella dei principi di Sansevero, si trovò di fronte l’incredibile ritratto scolpito del Cristo morto velato, adagiato su di un giaciglio, la testa reclinata su due cuscini, ai piedi gli strumenti del supplizio.

Lo stupore di Canova, però, come anche il nostro oggi, era pienamente giustificato: come aveva fatto un giovane scultore di soli trentadue anni, Giuseppe Sanmartino, ancora poco conosciuto, a realizzare un’opera di tale virtuosismo ? Il Cristo, sotto il velo minutamente realizzato in ogni piega, in ogni spessore, come forse mai prima di allora, sembrava davvero appena cristallizzato dopo il supplizio e la morte, ancora palpitante, come se la vita l’avesse appena lasciato.

Com’era possibile un tale prodigio? Se lo continuarono a chiedere in tanti, anche dopo la visita di Canova, e riuscirono anche a darsi una spiegazione: quella magia, quella straordinaria esibizione di bravura, non era tutta farina del sacco del giovane scultore, non era opera sua l’invenzione di una simile tecnica di lavorazione del marmo. No, c’era di mezzo qualcuno di molto più sapiente, nello studio e nell’utilizzo delle più segrete tecniche alchemiche. Era stato lui, era stato sicuramente il principe Raimondo de Sangro, l’erudito colto studioso misantropo, che aveva commissionato l’opera dapprima al veneziano Antonio Corradini e poi alla morte di questo proprio al Sanmartino e che a quest’ultimo aveva insegnato le segreti arti di trasformazione dei materiali, per permettergli di realizzare un’opera unica al mondo.

A questo proposito c’è da dire che le leggende a proposito del Principe Raimondo sono fiorite e hanno prosperato con il passare dei decenni a Napoli, città dove lo scambio e la tradizione orale hanno potere come in pochi altri posti al mondo, e c’è da capirlo vista la fama che circondò in vita l’artefice della Cappella.

Raimondo proveniva, per nascita, dall’alta aristocrazia dei Grandi di Spagna. La sua famiglia vantava estesi possedimenti nelle Puglie, ed è proprio qui, nel feudo di Torremaggiore che nacque Raimondo, nel 1707. I suoi genitori erano Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, membro di una delle casate patrizie più antiche d’Italia, e Antonio di Sarno, duca di Torremaggiore.

La madre Cecilia, morì pochi mesi dopo il parto. Al suo ricordo, Raimondo rimase per sempre devoto, e nel suo Pantheon personale, che è la Cappella di cui ci stiamo occupando, a lei dedicò la statua della Pudicizia velata, che fece realizzare da Antonio Corradini nel 1752, dove già si evidenziano i prodigi della lavorazione del velo che copre il corpo della donna, sostenuto da una lapide spezzata, a simboleggiare proprio la prematura scomparsa della madre.

Il padre, Antonio di Sangro, era invece un nobile dal carattere vanesio e libertino. Troppo preso dalle sue tresche, pensò bene di affidare il figlio, orfano di madre, alla cura dei nonni paterni. Nel frattempo, invaghitosi di una giovane ragazza, ne fece uccidere il padre che si opponeva alla relazione. Il fattaccio avvenne in Puglia, nella città di Sansevero, dove i duchi avevano sempre goduto di fama e rispettabilità. Stavolta però il delitto fu talmente sfacciato da non poter essere perdonato: il sindaco di Sansevero impugnò un procedimento penale contro il principe Antonio, che fu costretto a fuggire e a rifugiarsi presso la Corte di Vienna, da dove cercò di difendersi dalle accuse grazie alla protezione dell'Imperatore. Quando il Tribunale pugliese, su pressione diplomatica, archiviò il caso, Antonio poté rientrare nei suoi feudi ma ancora non pago, decise di vendicarsi ordinando l’uccisione di quello che era stato il suo principale accusatore. Una nuova fuga lo portò stavolta a Roma, dove però Antonio di Sangro trovò il modo di convertirsi, dopo essersi pentito dei suoi misfatti, prese i voti e si ritirò in convento.

A questa vicenda, che c’è da immaginarlo segnò non poco la personalità del piccolo Raimondo – avere un padre assassino – il Principe dedicò una delle più famose opere presenti nella Cappella, la statua detta del Disinganno: Raimondo di Sangro la commissionò allo scultore Francesco Queirolo e rappresenta un uomo che si libera dal peccato, quest’ultimo simboleggiato da una fitta rete che ne avvolge il corpo e dal quale la figura tenta di districarsi. Anche qui siamo di fronte a una tecnica prodigiosa, e per alcuni versi, perfino inspiegabile. A questo proposito si racconta che gli artigiani ai quali fu affidata l’opera, per la rifinitura del marmo, si rifiutarono di eseguirla proprio per il terrore che la fitta maglia della rete potesse spezzarsi sotto le loro mani. Di conseguenza, il Queirolo stesso dovette passare a mano, personalmente, la pietra pomice.

Nella dedica, predisposta da Raimondo per il padre, si legge: mirabile per eloquenza, intelletto e innumerevoli virtù che, avendo perso in gioventù la moglie, fu molto asservito, ormai celibe, alle giovanili brame e per tale motivo viaggiò per tutta l’Europa lontano dalla Patria, ma infine, riconosciute le proprie colpe, ritornato in patria, divenne sacerdote e abate di questo tempio... In tal modo indicò come non sia possibile alla fragilità umana mostrare grandi virtù senza debolezze.

Una specie di epitaffio, dunque, che tentava di restituire l’onore a un padre da parte di un figlio molto presto abbandonato.

Avevamo lasciato Raimondo affidato alla cura dei nonni, i genitori di Antonio. Questa fu, in un certo modo, la fortuna del giovane Principe. All’età di dieci anni infatti, e fino al compimento dei venti, fu mandato a Roma, a causa della soverchia vivacità del suo spirito, che il nonno Paolo, aveva intuito in lui, presso il Collegio Clementino dei Padri Gesuiti.

Qui, Raimondo, ricevette – grazie ad insegnanti come Domenico Quarteironi e Carlo Spinola – quella educazione che, sulla base di uno spirito già molto predisposto, ne fecero uno delle personalità più erudite e geniali del Settecento non soltanto italiano. Filosofia, diritto, araldica, geografia, letteratura, alchimia, idrostatica, prospettiva, matematica, pirotecnica, ingegneria idraulica: non c’era un solo campo del sapere che non fosse terreno di conquista per il giovane Principe, avido di conoscenza.

Le sue molte e precoci imprese sono raccontate in quell’almanacco che è la principale fonte biografica del Principe di Sansevero: Istoria dello Studio di Napoli, scritto da Gian Giuseppe Origlia nel 1754.

Il ritorno a Napoli, a vent’anni, coincise con la sua investitura ufficiale: nel 1730 infatti, morto il nonno, Raimondo di Sangro diveniva ufficialmente il VII Principe di Sansevero.

Oramai, ad un giovane, dotato di così prodigiosi doni, nessun traguardo era precluso: sposata la cugina (per ramo materno) Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, di soli 14 anni, all’ingresso a Napoli di Carlo di Borbone, fu subito nominato Gentiluomo di Camera con Esercizio e insignito del titolo di Cavaliere del Reale Ordine di San Gennaro, e insieme alla consorte stabilì la sua residenza nell’antico palazzo di famiglia, nella Piazza San Domenico Maggiore. Circostanza questa destinata ad alimentare la futura fama esoterica di Raimondo, visto che proprietario dello stesso palazzo era stato alla fine del ‘500 il celebre Carlo Gesualdo Principe di Venosa, geniale musicista, e assassino della moglie[1].

Furono questi gli anni di un lavorio instancabile, di mille affari e mille occupazioni. Raimondo, che era stato riconosciuto membro prima della Accademia de’ Ravvivati (col nome de plume di Precipitoso) e poi della Accademia della Crusca (col nome di Esercitato) si dedicò alla compilazione di un monumentale Gran Vocabolario della Arte di Terra, compendio di architettura e costruzioni e di una Pratica più agevole e più utile di esercizi militari per l’infanteria, un trattato di arti militari. Ma non solo: esercitò la sua inventiva per creare macchinari straordinari nei più disparati campi. Tra le innumerevoli invenzioni a lui attribuite – e che in molti casi fu egli stesso ad attribuirsi nella sua Lettera apologetica, scritta nel 1750 – una macchina idraulica capace di far risalire acqua a qualunque altezza; un fenomenale teatro pirotecnico; un archibugio ad una sola canna che poteva sparare a polvere o a vento; un cannone di materiale leggero ma capace di sparare proiettili a gittata superiore alla norma; e poi il cosiddetto lume eterno, sorta di combustibile ricavato da una mistura di fosfato di calcio e di fosforo altamente concentrato; e poi ancora, carta ignifuga, impermeabilizzazione dei tessuti, stampa simultanea e a colori ad una sola pressione di torchio e a un medesimo tempo, un sistema per desalinizzare e rendere potabile l’acqua di mare e chi più ne ha più ne metta.

E’ chiaro poi, che sul conto del Principe, furono ancor di più le leggende attribuite, rispetto ai suoi meriti reali che pure, come è facile accertare, furono molti e nei campi più diversi.

Così ad esempio sono ancora in molti oggi ad essere convinti che il celebre miracolo del Sangue di San Gennaro, che si ripete ogni anno nella Cattedrale di Napoli, sia anch’esso una invenzione del Principe di San Severo [N.B. de Gli scritti Ovviamente il miracolo ha una tradizione di gran lunga precedente alla vita di Raimondo di Sangro], il quale, nel suo laboratorio avrebbe creato anche, grazie alle sue capacità alchemiche, una sostanza con capacità coagulanti e anticoagulanti capaci di attivarsi con il movimento.

Cosa ci sia di vero in questo è molto difficile dire, proprio perché su molte delle presunte invenzioni del Di Sangro ci sono pervenute soltanto testimonianze frammentarie, oppure i risultati auto-attribuiti e non certo documentati scientificamente, nella sua Lettera apologetica, scritto che tra l’altro fu messo all’indice e fu il preludio della successiva scomunica papale.

E’ certo comunque che il Principe di San Severo sempre di più decise di chiudersi al mondo, coltivando i suoi studi e gli interessi che ormai lo prendevano come una febbre estrema. Il 1744 è l’anno della svolta: dopo aver partecipato alla battaglia di Velletri contro gli austriaci ed essersi particolarmente distinto, il Principe chiude la sua carriera militare e comincia a dedicarsi totalmente al restauro e alla cura definitiva della sua opera, ovvero la cappella Gentilizia che oggi tutto il mondo ammira.

Anche questo luogo, dobbiamo dire, come il resto del Palazzo nobiliare, vantava nobili origini, addirittura ancora più lontane e legate in realtà ad un episodio leggendario narrato nella celebre Napoli Sacra, l’opera scritta da Cesare d’Engenio Caracciolo nel 1624.

Qui si raccontava la storia di un uomo innocente che, negli ultimi anni del ‘500, era stato portato in catene in procinto di essere incarcerato e condannato a morte. Costui, però, passando proprio di fronte al giardino del Palazzo de Sangro, vedendo crollare improvvisamente un costone del muro e apparire dal retro un’icona della Vergine Maria, aveva fatto voto di apporre in quell’esatto posto una lapide d’argento se fosse stato riconosciuto innocente dal Tribunale, cosa che era poi avvenuta. Quella prima lapide preziosa era poi diventata una cappelletta allorquando Giovan Francesco Paolo de Sangro – un lontano antenato del Principe – ammalato, era tornato a chiedere la grazia alla Vergine dell’immagine.

Sorse così il piccolo tempio denominato Santa Maria della Pietà, che popolarmente divenne Pietatella. I discendenti di Giovan Francesco si dedicarono poi all’ampliamento di quel luogo, fino a Raimondo, appunto, per il quale la Cappella divenne una vera e propria ossessione, il lavoro di una vita, sorta di Pantheon personale dedicato al personale culto della immortalità, per sé e per i propri antenati e congiunti.

In effetti era stato Alessandro, il figlio di Giovan Francesco, il primo ad utilizzare il tempietto come luogo di sepoltura per gli antenati di famiglia. Ai tempi di Raimondo, le tombe erano già numerose. Egli però pensò di disporle secondo un preciso piano armonico, contestualizzandole all’interno di quel che doveva essere un vero e proprio Museo delle meraviglie.

Nello stesso anno in cui diede inizio ai lavori per il restauro della Cappella, il Principe di Sansevero si iscrisse alla Massoneria. E questa fu davvero una svolta per lui. Le logge massoniche avevano cominciato a radicarsi a Napoli all’inizio del Settecento e si diffusero con grande rapidità. Bisogna a questo proposito considerare che questi erano gli anni delle grandi scoperte archeologiche, in Campania, patrocinate e finanziate proprio dal sovrano spagnolo, Carlo III di Borbone. E mano a mano che i picconi e le vanghe degli operai riportavano alla luce i tesori classici di Paestum, di Ercolano e di Pompei, i muratori massonici ricavavano nuova linfa per la riscoperta di quei valori dell’antichità che andavano studiati e riproposti – insieme ai misteriosi riti magici – agli iniziati.

Il Principe di Sansevero, perfetto prodotto di questo clima, trovò terreno fertile per coltivare al meglio i suoi interessi: formò una officina insieme ad altri confratelli appartenenti alla migliore nobiltà partenopea, assumendo l’appellativo di Rosa d’Ordine Magno, geniale anagramma del suo nome, scalò uno ad uno tutti i gradini più importanti della gerarchia fino ad essere nominato Gran Maestro delle Logge di Napoli, fino ad avere l’ardire addirittura di proporre allo stesso Re Carlo III l’iscrizione nell’Ordine.

Quel che l’animava era sicuramente il fascino del potere personale, ma anche la necessità di trovare continuamente nuovi fondi per i lavori del suo Pantheon, la Cappella di Sansevero, che con tutte le opere che andava commissionando ai migliori e più blasonati artisti del Sud Italia, si stava trasformando per lui in una specie di pozzo di San Patrizio.

Ma anche questo non bastava. L’onta maggiore arrivò con l’inesorabile scomunica da parte di Papa Benedetto XIV, insieme a quella di tutti gli appartenenti alla Fratellanza. Quel che si stava rischiando era un vero caso politico, e per evitare di alimentare le tentazioni belliche del Pontefice, anche Re Carlo III fu costretto a prendere provvedimenti e a fare piazza pulita, decretando, con un editto, lo scioglimento di tutte le logge di Napoli e la messa al bando della massoneria dal Regno. Lo stesso Raimondo, pressato dal Re, fu costretto a collaborare, rivelando pubblicamente la lista degli affiliati, con la promessa che non sarebbero stati perseguiti penalmente e che avrebbero potuto continuare a coltivare i loro occulti interessi, privatamente. Cosa che toccò anche allo stesso Principe. La collaborazione, infatti, gli valse la revoca della scomunica e la possibilità di ritirarsi a vita privata occupandosi unicamente dei suoi studi e degli esperimenti di laboratorio che ormai erano le uniche cose a stargli veramente a cuore.

La necessità continua e impellente però di finanziare i lavori e gli esperimenti magici - intorno ai quali saliva il mormorio del popolino che immaginava ogni sorta di prodigio e di magia nera si compisse dietro i muri di quel Palazzo – lo mise nuovamente nei guai: giunse infatti al punto, non solo di chiedere prestiti a destra e manca, ma anche di affittare il suo palco al teatro San Carlo e le stanze del suo Palazzo ai giocatori di azzardo. Atteggiamenti sempre meno tollerati, soprattutto dai suoi nemici personali, primo fra tutti quel Bernardo Tanucci, Ministro della Real Casa, che iniziò a perseguitarlo finché, approfittando del ritorno in Spagna di Carlo III, non riuscì a farlo arrestare e rinchiudere per qualche mese nel carcere di Gaeta.

Liberato grazie all’intercessione di alcuni nobili amici, fu arrestato ancora – con un pretesto – dal Tanucci e sempre a causa dei suoi debiti, che ormai ammontavano a cifre spaventose e che furono ripianati solo con il matrimonio di convenienza combinato per il suo primogenito Vincenzo.

La ricca dote della futura moglie scongiurò il crac finanziario e permise finalmente a Raimondo di trovare quella pace che inseguiva, per poter completare l’opera della Cappella delle meraviglie.

Cosa che fece fino alla morte, avvenuta il 22 marzo del 1771, quando aveva sessantuno anni e ormai era rimasto poco di quel giovane di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, com’era stato descritto dal suo amico Antonio Genovesi, il grande umanista campano protagonista della scena settecentesca.

In realtà, con il passare degli anni e con l’incalzare della vecchiaia, il Principe s’era trasformato in un misantropo, quasi sempre nascosto al riparo delle mura del suo Palazzo, scostante nei modi, cupo e misterioso, come erano le attività alle quali si diceva continuasse sempre più intensamente a dedicarsi.

L’aristocratico illuminato, inebriato dalla vita sociale e dalla mondanità, era diventato un vecchio ossesso, minato da quel difetto di aver troppa fantasia (sempre per citare Genovesi) che lo stava portando su sentieri di ricerca sempre più avventurosi .

Se oggi si conosce molto poco di quel che veramente realizzò il Principe con i suoi esperimenti, e soprattutto della maniera con cui vennero realizzati, il motivo è proprio nella stessa volontà di Raimondo, che considerava le arti esoteriche nel suo senso più pieno, come verità non disponibili a tutti, ma riservate soltanto a chi fosse capace di tradurre l’esperienza in un cammino iniziatico.

Qualcosa in più avrebbero potuto rivelare i suoi molti collaboratori, ma nei loro confronti il Principe era molto munifico e il carisma personale gli assicurava, evidentemente, la fedeltà personale degli adepti.

La sua mente comunque non si fermava mai. Per avere un idea della fertilità del suo genio basta guardare il campione della incredibile pavimentazione della Cappella – purtroppo andata perduta nell’Ottocento – che è conservato nel passetto antistante la tomba del Principe. Il motivo a labirinto, rinvio alla tradizione classica della conoscenza nascosta, viene qui reinterpretato in maniera unica e straordinaria: una linea di marmo bianco, senza soluzione di continuità, forma motivi alternati di croci uncinate e quadrati concentrici sullo sfondo di tarsie policrome. Secondo alcuni, la testimonianza definitiva che Raimondo di Sangro aveva trovato il modo di liquefare il marmo, di renderlo sintetico e plasmabile, in questo caso incanalando il flusso del prezioso materiale attraverso appositi scomparti.

Nella impossibilità oggi di dar credito ad una ipotesi come questa, si preferisce pensare semplicemente alla evidenza di un genio, quello del Principe di Sansevero, che non conosceva limiti e che era capace di progettare e realizzare le opere più diverse anche nel campo della geometria, con l’invenzione di figure sempre più complesse.

Ma non v’è dubbio che ciò che contribuì maggiormente allo sviluppo e al consolidamento della leggenda nera intorno al Principe, furono sicuramente quelle che vengono chiamate comunemente macchine anatomiche, e che ancora oggi atterriscono non pochi visitatori quando dal piano superiore della Cappella accedono alla Cavea sotterranea, pensata originariamente come luogo di sepoltura anch’esso, e poi invece diventata, secondo alcuni, il vero e proprio laboratorio dove si compivano gli esperimenti di natura alchemica.

Le macchine anatomiche si presentano oggi come due scheletri – uno di un uomo, l’altro di una donna – all’interno di bacheche, in posizione eretta, la donna con il braccio destro alzato, che si presentano come cadaveri completamente scarnificati, che hanno in vista l’intero sistema circolatorio, formato da vasi, arterie, capillari e – nel caso dello scheletro femminile – perfino i bulbi oculari.

Non è difficile immaginare quali dovessero essere lo sconcerto e il terrore provati dai primi visitatori ai quali il Principe mostrò questi reperti. Certamente Raimondo si guardò bene dal pubblicizzarli, dal mostrarli cioè il pubblico. Ma la leggenda di quel che accadeva nelle stanze del Palazzo ci mise poco ad uscire per le strade e a diffondersi per i vicoli di Napoli accrescendo l’aura negativa che circondava il Principe di Sansevero.

A distanza di tanti anni poi, è ancora difficile stabilire esattamente come e con quali procedure sia stato possibile realizzare le macchine. Anche perché le informazioni certe al riguardo sono poche. Si sa soltanto che Raimondo si avvalse della consulenza e della collaborazione materiale di un anatomista palermitano, un certo Giuseppe Salerno e che le due macchine sono costituite di due scheletri autentici. Ma nessuno sa chi fossero le due persone cristallizzate dal Principe.

La leggenda ci mise poco a impadronirsi del racconto e a farlo proprio, stabilendo che gli scheletri fossero i resti dei corpi di due servitori del Principe, un nano ed una donna incinta, nei quali sarebbe stato iniettato un assai misterioso liquido capace di pietrificare le vene e le arterie.

Peccato che all’epoca non esistessero, non fossero stati ancora inventati aghi venosi, e che quindi sia difficile immaginare come sia stato possibile inserire il liquido di cui si parla.

Ciò che sorprese parecchio gli anatomisti nei decenni seguenti, fu soprattutto il fatto che il sistema circolatorio fosse stato riprodotto – ammesso che si trattasse di un’opera artificiale – con tanta precisione, visto che le conoscenze anatomiche dell’epoca erano ben lungi dall’arrivare a tanta minuzia.

E poi: qual era lo scopo esatto di queste macchine? A cosa servivano esattamente? Possedevano un intento didattico, o erano solo un bizzarro esperimento antesignano di quelli fantasticati un secolo e mezzo dopo da Mary Shelley in Frankenstein? C’era di mezzo, insomma, il folle tentativo di ridare vita a un corpo dopo la morte?

In realtà le spaventose macchine non fecero altro che arricchire la già corposa vulgata secondo la quale le attività stregonesche del Principe si svolgevano con rituali sadici o macabri: c’era chi sosteneva che nel laboratorio di Palazzo Sansevero fossero portati, nottetempo, sbandati e vagabondi, i cui corpi venivano usati per inimmaginabili esperimenti; c’era chi era sicuro che la passione per il bel canto del Principe, arrivasse al punto tale da indurlo a rapire giovanetti dalla bella voce e dopo averli fatti castrare, ad avviarli alla carriera di cantores; e c’era chi addirittura si diceva sicuro che Raimondo di Sangro avesse fatto uccidere sette cardinali, e a guisa di sfregio, avesse utilizzato le loro ossa e la pelle dei loro corpi per fabbricare poltrone.

In un clima di questo tipo, non è allora strano che, a proposito delle macchine anatomiche, si fosse diffusa in breve tempo la voce che l’esperimento era stato compiuto su persone viventi e che il nano in questione fosse un servo traditore del Principe e la donna che gli si negava e che aspettava un figlio da un altro uomo. Sembra a questo proposito, che in effetti la macchina femminile presentasse in origine anche lo scheletro di un feto, poi misteriosamente scomparso negli anni successivi alla morte di Raimondo.

La realtà sulla identità dei due corpi, non la sapremo mai. Quello che invece appare oggi più chiaro è il procedimento attraverso il quale il Principe insieme ai suoi collaboratori riuscì a realizzare le macchine. Innanzitutto l’analisi minuziosa, compiuta in tempi recenti [2] ha permesso di stabilire che i circuiti sanguigni riprodotti sulle macchine presentano degli errori. Il che ha fatto escludere l’ipotesi che il procedimento sia consistito in una cristallizzazione di vene, arterie e vasi realmente esistenti.

E’ probabile invece, e anzi certo, secondo l’esame degli ultimi studi da parte dei tecnici americani, che Raimondo di Sangro abbia, insieme al Salerno, realizzato, sui due scheletri una riproduzione dei vasi, utilizzando filo metallico e cera, il che avvalorerebbe l’ipotesi di una funzione didattica delle due macchine che sarebbero servite a dimostrare la perfetta conoscenza del corpo umano da parte del Principe.

Anche sulla base di queste nuove teorie, resta comunque la meraviglia di come abbia potuto Raimondo, per le acquisizioni dell’epoca, costruire modelli così realistici, così perfetti come mai era stato possibile prima di allora.

Cosa che appare ancora più sorprendente se si valutano gli strumenti adoperati dal Principe e dai suoi collaboratori, esposti sempre all’interno della Cavea e che furono ritrovati durante i lavori di consolidamento e di restauro del monumento, nel 1990.

La cosa che, in conclusione, colpisce, della intera vicenda, è comunque quella specie di ossessione del Principe per il sangue (del resto inscritta nel suo stesso nome visto il nome del casato, di origine spagnola, al quale apparteneva, ovvero de Sangro) che gli è valsa perfino, come abbiamo visto, l’associazione presunta al miracolo del sangue di San Gennaro.

Qualunque siano state le reali acquisizioni del Principe di Sansevero, qualunque sia stata la sua reale capacità in fatto di esperimenti alchemici (da un punto di vista scientifico impossibili da realizzare) resta il fatto che Raimondo di Sangro, segnando una intera epoca, si dedicò e dedicò l’intera opera della sua vita al compimento di un lucido sogno di immortalità come si può leggere ancora molto chiaramente nella stessa iscrizione dedicatoria posta proprio all’ingresso della Cappella di Sansevero:

Chiunque tu sia, o viandante, cittadino o provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero Don Raimondo de Sangro, per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri… Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne.. e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati[3].

Breve nota in appendice di Andrea Lonardo (29/5/2016)

Riprendiamo in appendice una breve nota di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (29/5/2016)

È straordinario che, fra tutte le opere che Raimondo di Sangro principe di Sansevero fece realizzare, la più famosa è certamente il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino.

Certo Raimondo di Sangro si occupò innanzitutto di armi ed eserciti. Come ricorda Alessandro Cutolo nell’Enciclopedia Italiana della Treccani (1936) il principe inventò nuovi tipi di archibugi e di cannoni, un nuovo sistema di fortificazione, e prese a redigere, dal 1742 al 1750, un Dizionario militare, del quale compose sei grossi volumi in-folio, giungendo alla lettera O. Della sua esperienza militare è frutto la Pratica più agevole e più utile di esercizi, per l'infanteria, ecc. (Napoli 1747), altamente lodata da Federico il Grande.

Certo si fece massone e forse - così affermano alcuni autori moderni - la sua abiura alla Massoneria non fu sincera: può darsi che l’aristocratico Sansevero preferisse mentire per non incorrere in sanzioni che avrebbero compromesso il suo desiderio di arricchire di finiture l’erezione della Cappella di famiglia che oggi si ammira.

Certo Raimondo di Sangro fu un uomo che, ben più della massoneria, fu preda di un narcisismo veramente peculiare, tutto teso a conquistarsi un’immortalità nella memoria dei posteri che avessero visitato i luoghi da lui arredati.

Eppure l’opera che tutti vengono ad ammirare, la più amata, commentata, citata, contemplata è il Cristo velato.

Si potrebbe dire che, come sempre avviene, anche il principe scrisse la sua vita con righe storte che la provvidenza o il destino piegarono poi affinché il suo operato narrasse ciò che è bello e vero.

L’opera in marmo di Giuseppe Sanmartino voluta dal principe Raimondo indirizza, infatti, il visitatore al più grande mistero del mondo, ben più alto di quello della ricostruzione di due scheletri con sistema arterioso e venoso: il Cristo e la sua passione. Il Cristo velato ripresenta la morte di Gesù e la sua Sindone, quel velo che, avvolgendolo, divenne la reliquia più appassionante del Signore. Reliquia unica, perché di Gesù, risorto e asceso al cielo, non si danno reliquie di carne e ossa. Ne resta però impresso in quel velo, che nella Cappella è ancora posto sul corpo del Signore, il sangue e, misteriosamente, i lineamenti del viso e del corpo che la Sindone mostra perché vi lasciarono traccia, in un modo che resta a tutt’oggi inspiegato, dopo che già il sangue lo aveva macchiato.

Il principe aveva pensato il Cristo velato non per la Cappella stessa, bensì per la cripta, dove probabilmente intendeva essere sepolto. Perché quel Cristo gli stesse vicino in morte, quando i visitatori fossero venuti ad ossequiarlo.

Certo è che, dove ora è posto il Cristo velato, tutti i cappellani nei secoli sono venuti a celebrare messa come credenti, a partire dal padre che fattosi sacerdote vi celebrò l’eucarestia, come ricorda Falconi.

Certo è che vi è venuto anche ogni turista non credente, soprattutto per contemplarvi il Cristo morto per la salvezza. Certo è che vi è entrato anche ogni turista agnostico per contemplare l’immagine più interessante ed appassionante della Cappella stessa: l’immagine del crocifisso, il vero “mistero” che abbraccia la nostra vita, il vero “mistero” che pretende di parlare sensatamente del “mistero” della vita umana. Il mistero di Dio nel Cristo ed il mistero della vita umana: i due “segreti”, i due “misteri”, dinanzi ai quali gli altri sono solo bazzecole di secondaria importanza.

Il principe - e con lui chi dispose al centro della Cappella Sansevero il Cristo velato - dovette almeno intuire che quell’opera sarebbe stata la grande attrazione, il piatto forte della visita, l’opera delle opere. Essa riporta ai nostri occhi il grande “spettacolo” del mondo e pone le domande chi sia il Cristo e perché sia stato necessario il suo amore fino a morirne.

N.B. Sammartino (o Sanmartino), Giuseppe. - Scultore (Napoli 1720 - ivi 1793). Attivo a Napoli, mostrò un accentuato realismo: notevole il Cristo velato (1753, cappella Sansevero). Eseguì figure di santi e sculture allegoriche (1757, cappelle dell'Assunta e di S. Martino, chiesa della certosa di S. Martino; 1763-64, Foro Carolino; 1775-92, chiesa dei Gerosolimini; 1781, chiesa dell'Annunziata). Particolarmente abile nel modellare la creta, realizzò ritratti, figure presepiali e modelli per gli argentieri (Tobia e l'angelo, realizzato da Giuseppe e Gennaro Del Giudice, 1797, Cappella del Tesoro di S. Gennaro).

Note al testo

[1] Gesualdo da Venosa, nel 1590 aveva sorpreso la moglie, Maria d’Avalos, in compagnia del suo amante, il Duca Fabrizio Carafa, e li aveva uccisi entrambi, esponendone poi i corpi pubblicamente sullo scalone di quello stesso Palazzo, poi di proprietà dei Principi di Sansevero.

[2] I nuovi rilievi sono stati compiuti nel 2008 da archeologi inglesi coordinati dalla professoressa Renata Peters, dell’ULC (University College London), su autorizzazione degli attuali proprietari della Cappella di Sansevero e pubblicati sul Journal of Conservation and Museum Studies.

[3] Per i testi delle iscrizioni all’interno della Cappella e per la descrizione dettagliata del monumento, vedi Fazio Macci, Museo Cappella Sansevero, Alos, Napoli, 1999.