La conquista musulmana della Sicilia, di Ferdinando Maurici
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Riprendiamo da Maurici F., Breve storia degli arabi in Sicilia, Flaccovio Editore, Palermo 2006, pp. 31-53, il II capitolo del volume di Maurici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Alto Medioevo nella sezione Storia e filosofia e la sotto-sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)
La conquista musulmana della Sicilia
La ribellione di Eufemio
La situazione di pace armata fra le due sponde del canale di Sicilia si protrasse sostanzialmente anche nel primo venticinquennio del IX secolo. Gli emiri aghlabiti di Ifriqiya conclusero tregue con gli strateghi di Sicilia nell'805 e nell'813. Mercanti musulmani operavano in Sicilia mentre i porti africani erano visitati da commercianti bizantini provenienti dall'isola. Ma l'unità politica del mondo islamico si era ormai frantumata e le varie potenze regionali perseguivano una propria politica. Nel Mediterraneo occidentale i traffici e la navigazione erano resi costantemente pericolosi dalla presenza di naviglio corsaro proveniente dalla Spagna musulmana e dal Marocco idrisita. Da queste basi partirono anche incursioni contro la Sardegna e la Corsica. La tensione poteva quindi facilmente riaccendersi anche fra Sicilia ed Ifriqiya.
Nell'812, prima che la tregua siculo-aghlabita venisse rinnovata, si verificarono sanguinosi scontri navali nelle acque di Lampedusa. Nell'819-820, mentre vigeva teoricamente la tregua, una flotta aghlabita condotta da un cugino dell'emiro Ziyadat Allah I attaccò la Sicilia e vi fece moltissimi prigionieri. Non sappiamo se l'impresa venisse realizzata per rappresaglia ad atti ostili da parte dei bizantini o come deliberata azione aggressiva. L'incerta tregua reggeva ancora quando un evento improvviso mutò definitivamente fra 826 ed 827 il corso delle relazioni fra la Sicilia bizantina e l'Ifriqiya. Nell'826 si era insediato il nuovo stratego dell'isola, di nome Costantino. Fra lui ed un ufficiale delle forze navali, il turmarca Eufemio, sorse un dissidio per ragioni poco chiare, forse di carattere assolutamente personale. Una storia di donne, come qualche fonte riferisce. Eufemio era un abile comandante e le unità al suo comando lo sostennero nella lotta contro lo stratego. Siracusa venne occupata dagli insorti e lo stratego Costantino fu ucciso. Secondo un copione ormai sperimentato, Eufemio si autoproclamò imperatore e distribuì cariche ai suoi fedeli in varie parti dell'isola. Uno di questi ufficiali, chiamato «Balata» dalle fonti arabe, si rifiutò però ad un certo punto di obbedire all"'imperatore" e lo affrontò in battaglia sconfiggendolo.
Eufemio fece allora quello che altri ribelli avevano fatto prima di lui. Si rivolse per aiuto ai nemici più vicini e pericolosi, i musulmani d'Ifriqiya. Pur nella confusione degli eventi e nella scarnezza delle fonti che li riportano, è chiaro il filo che lega la secessione di Eufemio ad altri analoghi episodi di rivolta all'autorità imperiale, in Sicilia ed altrove. Un'interpretazione romantica e nazionalistica della figura di Eufemio è quindi decisamente fuori luogo.
In Tunisia Eufemio chiese l'invio di truppe che potessero soccorrere i suoi partigiani in Sicilia e rovesciare la situazione militare. Domandò inoltre il riconoscimento del suo titolo imperiale e, in concreto, il governo della Sicilia. In cambio, il turmarca ribelle si impegnava a versare un tributo all'emiro aghlabita e quindi a riconoscerne la sovranità. L'offerta di Eufemio suscitò non poche perplessità alla corte di Ziyadat Allah. Con i bizantini (i Rum) di Sicilia vigeva una tregua e l'emiro volle quindi essere rassicurato sulla legalità di un'eventuale spedizione militare. Furono interpellati i due maggiori giuristi di Qayrawan ed uno di essi, Asad ibn al-Furat, si espresse decisamente nel senso del gihad,la guerra santa. Le giustificazioni legali vennero ritenute valide ed il parere del giuriconsulto prevalse sulla quasi unanime opposizione iniziale dei maggiorenti all'impresa siciliana.
Asad ibn al-Furat venne nominato capo della spedizione. Era un vecchio esperto di diritto e non certo uno stratega. Il suo grande prestigio personale costituiva però una buona garanzia di unità e disciplina per un esercito d'invasione composto da contingenti di diversa origine etnica. La sua riconosciuta autorità in campo giuridico avrebbe inoltre permesso di risolvere i non facili problemi legali che il gihad poneva, in primo luogo la corretta ripartizione del bottino. È indubbio che Asad venisse affiancato da uno stato maggiore di esperti condottieri cui sarebbe spettata la direzione delle operazioni belliche vere e proprie.
L'armata, composta da arabi, berberi, spagnoli, persiani e negri, si radunò a Susa, pronta a salpare. Erano, riferiscono le fonti, circa diecimila uomini, senza contare gli armati di Eufemio. Per il trasporto fu messa insieme una flotta di circa cento legni. Al corpo di spedizione schierato Asad tenne un discorso da uomo di studio quale egli era, più che da condottiero. L'impresa alla quale si accingevano offriva grandi possibilità di aumentare i confini della conoscenza e l'esortazione di Asad ai suoi uomini fu quella di raccogliere quanta più scienza potessero. Non sappiamo quanto simili argomenti potessero infervorare le migliaia di guerrieri pronti all'imbarco sulla spiaggia tunisina.
Da Mazara a Enna
Il 14 giugno 827 la flotta fece vela verso la Sicilia, dove giunse il 17. In pochi giorni vennero completate le operazioni di sbarco e l'esercito fu in grado di operare in campagna. Nel frattempo «Balata» raccoglieva truppe e si preparava a sbarrare il passo agli invasori. Il primo scontro avvenne verso la metà di luglio, in un punto imprecisato della Sicilia occidentale. Nell'approssimarsi della battaglia Asad scoprì rudemente le sue carte ed invitò senza mezzi termini Eufemio ed i suoi a farsi da parte, lasciando solo ai musulmani il compito di sostenere l'attacco. L'esercito bizantino venne fatto a pezzi. «Balata» si rifugiò a Castrogiovanni (Enna) e di lì in Calabria, dove morì.
La campagna di Asad si sviluppò, dopo questo primo scontro campale, secondo una strategia che si potrebbe definire da "guerra lampo". L'esercito musulmano, lasciato un presidio a Mazara, puntò al cuore politico, amministrativo e militare della Sicilia bizantina. Marciò quindi direttamente sulla capitale Siracusa, ritenendo probabilmente che la capitolazione della città avrebbe comportato il crollo repentino di tutta la difesa bizantina.
L'avanzata dell'esercito invasore non incontrò apparentemente alcuna resistenza degna di ricordo. Soltanto sotto Akrai, oggi Palazzolo Acreide, una delegazione di maggiorenti si presentò ad Asad chiedendo la pace. I cronisti arabi ritengono che le richieste di pace fossero solo un espediente per guadagnare tempo e dare la possibilità ai difensori di Siracusa di fortificare ulteriormente la città. Sembra inoltre che Eufemio, le cui velleità erano state immediatamente frustrate da Asad, fosse in intese segrete con i siracusani e li incitasse alla resistenza. Comunque stessero le cose, Asad si fermò alcuni giorni sotto Akrai prima di riprendere la marcia su Siracusa.
La capitale del "tema" era ridotta all'ombra della grande metropoli d'età greca. Abbandonati da secoli i sobborghi ed i quartieri più periferici, l'insediamento urbano si era concentrato sulla penisoletta d'Ortigia e nella zona più vicina all'istmo che la congiungeva alla terraferma. Qui esisteva un primo sbarramento, antemurale delle difese di Ortigia. I musulmani si accamparono all'interno delle antiche latomie e tentarono con la flotta di imporre il blocco anche dalla parte del mare.
Le speranze di una facile conquista di Siracusa, però, si dimostrarono subito scarsamente fondate. Asad comprese probabilmente che l'impresa era superiore alle forze ed ai mezzi a sua disposizione. Si affrettò quindi a chiedere rinforzi, limitandosi nel frattempo a tenere bloccata la città ed a condurre qualche assalto, più che altro per saggiare e tenere impegnate le forze bizantine.
La situazione iniziò però ben presto a diventare critica per i musulmani. Le difficoltà di approvvigionamento ridussero alla fame gli assedianti, costretti a cibarsi dei propri cavalli. Il malumore cominciò a serpeggiare e si verificò anche un inizio di ammutinamento, sedato con misura e saggezza da Asad. I rinforzi africani alla fine giunsero e vennero ulteriormente irrobustiti da contingenti musulmani provenienti da Creta. Dalla parte di Palermo giunsero però soccorsi anche ai bizantini. Un nuovo violentissimo scontro campale si verificò sotto Siracusa e per la seconda volta i musulmani fecero strage dei nemici.
L'assedio, che oramai durava da quasi un anno, fu così ulteriormente stretto. I siracusani chiesero di trattare i termini di un accordo (in arabo aman)ma gli assedianti rifiutarono ogni concessione. Nel frattempo, i contingenti musulmani spediti contro varie fortezze e città minori dell'isola, ottenevano la sottomissione di un gran numero si esse. Il dominio bizantino sulla Sicilia sembrò vacillare pericolosamente quando nelle fila musulmane scoppiò una grave epidemia. Lo stesso Asad pare ne rimanesse vittima, mentre altre fonti parlano di una più gloriosa morte sul campo. Inpreda al panico, i musulmani decisero di non attendere la nomina da parte dell'emiro di un nuovo comandante e di reimbarcarsi velocemente per l'Africa. La via del mare venne però improvvisamente bloccata da una flotta veneta accorsa in aiuto di Siracusa. Bruciate le navi, i musulmani iniziarono il ripiegamento verso Mazara. Lungo la ritirata vennero occupate le fortezze di Mineo e Girgenti (Agrigento) e fu posto l'assedio all'importante fortezza di Castrogiovanni. Qui Eufemio venne attirato dagli abitanti in una trappola ed ucciso. Con la sua morte cadeva ogni residua ambiguità, se ancora ne fossero rimaste. La conquista dell'isola diveniva, anche formalmente, un fatto esclusivamente musulmano.
L'assedio di Castrogiovanni, come già quello di Siracusa, si dimostrò impresa difficilissima. Le forze musulmane si logorarono in inutili assalti, subendo anche le pericolose sortite degli assediati. Venne quindi presa l'unica decisione possibile, quella della ritirata verso la vicina Mineo.
Contemporaneamente anche la guarnigione lasciata a Girgenti saccheggiava la città e ripiegava su Mazara, pronta a reimbarcarsi. Il bilancio della prima fase di guerra era quindi decisamente fallimentare per i musulmani. A due anni dallo sbarco di Mazara soltanto questa città e la lontana Mineo, al capo opposto dell'isola, restavano in mano saracena. In mezzo si estendeva un territorio ostile i cui difensori, dopo una prima fase di sbandamento, cominciavano ad organizzarsi e passare al contrattacco. Da invasori i musulmani stavano per trasformarsi in assediati.
La salvezza, probabilmente insperata, venne dalla Spagna. Una flottiglia di predoni iberici al comando di un famoso avventuriero soprannominato Fargalus sbarcò in Sicilia ed accorse in aiuto dei correligionari stretti d'assedio a Mineo. Sopraggiunsero quasi nello stesso tempo anche gli attesi rinforzi dall'Ifriqiya. Fargalus, accettato anche dagli africani come comandante in capo, occupò varie fortezze e affrontò le milizie bizantine sotto Mineo. Fu un massacro. Lo stesso generale greco, Teodoto, rimase ucciso sul campo, mentre i resti del suo esercito andarono a rinchiudersi precipitosamente fra le mura di Castrogiovanni. A questo punto però scoppiò nel campo musulmano una delle ricorrenti epidemie di cui rimase vittima lo stesso Fargalus. Una parte dei musulmani spagnoli decise quindi di reimbarcarsi. Altri però rimasero e si unirono all'esercito aghlabita uscito da Mazara per andare ad assalire Palermo.
L'assedio della città, difesa da forti mura e rifornibile dal mare, durò un anno, dall'agosto 830 al settembre 831. Popolazione e presidio opposero una resistenza disperata. Secondo una fonte islamica, dei settantamila uomini rinchiusi a Palermo all'inizio dell'assedio, solo tremila restavano in vita al momento della capitolazione. Le cifre sono naturalmente esagerate, ma la strage dei palermitani fu certo enorme. La città, svuotata di abitanti, venne scelta come base di operazioni e, in prospettiva, come capitale musulmana dell'isola. In pochi decenni, una periferica città dell'impero bizantino si sarebbe trasformata in una grande metropoli araba.
La conquista di Palermo fu preludio alla stabile presa di possesso della Sicilia occidentale, quella che verrà poi detta Val di Mazara. La conquista usciva dalla convulsa fase iniziale e l'emiro Ziyadat Allah si affrettò ad inviare suo cugino Muhammad ibn Abd Allah come wali,suo legittimo rappresentante nell'isola. Nell'835 vennero coniate in Sicilia monete arabe in nome dell'emiro aghlabita e del suo luogotenente.
L'ulteriore penetrazione musulmana si andò sviluppando secondo un disegno strategico ben preciso. I bizantini avevano concentrato il loro sforzo difensivo su Castrogiovanni e quindi su una linea che, avendo come centro quella piazzaforte, tagliava l'isola in due, da Cefalù a Butera. Contro questa linea, e soprattutto contro Castrogiovanni, i saraceni mantennero una costante pressione, anche con puntate offensive che penetravano profondamente nel settore bizantino, fino a Taormina o Siracusa. Queste scorrerie dietro le linee, oltre a seminare il panico e scompaginare le difese bizantine, fruttavano ricco bottino in prigionieri, animali, beni di ogni tipo. La guerra di conquista in tal modo si autoalimentava.
Nel frattempo le fortezze bizantine dell'interno del Val di Mazara, praticamente chiuse in una sacca, venivano assediate ed espugnate o costrette alla resa ad una ad una. Fra l'839 e l'841 caddero Caltabellotta, Corleone, Platani e molti altri centri di incerta o impossibile identificazione e localizzazione.
Per garantire il controllo del mare e quindi la sicurezza delle operazioni terrestri venne anche realizzata una efficiente squadra navale. Alcune unità vennero munite di dispositivi incendiari e furono quindi in grado di misurarsi ad armi pari con le navi da guerra bizantine armate del temuto "fuoco greco".
Padroni ormai della Sicilia occidentale, i musulmani intensificarono le operazioni contro la parte orientale dell'isola. Fra l'842 ed l'843 venne espugnata Messina, anche con l'aiuto di contingenti napoletani. "Empie alleanze" fra cristiani e musulmani come questa non furono nell'alto medioevo un'eccezione.
Nell'845 fu assalita ed espugnata l'antica città di Modica. Nell'846-847 fu messo l'assedio a Lentini i cui difensori dovettero arrendersi dopo una sfortunata sortita. Nell'848 cedette a condizioni anche Ragusa. Sembra che in questa fase della conquista i musulmani puntassero a creare il vuoto attorno alle due più importanti fortezze rimaste ai bizantini, Castrogiovanni e Siracusa, e ad isolarle fra loro tagliando le comunicazioni.
Questa strategia venne sviluppata negli anni successivi da al-Abbas ibn Fadl, uno dei più abili condottieri militari che la storia dei musulmani di Sicilia ricordi. Nell'853 al-Abbas assediò Butera, costretta a consegnare un gran numero di prigionieri. La città controllava da un'altura la costiera meridionale ed era ubicata lungo una delle vie attraverso cui molto probabilmente veniva rifornita Castrogiovanni. L'anno prima al-Abbas aveva assalito Caltavuturo. Questa roccaforte proteggeva Castrogiovanni da nord-ovest controllando la strada che lungo la valle del fiume Imera Settentrionale conduceva dalla costa verso l'interno. Nell'858 venne stretta d'assedio Cefalù, già inutilmente assalita nell'837. La cittadina costiera, munita di una formidabile acropoli naturale, era un altro punto attraverso cui Castrogiovanni poteva ricevere soccorsi dal mare. La sua capitolazione fu quindi premessa indispensabile all'assalto finale contro il bastione ennese.
Castrogiovanni è una delle più formidabili fortezze naturali del mondo. Arroccata sulla sommità di un vasto acrocoro roccioso a quasi mille metri, è difesa da dirupi vertiginosi ed accessibile solo da pochi punti facilmente controllabili. Per i mezzi bellici altomedievali la città era quindi quasi inespugnabile, nonostante il taglio parziale delle comunicazioni e dei rifornimenti. A prestar fede alle fonti arabe, fu il tradimento di un prigioniero destinato a morte che permise ai musulmani l'ingresso nella munitissima acropoli. In cambio della vita il condannato promise ad al-Abbas di guidare un reparto di commandos all'interno della fortezza. Una notte di inverno dell'859 un drappello condotto dal traditore si inerpicò per i fianchi della rocca e giunse ai piedi delle mura mentre le sentinelle, approssimandosi l'alba, avevano allentata la vigilanza. Il prigioniero indicò l'imboccatura di un acquedotto e ad uno ad uno i musulmani vi si inoltrarono, sbucando all'interno della città.
Gli assalitori corsero allora verso una porta, uccidendo quanti incontrarono sul cammino. Spalancato l'accesso dall'interno, al-Abbas entrò a cavallo a Castrogiovanni, seguito dal grosso delle sue truppe. Fu una strage immensa, celebrata alla fine con la consacrazione di una rudimentale moschea dove al-Abbas presiedette alla preghiera del venerdì. Eccezionale il bottino in schiavi, gioielli, denari, robe; grande l'esultanza in Ifriqiya; profondo lo scoramento a Bisanzio. Sull'onda dell'emozione, un forte corpo di spedizione bizantino sbarcò a Siracusa ed andò a farsi massacrare dai soldati di al-Abbas. In più, la flotta musulmana intercettò quella greca mentre imbarcava i superstiti, sconfiggendola a sua volta.
Intanto, alla notizia dello sbarco di rinforzi bizantini si erano ribellate alcune località della Sicilia occidentale precedentemente già sottomesse. Le cronache nominano Platani, Caltabellotta, Caltavuturo ed un'altra fortezza che la incerta grafia non permette di identificare con precisione. Al-Abbas affrontò i ribelli con la consueta determinazione, sbaragliandoli. Quindi piombò addosso ad un ulteriore corpo di spedizione bizantino, ricacciandolo verso Siracusa.
Nell'agosto dell'861, mentre era impegnato in una scorreria in Sicilia orientale, al-Abbas morì dopo una brevissima malattia.
La sua vicenda si chiudeva dopo undici anni di strepitosi successi militari in Sicilia. Il suo nome incuteva paura anche dopo la morte ed i siciliani ne esumarono il cadavere e lo bruciarono, intendendo disperderne con le ceneri anche il ricordo.
La caduta di Siracusa
Non fu facile trovare un successore dall'energia e dall'abilità militare pari a quelle di al-Abbas. In rapida successione si alternarono come governatori due figure di secondo piano, Ahmad ibn Yaqub e Abd Allah, figlio di al-Abbas. Alla fine, nell'862, la scelta degli emiri di Ifriqiya cadde su Khafagia ibn Sufyan che riprese la politica aggressiva di al-Abbas. Varie spedizioni vennero lanciate contro Siracusa e la Sicilia sud-orientale. Le truppe musulmane riportarono alcune sanguinose sconfitte campali ma riuscirono ad espugnare, fra 864 ed 865, Noto e Scicli. Nell'866 Khafagia occupò una città da identificarsi probabilmente con Troina e sottomise di nuovo Noto e Ragusa, ribellatesi al dominio musulmano. Un colpo di mano contro la munitissima Taormina, condotto dal figlio di Khafagia Muhammad, fallì, quando già i musulmani si erano impadroniti di una delle porte della città.
Nonostante alcuni parziali rovesci, però, il cerchio intorno a Siracusa si andava chiudendo lentamente. L'assedio della metropoli bizantina fu preceduto dalla consueta razzia che fece terra bruciata in tutta la Sicilia orientale, da Rometta, a Taormina, a Catania, alla stessa Siracusa. Nell'estate dell'877 l'esercito musulmano occupava i sobborghi della città ed il comandante stabiliva il proprio quartier generale nell'edificio dell'antica cattedrale paleocristiana. Montate le macchine d'assedio, i musulmani alternarono al tiro micidiale dei mangani e delle baliste violenti assalti condotti con l'ausilio di testuggini, elepoli e mine sotterranee. Tutti gli accorgimenti, tutti gli stratagemmi della poliorcetica del tempo vennero impiegati dagli assedianti. Fu messo a punto un sistema di tiro dei mangani quasi orizzontale che permetteva di battere direttamente in breccia, evitando i colpi a parabola che provocavano in confronto pochi danni.
Dal canto loro i siracusani, fra i quali si trovava quel Teodosio Monaco che dell'assedio lascerà un impressionante reportage,cercarono di controbattere colpo su colpo. Inutile fu l'arrivo di rinforzi da Bisanzio. Una squadra navale greca fu sconfitta ed i musulmani rimasero padroni anche del mare antistante la città.
La fame e le malattie da denutrizione cominciarono a mietere vittime, soprattutto fra gli strati più poveri della popolazione siracusana. I generi alimentari, come accade sempre in questi casi, venivano venduti al mercato nero, a prezzi esorbitanti. Un moggio di grano, quando si aveva la fortuna di trovarlo, costava centocinquanta bizantini d'oro; uno di farina duecento; una testa di cavallo quindici o venti. Si iniziò a mangiare di tutto: erbe, cuoio, ossa triturate. In ultimo, i cadaveri degli uccisi in combattimento. Così, fra gli assalti furibondi, l'incubo dei bombardamenti con macchine da getto, fame e malattie, passarono l'inverno e la primavera dell'anno 878 a Siracusa. Da Bisanzio non giunse più alcun aiuto. La viltà, l'incapacità, l'indecisione bloccarono una nuova spedizione di soccorso in un porto del Peloponneso. Siracusa fu abbandonata al proprio tragico destino.
Con l'arrivo della bella stagione gli assedianti ripresero in grande stile le operazioni. Il tiro delle macchine venne concentrato contro il baluardo che difendeva la città dalla parte del porto. Alla fine di aprile parte della torre rovinò e pochi giorni dopo crollò anche un settore attiguo delle mura. I bizantini collocarono una scala di legno e continuarono a difendersi disperatamente dalla sommità del baluardo, da allora detto «torre del malo augurio». I cittadini si battevano fianco a fianco ai soldati della guarnigione, mercenari delle più diverse provenienze: mardaiti, peloponnesiaci, gente di Tarso. Un esercito di fantasmi laceri, affamati, disperati.
La mattina del 28 maggio 878 subentrò una strana calma apparente. Il patrizio, il grosso della guarnigione e della popolazione superstite era nelle case, a dormire o a rifocillarsi; la breccia e la «torre del malo augurio» erano presidiate da un pugno di militi. Alle sei le macchine concentrarono d'improvviso il tiro sulla torre. Il patrizio accorse alla breccia seguito dai suoi soldati ma era già troppo tardi. L'ufficiale di guardia ed i suoi uomini erano già stati uccisi ed i saraceni irrompevano in massa in città. Era un fiume inarrestabile. Una resistenza disperata venne tentata davanti la chiesa del Salvatore ma i soldati bizantini vennero fatti a pezzi prima ancora che potessero mettersi in posizione. La porta della chiesa fu sfondata e la gente che vi aveva cercato rifugio venne massacrata: donne, vecchi, bambini, indistintamente.
L'arcivescovo e tre sacerdoti si nascosero nella cattedrale, travestiti. Vennero scovati dai saraceni e, riconosciuti come religiosi, categoria protetta dalle norme di guerra islamiche, risparmiati e presi prigionieri. Il patrizio ed un pugno di nobili si barricarono in una torre e resistettero ancora alcune ore, prima di essere catturati. Nel frattempo continuò la caccia all'uomo: i soldati presi con le armi in pugno vennero massacrati, risparmiati per la schiavitù i civili e le donne. Il patrizio ed i suoi ultimi compagni vennero uccisi dopo alcuni giorni, selvaggiamente, a colpi di pietre, bastoni, lance. I corpi vennero bruciati. Ad un soldato di Tarso, Niceta, che dall'alto delle mura durante i combattimenti imprecava contro gli assalitori e malediceva Maometto, venne riservato un trattamento particolare. Fu legato a terra supino e scorticato vivo dal petto in giù; poi gli furono aperte le viscere e fu finito a morsi e pietrate.
I trucidati furono molte migliaia. Pochissimi scamparono lanciandosi in mare su imbarcazioni di fortuna. Enorme il bottino. Per due mesi i musulmani sfogarono la loro violenza anche sulle pietre. Le fortificazioni furono diroccate, le chiese distrutte, le case abbattute. Alla fine fu dato fuoco alle rovine. L'esercito vincitore, trascinandosi dietro una massa di prigionieri, abbandonò la città ridotta ad un cimitero, ad un cumulo fumante di macerie. I prigionieri, fra i quali l'arcivescovo e Teodosio cui dobbiamo la descrizione dell'eccidio, furono condotti a Palermo. Rimasero per anni a marcire nelle prigioni, mescolati ad una folla di altri infelici. Vennero riscattati, pare, solo nell'885.
Con la caduta di Siracusa, la conquista poteva dirsi realizzata per più di due terzi. A Bisanzio restava soltanto la parte nord-orientale della Sicilia, da Demenna (San Marco) a Rometta e Taormina. Era un triangolo montagnoso, di accesso difficile, difeso da fortezze appollaiate su impervie cime. Qui, aiutati dal terreno favorevole e dalle continue discordie nel campo avverso, i cristiani si sarebbero difesi ancora per più di ottant'anni.
La prima caduta di Taormina
La notizia della caduta di Siracusa e dell'eccidio dei difensori suscitò a Bisanzio una fortissima impressione. L'espugnazione della capitale del "tema" siciliano venne vissuta come una dolorosa mutilazione. Tanto più che, imbaldanziti dal successo, i musulmani fin dall'879 avevano attaccato anche la zona di Taormina, riportandovi qualche successo.
L'imperatore Basilio il Macedone tentò un contrattacco. Una flotta bizantina venne inviata verso occidente e uscì vittoriosa da alcuni scontri con forze musulmane provenienti da Creta, dall'Africa e dalla Sicilia. La squadra navale continuò quindi verso l'isola e prese terra nell'880 su un punto della costa non lontano da Palermo. Le truppe bizantine dettero il guasto a diverse contrade della Sicilia nord-occidentale e si trincerarono su un rilievo delle Madonie, fondando o fortificando una città che dalle fonti viene detta «Città del Re». Amari ritenne si trattasse dell'odierna Polizzi, un toponimo di chiara origine greca (da Polis, "città"). Non può però escludersi una seconda identificazione con il centro detto nel XII secolo Ruqqah Basili,da ubicarsi forse non lontano dall'odierna Castelbuono. Si trattava, in ogni caso, di una importante posizione strategica. «Città del Re» costituiva una costante minaccia ai settori della Sicilia ormai controllati dai musulmani e, d'altra parte, rappresentava un primo antemurale a difesa dell'area nord-orientale ancora bizantina.
La risposta saracena fu una micidiale incursione condotta nell'estate 881 dal nuovo governatore di Sicilia al-Hasan ibn al-Abbas fin nel territorio di Catania e Taormina. Il presidio bizantino, uscito incontro agli assalitori sotto il comando dello stratega Barsakios dovette tornare precipitosamente a Taormina, lasciando molti uomini sul terreno. Sulla via del ritorno, al-Hasan dette il guasto ai campi di una città detta dalle fonti Bakara.È difficile possa trattarsi di Vicari, situata troppo ad occidente, in una zona allora già pienamente controllata dai musulmani. Potrebbe essere l'antica Gangi, come ritenne l'Amari, oppure la scomparsa città di Vaccaria, presso Sperlinga, ancora esistente nel XII secolo. I bizantini, però, reagirono e riuscirono a sconfiggere sanguinosamente i musulmani. «Così - come scrisse Amari - con varia fortuna si combattea».
L'anno successivo si verificò sulle Madonie uno scontro risoltosi nuovamente in carneficina per i musulmani. Gli sconfitti erano comandati da un Abu at-Tawr, il cui nome rimase alla rocca di Caltavuturo (da Qalat Abu at-Tawr,la "fortezza di Abu at-Tawr"), forse luogo della battaglia e del "martirio" dell'eroe. La vittoria dei bizantini, guidati dallo stratego Mousilikes, secondo una agiografia, venne propiziata da un'apparizione miracolosa.
L'enclave bizantina di «Città del Re» non resse comunque ancora a lungo alla pressione musulmana. Il nuovo governatore arabo Muhammed ibn al-Fadl, insediato dopo la rotta di Caltavuturo, lanciò nell'882 un'incursione contro il territorio di Catania. Al consueto rogo delle messi seguì uno scontro coi bizantini, duramente sconfitti. La spedizione continuò quindi verso Taormina che subì anch'essa la distruzione dei raccolti. Seguì un nuovo scontro vittorioso con un'altra schiera cristiana e quindi, sulla via del ritorno verso Palermo, l'assalto e l'espugnazione della «Città del Re». I difensori, come consueto, vennero trucidati dal primo all'ultimo. Il settore bizantino si riduceva definitivamente all'area etneopeloritana.
Contro questo ridotto i musulmani realizzarono incursioni a ritmo stagionale. Nell'estate dell'884 o dell'885 il territorio di Rometta venne infestato dalle truppe del nuovo governatore al-Husayn ibn Ahmed che morì però durante la spedizione. Al suo posto venne nominato Sawada ibn Muhammed ibn Khafagia che realizzò almeno due spedizioni contro la Sicilia orientale, distanziate da una breve tregua.
Anche la penisola italiana subì in quegli anni terribili attacchi musulmani. Nell'888 una flotta araba partì dalla Sicilia alla volta dei possedimenti calabresi dell'impero bizantino. Il nuovo imperatore Niceforo Foca, succeduto a Basilio il Macedone, spedì una flotta che si scontrò con quella musulmana nelle acque di Milazzo. Fu per i cristiani una terribile carneficina. Gran parte delle navi venne affondata, i morti furono molte migliaia, almeno a dar credito alle fonti. Gli abitanti di Reggio e delle località vicine fuggirono fra i monti. I musulmani presero terra, predarono gran bottino e poterono reimbarcarsi e tornare indisturbati a Palermo. Per i bizantini dovette essere una magra consolazione la cattura, poco dopo, in combattimento navale, del condottiero musulmano Mugbar ibn Ibrahim ibn Sufyan. L'anno successivo (889) Taormina veniva nuovamente attaccata da Sawada ibn Muhammed ed invano assediata. Poi, per qualche anno, l'attività bellica contro i bizantini venne sospesa a causa di dissidi e feroci lotte interne. Una tregua venne stabilita fra 895 ed 896 ed i bizantini ne approfittarono per inviare rinforzi a Taormina e Reggio.
La guerra santa contro i bizantini riprese però con l'invio in Sicilia di Abd Allah, figlio dell'emiro di Ifriqiya Ibrahim II, che sedò momentaneamente le guerre civili in campo musulmano.
Nell'estate del 900 il territorio di Taormina subì nuovamente le scorrerie consuete ma il presidio non ebbe difficoltà a respingere un attacco contro l'abitato. Avvicinandosi l'inverno Abd Allah mise l'assedio a Catania, sperando di poter più facilmente vincere la resistenza della città, di sito assai meno forte rispetto a Taormina. Anche qui le operazioni non conseguirono però alcun risultato definitivo e Abd Allah dovette ritirarsi a Palermo per svernare.
Nella primavera del 901 il condottiero musulmano uscì nuovamente in campo e andò a porre l'assedio a Demenna. Saputo che i bizantini preparavano un'armata in Calabria, Abd Allah li assalì, sbaragliandoli sotto Reggio. La città venne saccheggiata ed una flotta bizantina sopraggiunta in soccorso fu a sua volta distrutta nelle acque dello Stretto. Le mura di Messina vennero smantellate «per castigo o cautela», come scrisse l'Amari, quindi per punire gli abitanti cristiani di una possibile defezione o per eliminare alla base ogni possibile velleità di rivolta. L'offensiva di Abd Allah continuò poi sulla terraferma italiana, con nuovi combattimenti, nuovi assedi, nuove vittorie. Quindi, carico di onore e bottino, il condottiero musulmano rientrò a Palermo, base di partenza, e di lì passò nuovamente in Africa.
Il padre di Abd Allah, Ibrahim II, rinunciò in suo favore alla carica di emiro di Ifriqiya. Dopo l'abdicazione, invece di presentarsi a Baghdad, come ordinatogli dal califfo abbasside, per rispondere delle accuse e delle lagnanze dei suoi sudditi, Ibrahim proclamò la guerra santa contro i bizantini di Sicilia. Un esercito di volontari si radunò nella primavera del 902 su una spiaggia non lontana da Susa e di lì salpò verso l'isola. Sbarcato a Trapani, Ibrahim si diresse verso Palermo, continuando per strada ad arruolare gente per il gihad.Poi, quando il corpo di spedizione fu sufficientemente forte e numeroso, nel luglio 902, Ibrahim mosse contro Taormina.
L'antica città, dopo la caduta di Siracusa, era divenuta il capoluogo del ridotto bizantino. Munitissima già per sito e fortificazioni, l'antica Tauromenium era stata ulteriormente rafforzata dagli strateghi imperiali. La già citata epigrafe in greco di Castel Mola, il paesino abbarbicato ad una rupe sopra Taormina, ricorda la costruzione di un castello (kastron)per iniziativa del «patrizio e stratego» Costantino. Si tratta forse di un Costantino Caramalo che da varie fonti bizantine sappiamo esser stato inviato in quegli anni dall'imperatore Leone il Sapiente a difendere Taormina. Nella città si recò anche Sant'Elia da Castrogiovanni le cui esortazioni e nefaste profezie non bastarono però ad infiammare sufficientemente l'animo dei difensori. Ad ogni buon conto, il santo vegliardo si allontanò da Taormina scuotendo la polvere dai calzari prima che Ibrahim avesse iniziato le operazioni d'assedio.
All'approssimarsi delle truppe musulmane, il presidio bizantino tentò una sortita e dette battaglia in campo aperto. L'esito incerto del combattimento fu risolto, secondo le fonti arabe, dallo stesso Ibrahim. Recitati alcuni versetti del Corano, il condottiero si buttò nella mischia. I più fanatici lo seguirono nell'attacco, riuscendo così a mettere in fuga precipitosa i bizantini. Chi poté - e tra questi, pare, Costantino Caramalo ed il suo secondo in comando - scappò via mare; i meno fortunati guadagnarono l'incerta salvezza rappresentata dal castello di Taormina.
Mentre gli ultimi difensori greci, fidando nell'inaccessibilità del loro rifugio, si concedevano un momento di riposo, Ibraim studiava la topografia del sito. Trovato un punto dove la salita si mostrava difficile ai limiti dell'impossibilità, e che per questo non era sorvegliato, mandò avanti un commando di fanatici combattenti negri. I bizantini se li videro piombare addosso d'improvviso e non riuscirono ad abbozzare una valida resistenza. Nel frattempo Ibrahim guidò all'attacco il grosso dell'esercito musulmano. Anche il castello di Taormina così venne espugnato.
Era il primo d'agosto del 902. La strage ordinata da Ibrahim non risparmiò donne, bambini e sacerdoti, categorie normalmente protette dalle consuetudini islamiche di guerra. Il vescovo Procopio rifiutò di abiurare e venne ucciso dopo feroci sevizie; con lui furono trucidati i fuggiaschi rastrellati nei boschi e nelle grotte dove avevano cercato scampo. Spartito il bottino, Ibrahim approfittò della vittoria e del terrore suscitato per cercare di sottomettere interamente il ridotto bizantino dell'area peloritano-etnea. Quattro diverse schiere furono inviate contemporaneamente contro Demona, Rometta, Aci ed una misteriosa fortezza chiamata dalle fonti arabe Miqus,forse il Monte Antennamare. Demona e Miqus erano però già state evacuate dagli abitanti dopo la caduta di Taormina. Gli abitanti di Rometta ed Aci domandarono l'aman ed ottennero la vita e forse anche la libertà personale. Le mura delle due roccaforti vennero però smantellate e, nel caso di Aci, le pietre gettate a mare.
La reazione di Bisanzio, dopo lo scoramento iniziale, fu ancora una volta debole ed incerta. Caramalo fu condannato a morte dall'imperatore per viltà. La sentenza venne commutata poi nella monacazione forzata equivalente, in pratica, all'ergastolo. Fu riscosso denaro per arruolare truppe da spedire in Sicilia. Il funzionario incaricato, però, l'eunuco Rodofilo, fu sorpreso a Tessalonica da una scorreria musulmana proveniente dalla Siria e condotta dal rinnegato Leone. Rodofilo, che non volle confessare dove aveva nascosto il tesoro, morì fra le torture. Il sacrificio fu vano, perché l'oro dell'armata di Sicilia finì egualmente nelle mani del traditore Leone che per averlo minacciò di bruciare tutta la città.
L’ultima resistenza bizantina: la caduta di Rometta
Bisanzio non si rassegnò mai alla perdita dell'isola e seguì sempre le vicende dell'antica provincia, cercando il momento giusto per il contrattacco. D'altra parte, la pur vittoriosa campagna del 902 contro il ridotto peloritano-etneo non dette ai musulmani il saldo e definitivo controllo di quell'area. Consumata la strage dei difensori di Taormina ed accettata la resa delle altre fortezze, le truppe musulmane si allontanarono dalla regione, lasciandovi forse piccoli presidi.
Non sappiamo per quanto tempo ancora le comunità cristiane continuassero a pagare regolarmente i tributi promessi all'atto della capitolazione. Già nel 911 l'emiro fatimida Ibn Abi Khinzir guidò una nuova spedizione contro il Val Demone, dove i cristiani si erano sollevati. Le campagne intorno Demenna vennero saccheggiate ed arse e furono presi molti prigionieri. I musulmani non osarono però attaccare la fortezza.
Poco dopo, approfittando delle guerre civili che imperversavano in campo musulmano, i cristiani fortificarono nuovamente anche Taormina. A Palermo, intanto, la reazione antifatimida aveva portato al potere un esponente dell'aristocrazia tradizionalista, Ahmad ibn Qurhub, cui il califfo abasside riconobbe il titolo di emiro. Nel tentativo di rafforzare e legittimare la sua autorità, Ahmad ibn Qurhub organizzò una spedizione contro Taormina. Al piano non era estranea la volontà del nuovo governatore di Sicilia di stabilire una base fortificata lontana da Palermo, un sicuro rifugio dove asserragliarsi in caso di nuove guerre civili nella parte occidentale dell'isola. Ibn Qurhub spedì così nel 913 il figlio Ali ad assediare Taormina. La città si difese gagliardamente per tre mesi, fin quando un ammutinamento fra le truppe musulmane non costrinse Ali a togliere il blocco. L'insuccesso contribuì ad accelerare la caduta di ibn Qurhub e dei suoi, fatti giustiziare dal califfo fatimida nel 916.
Nell'estate del 919 il nuovo emiro fatimida Salim ibn Rasid concedeva una tregua a Taormina ed alle altre fortezze del Val Demone. Si allentava quindi, in quegli anni di sanguinose guerre civili, la pressione musulmana contro l'ultimo settore cristiano dell'isola. I tributi dovuti non vennero più versati, cosa di cui si lagnavano nel 947 i nobili della tribù Tabari levatisi in tumulto a Palermo contro il governo.
La lotta contro i cristiani del Val Demone poté riprendere efficacemente soltanto quando la dinastia kalbita, con al-Hasan ibn Ali al-Kalbi ed il figlio Ahmad, assunse saldamente l'emirato siciliano in nome dei fatimidi d'Africa. Nel maggio 962 Ahmad ibn Hasan, dopo aver riportato molti successi militari in Calabria, mosse contro Taormina. Al suo esercito si unirono soldatesche africane guidate dal cugino al-Hasan ibn Ammar. Taormina si difese per più di sette mesi. Alla fine i musulmani riuscirono a tagliare l'acqua agli assediati che furono costretti a chiedere la capitolazione. Ahmad ibn Hasan rifiutò però ai vinti qualsiasi concessione oltre la vita. Gli abitanti di Taormina vennero in buona parte ridotti in schiavitù ed i loro beni confiscati. La città ebbe mutato il nome in al-Muizziyah in onore del califfo fatimida al-Muizz e vi fu accasermato un forte contingente musulmano.
Le altre località del Val Demone, dopo la nuova caduta di Taormina, dovettero affrettarsi a chiedere l'aman.Rimase in armi Rometta, «solo avanzo - scrive l'Amari - de' municipi greci e romani di Sicilia».
Anche per Rometta, però, la fine era ormai vicina. Nell'agosto del 963 al-Hasan ibn Ammar piantò le sue tende sotto la fortezza e cominciò a martellarla con il tiro delle macchine. La resistenza degli abitanti si dimostrò più dura del previsto. I musulmani tirarono su delle baracche, costruirono un castello per ibn Ammar e trincerarono il campo, proseguendo l'assedio per più d'un anno.
Dalla cittadella assediata era partita intanto una richiesta d'aiuto all'imperatore Niceforo Foca che accarezzò il progetto di riconquistare tutta l'isola. Era incoraggiato nell'ambizioso programma dalla recente campagna che gli aveva consentito di recuperare all'impero Creta (961). A Bisanzio venne quindi organizzato un fortissimo esercito composto in prevalenza da armeni, mercenari russi, eretici pauliciani. Per il trasporto delle truppe fu allestita una numerosa flotta. A capo dell'impresa venne posto il protospatario Niceta, un eunuco. Suo secondo e comandante della cavalleria venne nominato un nipote dell'imperatore di nome Manuele, «giovane d'animo bollente - sono parole dell'Amari - testa dura e cieco valore».
Ahmad ibn al-Hasan chiese aiuti in Africa ed il califfo al-Muizz inviò una forte squadra navale al comando del padre di Ahmad, al-Hasan ibn Ali. Mandati avanti alcuni contingenti, al-Hasan restò col grosso delle truppe a Palermo, pronto ad intervenire. A metà d'ottobre del 964, intanto, l'esercito bizantino sbarcava a Messina, l'occupava e vi si trincerava, ricostruendo le mura e scavando un fossato. Un contingente sbarcava inoltre presso Termini, allo scopo evidentemente di tagliare la strada per Rometta alle truppe musulmane di stanza a Palermo. Poi, con grave errore strategico, l'esercito bizantino venne indebolito con il distaccamento di truppe spedite ad occupare Taormina, Lentini e la stessa Siracusa.
Mentre Niceta incrociava lungo le coste con la flotta, Manuele si inerpicò con la cavalleria verso Rometta, dopo aver disperso altre truppe inviandole a forzare alcuni passi montani tenuti dai saraceni. All'alba del 25 ottobre 964 si accese la battaglia sotto Rometta. I bizantini, riferiscono le fonti, furono ad un passo dal cogliere la vittoria ma si sbandarono per scarsa disciplina. Nel contrattacco musulmano lo stesso Manuele venne ucciso ed il panico scompaginò totalmente l'esercito bizantino. La battaglia si trasformò in una sanguinosa caccia all'uomo, durata fino a notte. Più di diecimila, secondo le fonti arabe, furono i morti nel campo cristiano.
I difensori di Rometta assistettero impotenti alla strage e tuttavia decisero di continuare la resistenza. Donne, vecchi e bambini furono fatti uscire dalla fortezza: vennero presi prigionieri dai musulmani e spediti a Palermo. L'assedio si protrasse sino ai primi del 965 e terminò con la strage completa dei difensori. A Rometta venne stanziato un presidio musulmano. Il trionfo fu reso completo dal rastrellamento delle zone effimeramente rioccupate dai bizantini e dalla vittoria che la flotta musulmana riportò su quella imperiale nello Stretto di Messina. Con la caduta di Rometta finiva ogni resistenza organizzata. La Sicilia era ormai passata interamente sotto il dominio islamico.