Segno dei tempi. Le migrazioni dei popoli, di Prosper Grech
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 27/4/2016 un articolo scritto dal cardinale Prosper Grech. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2016)
Sergey Ponomarev, Lesbo 16 novembre 2015, «The New York Times»
Ai miei tempi si parlava di “invasione dei barbari” per descrivere quel fenomeno storico del primo medioevo europeo. Oggi, si chiama con il termine, più politically correct, “la migrazione dei popoli”. Fin dal termine del terzo secolo varie genti cominciarono a erodere le frontiere settentrionali e orientali dell’impero romano.
Era naturale che il miraggio di una città prospera e potente attraesse l’attenzione e la cupidigia di quei popoli vicini che non avevano raggiunto un tale grado di civiltà e di benessere. Nonostante lo sforzo di Diocleziano di riconquistare le terre perdute, il processo segnava l’inizio del declino di Roma, dovuto a diversi fattori: sociali, politici, economici, morali e demografici.
Inoltre, quando Costantino stabilì la sua sede a Bisanzio, l’Occidente divenne preda dei popoli circostanti i quali approfittavano delle crepe dell’impero per estendere il proprio potere. Il culmine fu raggiunto quando Alarico conquistò e saccheggiò Roma nel 410.
Da allora unni, ostrogoti, visigoti, alemanni e altri continuarono a devastare l’impero. È ovvio che tale fenomeno non si manifestò solamente nell’impero romano. Era un fatto ricorrente in ogni parte del mondo lungo la storia delle diverse civiltà orientali e occidentali. Può accadere per cercare terre più fertili, o semplicemente per scopi espansionistici.
Noi ci soffermiamo sulla storia romana perché questa ha qualcosa da dire alla nostra generazione. I vari popoli che si impossessarono dei territori romani avevano anch’essi i loro costumi, religioni e culture. Era da prevedere che la cultura più forte e più antica dei romani prevalesse su quelle più deboli e meno consolidate. Però era inevitabile che questi vari popoli lasciassero anch’essi la loro impronta sui popoli di più antica civiltà. Accadde dunque una fusione con prevalenza romana che, dopo un lungo periodo di assestamento, diede vita alla grande civiltà medievale, con le sue università, cattedrali, letterature, filosofia e arte.
Quale altra era sorgerà dopo la fusione di tutte le razze e culture dell’Europa odierna? Gli invasori di allora trovarono sì un impero in declino con molte debolezze, ma incontrarono anche un popolo ancora giovane con uno spirito forte e credenze ben definite, con risposte credibili ai problemi dell’esistenza umana: i cristiani. Questi avevano permeato l’impero da secoli e avevano infuso una nuova anima nel pensiero e nella cultura delle genti che popolavano i territori dell’impero.
La nuova Europa dunque, era unita non soltanto da una lingua comune, ma da una fede comune e da una cultura erede del pensiero greco e romano nonché della giurisprudenza romana . Ciò nonostante perdurarono i nazionalismi, in bene o in male. C’erano delle guerre sì, ma l’eredità greco-romana-cristiana fiorì nelle grandi letterature di ciascuna nazione per mezzo di uomini come Dante e Shakespeare.
Ciò che abbiamo detto finora lo conosce ogni scolaro. Lo abbiamo riferito perché può servirci per interpretare il fenomeno analogo del movimento costante verso l’Europa di masse di gente dal Medio Oriente e dall’Africa. Sarebbe falso e offensivo chiamare questo fenomeno un’invasione da cui dobbiamo difenderci. Sarebbe come se chiamassimo invasione l’emigrazione di centinaia di migliaia d’italiani in Germania, in Belgio e negli Stati Uniti, dove si sono amalgamati con gli abitanti, anche se con non poca difficoltà.
È soltanto un altro caso di tali avvenimenti ricorrenti nella storia di ogni continente. L’analogia, però, ha i suoi limiti. Abbiamo detto che gli immigranti o gli invasori dell’antichità avevano trovato una Chiesa giovane, ancora nel pieno del suo sviluppo che ha potuto assorbirli nella sua fede.
Gli immigranti di oggi sono in prevalenza musulmani. Sono uniti con la lingua araba, e per loro l’islam è una religione e un marchio d’identità. Quale fede incontrano in un’Europa in crisi, affetta da un continuo processo di laicizzazione e spesso anticristiana? Possiamo ben chiederci se saremo noi cristiani a trasmettere agli immigranti i valori evangelici ovvero a sconcertarli con la confusione dei nostri morese con il relativismo intellettuale corrente.
Certamente una tale massa di gente che arriva in continuazione crea, nelle diverse nazioni, non pochi problemi sociali, economici e logistici di difficile soluzione. D’altra parte non ne possiamo fare a meno a causa del calo generale demografico, particolarmente in Italia. A parte ogni considerazione utilitaristica però, non possiamo tirarci indietro, in una situazione che ci sfida a fare uso di tutte le risorse ereditate dalla nostra tradizione umanistica e cristiana; altrimenti i “barbari” saremmo noi!
A parte queste considerazioni morali, dobbiamo chiederci se tutto questo sconvolgimento nel Medio Oriente non sia anche un “segno dei tempi” che bisogna leggere alla luce della Sacra Scrittura. Dio ci vuole dire qualcosa? La caduta di “Babilonia” di cui parla l’Apocalisse, cioè la rovina di un sistema economico e politico che costituisce un peccato strutturale ricorrente nella storia, può essere letta in chiave contemporanea.
I frequenti richiami alla conversione rivolti a Gerusalemme da Geremia nell’imminenza dell’invasione dei babilonesi non parla anche a noi che siamo continuamente minacciati dal terrorismo? Infine, la lunga lista dei vizi dei pagani nel primo capitolo della Lettera ai Romani non descrive ancora certi mores odierni di cui ci vantiamo come “conquiste culturali”?
È compito della Chiesa, unica autorità morale in un mondo di valori caotici, interpretare, per i fedeli e per tutti, i segni dei tempi. In un anno santo dedicato alla misericordia, il grido profetico della Chiesa perché apriamo gli occhi alla dimensione storico salvifica degli avvenimenti attuali, come fece Agostino nel De civitate Dei, sarebbe il più grande dono che Dio, nella sua misericordia, può elargire a tutti gli uomini di buona volontà.