Il corpo femminile una riserva naturale, di Fabrice Hadjadj
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Il Centro culturale Gli scritti (25/4/2016)
È tornata la primavera. Gli alberi fioriscono, gli uccelli cinguettano, le ranocchie si rimettono a gracidare – perlomeno in quei luoghi dove ancora ci sono rane, uccelli e alberi. Perché, per molti abitanti delle città, i segni della primavera sono altri: un soleggiamento che disturba la visione degli schermi ma che illumina un po' meglio le nuove promozioni esposte nelle vetrine e soprattutto le maniche corte, le minigonne e le scollature delle ragazze a passeggio…
Non ci fossero più gli uccelli, ci sarebbero ancora quei seni da colomba. Non ci fossero più i fiori, ci sarebbero ancora quelle gambe che spuntano come pistilli fantastici dalla corolla. E le rane sono là, nelle nostre gole, sotto le nostre cinture, pronte a far sentire il loro rauco appello, pronte a balzare al passaggio di quelle ninfe spaesate dove si concentra ormai tutto quel che resta delle grazie della bella stagione…
Dove trovare, infatti, la natura in mezzo al cemento ad alte prestazioni, le vetrate dinamiche e le autostrade dell'informazione? Dove sono, nelle nostre città connesse, le foreste e i fiumi, le cerve e i boschi se non in quelle che nella mia lingua francese un tempo erano dette “belle piante” o “leggiadre gazzelle”, senza sapere che un giorno esse sarebbero state il rifugio dell'ultima gazzella e dell'ultima pianta?
Nel mondo super-urbano, il corpo sessuato è l'ultimo bastione della vita naturale, per non dire della vita selvaggia. Ed è per questo che le rivendicazioni che pesano su di esso sono sempre più forti e, non potendo essere sostenute, finiscono per schiacciarlo.
Certo, nella poesia come nella pittura, la presenza femminile è da sempre legata al paesaggio. Lo capta, lo condensa, gli dà una forma abbracciabile. Basta leggere il Cantico dei Cantici: qui, nel corpo della persona amata – che non è soltanto un microcosmo ma un cosmo che si offre al nostro desiderio – si ritrovano cavalli, cerbiatti, pecore, colombe, un giglio delle valli, un giardino di melagrane, un mucchio di grano… Il poeta non smette di dirlo: Dio ha creato la donna affinché l'uomo possa abbracciare l'universo.
Questo non è nuovo. La novità è che con la scomparsa della campagna, in una megalopoli in cui gli spazi verdi sembrano più finti dei fiori finti e dove gli animali domestici somigliano a grossi giocattoli o a piccoli impiegati, l'altro sesso non riassume più la natura: deve rimpiazzarla. La carne deve supplire alla perdita della terra.
E così si fa pressione sul corpo dell'altro, gli si richiede più di quanto non possa dare: di essere, non amorosamente, ma concretamente tutto, di prendere su di sé tutta la realtà materiale, di diventare il sentiero campestre, la terra arabile, la giungla amazzonica, la mucca, la lupa, la gallina, la mantide religiosa e infine tutta la fauna e la flora e le stelle che abbiamo distrutto, allontanato o virtualizzato.
È probabilmente questa una delle ragioni per le quali carnalità e sesso sono diventati così pregnanti nel pensiero contemporaneo. Non è tanto che si cerchi di pensare la carne e il sesso. È che si ripiega su di essi, perché sono le ultime cose almeno un po' naturali, gli ultimi dati che non abbiamo ancora interamente smontato e rimontato – il fiore che resta, l'animale che persiste, la creatura appena uscita dal giardino.
Ma questa focalizzazione, invece di preservarli, li condanna a loro volta allo sfruttamento. Édith Piaf canta ne L'hymne à l'amour: «Il cielo blu su di noi può crollare / E la terra può sprofondare / non me ne importa se tu mi ami».
Ma noi non possiamo realmente amare senza poggiare i piedi sulla terra e sollevare gli occhi verso il cielo. Non possiamo chiedere all'uomo o alla donna che amiamo di essere per noi il cielo e la terra senza appiattirli o vaporizzarli. Ecco perché l'amore dell'uomo e della donna non si compie sull'isola deserta. Esige di per sé, per essere preservato, un'ecologia.