Minigonna e società. Quando il costume è politica: donne, gambe e libertà, di Pierluigi Battista
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 31/3/2016 un articolo scritto da Pierluigi Battista, modificato il 1 aprile 2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)
Anche ad Amsterdam devono aver preso ispirazione dalla Sottomissione di Michel Houellebecq, e ancora una volta questa storia della guerra culturale e religiosa che si è scatenata in Europa sul corpo amato e temuto delle donne sembra un continuo gioco di specchi tra la realtà e la letteratura, tra la politica e l’immaginazione. Il terrore autoritario per la minigonna ha una lunga storia alle spalle. Qual è il primo segnale della Parigi di Houellebecq che si sottomette all’atmosfera islamista, che rinuncia a se stessa, che vuole rinnegare tutto ciò, racchiuso nel termine onnicomprensivo di «modernità», di cui si faceva vanto? Eccolo: la fine delle gonne corte, «l’abbigliamento femminile» che «si era trasformato, lo avvertii subito», «la lunghezza delle gambe scoperte» sempre più mortificata. «Il fatto era lì: gonne e vestiti erano scomparsi», al loro posto «una specie di blusa di cotone, lunga fino a metà coscia». La blusa che imprigiona il corpo femminile e lo desessualizza, quella che i funzionari olandesi vorrebbero che le donne indossassero, lasciando le minigonne nell’armadio, per non «provocare», per non mostrarsi «sconvenienti», per non offendere, per dimostrare di essere «rispettosi», per far fuori la minigonna dalle gambe e della teste dell’Europa, simbolo peccaminoso.
Da sempre. Da quando Mary Quant ha partorito questa idea folle della gonna sopra il ginocchio da esibire con sfrontatezza e allegria, nel cuore degli anni Sessanta. La minigonna non è mai stata (solo) un capitolo della moda, ma un’idea del mondo. Ambigua, contraddittoria, ma sovraccarica di significati da sempre ben presenti nella mente di censori, educatori, conservatori, custodi delle maniere antiche e del ruolo subalterno delle donne costrette a nascondersi, mortificarsi, umiliarsi, confinarsi nella prigione dell’invisibilità sottomessa. Carnaby Street, il tempio della minigonna, della swinging London, dei Rolling Stones, della modernità sregolata e spudorata, è diventata un simbolo della ribellione molto più della Sorbona occupata dagli studenti del ’68. Non una delle tante svolte della moda ma il segno di un’epoca. Coco Chanel aveva emancipato le donne dalla schiavitù del corsetto. Oppure la nudità di Josephine Baker, esaltata dalle banane che alludevano a qualcosa di selvaggio e di irregolare, aveva incendiato i sensi e le menti di uomini che vedevano in quella fantastica ballerina l’altro mondo della normalità stanca. No, la minigonna rende democratica, popolare, di massa, la nuova dimensione in cui le ragazze sentono di aver fatto ingresso, per sempre. Spezzando gerarchie. Scoprendo, con quei centimetri di pelle visibile sopra il ginocchio, che la libertà è anche sciogliersi dai vincoli, emanciparsi dalle catene del moralismo.
Cose frivole, futili? Ad Amsterdam non credono che siano così futili. Sanno che chi è ostile alla libertà è ostile soprattutto alla libertà delle donne e chi è ostile alla libertà delle donne, da cinquant’anni almeno a questa parte, è ostile alla minigonna. Un simbolo che resiste, più del rituale dei reggiseni bruciati dalle pioniere del femminismo americano. Più degli spudoratissimi hot pants che pure, come ha ricordato Anna Meldolesi nel suo «Elogio della nudità», scatenarono la smania repressiva nei primi anni Settanta di un pretore siciliano offeso dall’indumento indossato da una turista. Tutto questo passa, la minigonna no. E le antenne dei censori hanno subito individuato il pericolo. Nelle Chiese la minigonna era proibita.
Nelle scuole francesi venne diffusa la circolare di un ministro dell’Istruzione che diffidava le famiglie affinché non permettessero alle loro figlie di riempire le aule scolastiche con quella gonna sconcia. Nei Paesi dove la sharia si è imposta come unica legge cancellando costumi e mode che da Kabul a Teheran rendevano le donne assolutamente simili alle loro sorelle dell’empio Occidente, le minigonne vennero messe al rogo, in forme molto meno graduali di quelle ipotizzate dalla fantasia realistica di Houellebecq. La minigonna era una sfida anche al desiderio dei maschi, sarebbe ipocrita negarlo. E Mary Quant appariva una beniamina capace di coniugare la libertà femminile con gli sguardi maschili. Perciò da una parte del pensiero femminista si è creduto di vedere nella minigonna l’ennesima invenzione dei maschi per manipolare il corpo delle donne. Perciò molte donne, nei cortei femministi degli anni Settanta, indossavano lunghi gonnoni a fiori che della minigonna erano l’antitesi, non solo nel senso dei centimetri di tessuto. Ma sulla imposizione repressiva, sul divieto di indossare la minigonna, su questo le differenze interne hanno sempre ceduto alla coesione solidale. Almeno sinora. Sino a quando la sindaca di Colonia ha sconsigliato le donne ad andarsene in giro con abiti che avrebbero potuto scatenare istinti incontrollabili. E i funzionari di Amsterdam ad assecondare la guerra santa contro la minigonna. Altro che frivolezza.
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