Papa Francesco, quando predica contro una teologia complicata, non predica contro la teologia di papa Benedetto, bensì contro l’astrattezza di noi catecheti, teologi e pastoralisti. Nota di Andrea Lonardo
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Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il centro culturale Gli scritti (25/3/2016)
A chi si rivolgono le critiche e le correzioni fraterne di papa Francesco su di una teologia troppo astratta, lontana dalla vita, incomprensibile per il popolo di Dio e per chi non crede?
Alcuni a torto ritengono che con queste parole il papa voglia segnare una svolta rispetto al suo predecessore. Ma l’affetto da lui sempre dimostrato per papa Benedetto smentisce - se proprio ce ne fosse bisogno, tanto la smentita è ovvia – questa ipotesi. Per dovere di cronaca si può aggiungere che lo sforzo fatto da papa Benedetto perché la teologia divenisse sempre più semplice e chiara è stato importantissimo e, aiutato dalla grazia del ministero papale, le sue omelie e le sue catechesi sono diventate cibo quotidiano di tanti catechisti e semplicissimi cristiani. È come se la grazia del ministero papale gli avesse consentito di semplificare le tante riflessioni accademiche prodotte in passato. Non si deve mancare poi di menzionare l’enciclica Lumen fidei, per la quale si è parlato di una “scrittura a quattro mani”. Mai encicliche papali erano partite dalle periferie tanto quanto le tre sulle virtù teologali, le prime due di Benedetto e la terza di Francesco: in tutte si intesse un dialogo con l’uomo moderno e con i suoi maestri anche quelli decisamente anti-cristiani, in tutte non si citano solo brani biblici, padri e dottori della Chiesa e santi, ma anche uomini alla “periferia” della fede.
Ma allora chi papa Francesco vuole provocare oggi? A chi si rivolge se le sue parole non sono rivolte ovviamente alla “teologia” di Benedetto XVI?
Ad un primo livello, è necessario ed importante dare una risposta ampia: tutti! La visione di una Chiesa che non disprezzi nessuno, che sia vicina alla gente semplice, che non trascuri, anzi metta al centro, le famiglie semplici delle nostre parrocchie e non gli esperti della fede, non gli intellettuali della fede, non i sempre “praticanti” e “sempre commentanti” della fede, vuole provocare tutti. La proposta di mettere al centro della Chiesa chi è povero, chi è nel peccato, chi ha in casa un figlio disabile, chi non ha gli strumenti per compiere complicati itinerari iniziatici è un chiaro invito a vedere la Chiesa e la vita da un diverso punti di vista.
Ma, ad un secondo livello, dobbiamo avere il coraggio di affermare che la proposta di papa Francesco riguarda noi catecheti, noi pastoralisti, noi teologi. Proprio quella visione di Chiesa di popolo deve aiutarci a porre uno stop a visioni troppo paludate, troppo accademiche, troppo complicate, troppo metodologiche, per riportarci alla vita reale e semplice delle nostre comunità cristiane e delle nostre famiglie. Ci invita a farla finita con relazioni eccessivamente accademiche, infarcite di citazioni di documenti precedenti e di citazioni magisteriali, di power-point e di classificazioni per tornare a parlare con il cuore in mano e con un po’ di passione.
Ci invita ad abbandonare tutto ciò che è troppo complicato, per un rapporto più semplice e diretto con le persone che si riavvicinano alla fede.
È incredibile che papa Francesco “governi” con la semplice omelia dei giorni feriali e con i gesti di abbracciare, baciare e incontrare chiunque.
È una testimonianza, la sua, di una vita vicina al popolo di Dio più semplice, vicina a quella gente semplice che è sempre disprezzata e messa da parte. Ed è una testimonianza della forza della semplice omelia e della semplice celebrazione liturgica, senza che si appartenga a nessun gruppo, senza che si metta in atto alcuna tecnica di dinamica di gruppo, senza che si faccia uno stage di lectio divina o di linguaggio narrativo o di analisi del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, senza che si ricorra al feedback ed alla verifica, tutte cose buone, ma che vengono dopo.
Per vivere da cristiani, ci ricorda il papa, non sono di per sé necessari piccoli gruppi, équipes di accompagnamento, cellule particolari di un tipo o di un altro, comunità di una qualità o di un’altra: serve che la vita semplice di ogni giorno, la vita di famiglia, la vita di lavoro, l’incontro con i poveri, la vita di discernimento sui fatti del mondo e della cultura, entri in contatto con Gesù, con il suo vangelo e con i suoi sacramenti.
Ecco le chiavi per un rinnovamento dell’Iniziazione cristiana - pochi registrano nelle loro pubblicazioni che il papa non utilizza mai termini come “stile catecumenale” che per la gente semplice cui lui ci manda non hanno grande significato, perché ciò che per loro conta innanzitutto è l’atteggiamento misericordioso di accoglienza e quella fraternità che respirano o che manca loro non appena si affacciano in una parrocchia.
Mettere al centro la comunità cristiana che celebra, mettere al centro la domenica, con i suoi canti, la sua liturgia della Parola, l’incontro con tutti fratelli, “con i belli e con i brutti”, esattamente come avveniva in antico, quando i catecumeni andavano a messa ancor prima di essere battezzati (uscivano solo alla preghiera dei fedeli, ma tutte le domeniche erano lì).
Ed insieme stare vicino alla gente così come essa è, “baciandola e abbracciandola”, senza essere troppo fiscali nell’impostazione del cammino, nelle sue tappe, nel suo ordine. Sapendo che, sia per i genitori che chiedono il Battesimo dei figli sia per gli adulti che chiedono di essere battezzati, tutto è molto più semplice di come a noi sembra. Si tratta di mostrare loro la novità della fede cristiana e la sua sensatezza. E se ne fa esperienza incontrando la comunità cristiana tutta intera che già vive ogni domenica la sua comunione con il Signore.
L’invito del papa non è ad organizzare ancora di più, bensì piuttosto a semplificare gli itinerari, a non essere troppo fiscali ed impositivi nelle nostre richieste. È l’invito a saper da un lato chiudere un occhio e, dall’altro, a saper offrire possibilità piene di calore e di contenuti, piene di fede e di carità perché liberamente il cuore accetti di approfittarne.
Mi permetto di aggiungere anche una notazione personale, per motivare ulteriormente quella fiducia verso la gente semplice cui il papa ci invita. La mia esperienza prima di vice-parroco – 9 anni con i giovani dalle medie al post-università - e poi da parroco – con le famiglie dell’Iniziazione cristiana - mi ha aiutato a vedere quanto interesse ci sia da parte di bambini, adolescenti, giovani ed adulti, solo che si cammini con loro offrendogli la proposta di crescere nella fede senza schemi troppo rigidi e pre-determinati, semplicemente mettendo al centro l’eucarestia domenicale offerta a tutti, vero cuore del cammino, ed accompagnandola con catechesi per fasce di età, anch’esse aperte a tutti senza distinzione di preparazione o di anni di cammino, con campi estivi e ritiri, proposte di servizio ai poveri, proposte per un servizio culturale, disponibilità al dialogo personale ed alla direzione spirituale ed alla confessione. Solo per fornire un esempio, cfr. Due lettere sul cammino di un gruppo giovanile in parrocchia, di Andrea Lonardo.
Merita soffermarsi e soffermarsi ancora sulle parole testuali delle provocazioni del papa ai teologi, ai pastoralisti ed ai catecheti. Non dobbiamo pensare di averle già digerite. Esse indicano chiaramente una linea al nostro lavoro di catecheti, teologi e pastoralisti che non possiamo disattendere.
Voglio ricordare innanzitutto l’invito ad una “chiesa di popolo” rivolto al Convegno della Chiesa italiana a Firenze, proprio perché rivolte direttamente a noi d’Italia: «La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte»[1].
Richiamo poi alcuni passaggi del discorso alla comunità dell’Università Gregoriana:
«Il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori, è disgustoso. […] Il fine degli studi in ogni Università pontificia è ecclesiale. La ricerca e lo studio vanno integrati con la vita personale e comunitaria, con l’impegno missionario, con la carità fraterna e la condivisione con i poveri, con la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore. I vostri Istituti non sono macchine per produrre teologi e filosofi; sono comunità in cui si cresce, e la crescita avviene nella famiglia» (Udienza di papa Francesco alle Comunità della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale, 10/4/2014).
Allo stesso modo siamo chiamati a riflettere sui passaggi dell’omelia nella Messa Crismale del Giovedì Santo 2016: «Come sacerdoti, noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate. Sentiamo che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva – che beviamo solo a sorsi –, ma per un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”».
In Evangelii Gaudium papa Francesco aveva già scritto:
«È necessario che i teologi abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino» (EG 133).
E ancora, riferendosi all’omelia:
«Diceva già Paolo VI che i fedeli “si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta”. La semplicità ha a che vedere con il linguaggio utilizzato. Dev'essere il linguaggio che i destinatari comprendono per non correre il rischio di parlare a vuoto. Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente. Se si vuole adattarsi al linguaggio degli altri per poter arrivare ad essi con la Parola, si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione» (EG 158).
La forza delle nostre parrocchie sta proprio nella loro semplicità, nel loro essere di tutti, nel loro non farsi fagocitare da progetti particolari, per quanto validi. La parrocchia è di tutti, è del popolo semplice di Dio e tale deve restare. Chiunque, per il solo fatto di essere battezzato, ha diritto ad essere accompagnato anche se non volesse appartenere ad alcun gruppo.
Anzi la parrocchia si offre anche a chi non è battezzato, come punto di riferimento e segno della Chiesa che accoglie e apre le porte.
Tutto questo non vuol dire che gruppi, associazioni, movimenti, cammini, ecc. ecc. non siano benvenuti e benedetti. Ma piuttosto che tutti costoro sono chiamati a non identificarsi con la Chiesa, bensì a servirla, a servire quella Chiesa che è tutto il popolo di Dio, maturo ed immaturo, presente in quel territorio.
A maggior ragione questo non vuol dire abbassare il livello della proposta, perché esso è anzi oggi incredibilmente già troppo basso. Il popolo di Dio semplice non è però stupido ed è attratto dalla liturgia ben celebrata con tutta la comunità che vi partecipa. È estremamente attento alla qualità della predicazione e della catechesi, essendo assolutamente in grado di riconoscere dove risuona la Parola di Dio che illumina la vita e dove vengono pronunciate parole banali, ripetitive ed insignificanti. È in grado di percepire immediatamente lo stile di fraternità e di carità di una comunità, dove ognuno ha interesse per gli altri e per i piccoli, ed è estremamente generoso nel coinvolgersi nel servizio.
Si tratta allora non di “abbassare l’asticella della proposta cristiana”, quanto di svincolarla dalle complicatezze proprie di una o di un’altra proposta catechetica o pastorale. Si tratta invece di mettere in risalto, fra i criteri di un vero cammino cristiano, l’attenzione non solo a chi partecipa a gruppi con ritmi impegnativi , ma proprio a tutti, l’attenzione a chi si avvicina anche solamente alla Messa o anche solamente per chiedere i sacramenti per i figli, o ancora a chi si avvicina e basta senza nemmeno sapere all’inizio perché. Si tratta di partire da ciò che esiste nel cuore degli uomini e non pretendere che le persone seguano il tutto della nostra proposta o altrimenti siano trattate da estranee.
Note al testo
[1] Cfr. su questo Un cristianesimo “popolare”. La chiara proposta di papa Francesco alla Chiesa italiana. Breve nota di Andrea Lonardo.