1/ La pedagogia dei T-Rex di peluche, di Fabrice Hadjadj 2/ Il sangue dietro il mondo digitale non è virtuale, di Fabrice Hadjadj
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1/ La pedagogia dei T-Rex di peluche, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 13/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (20/3/2016)
Ho spesso denunciato il fatto che l'immaginario storico è stato sostituito da uno preistorico o addirittura pre-preistorico. Non sono più re e regine, Romani in toga o greci in clamide che si insegnano ai bambini prima di tutto il resto, ma il diplodoco, il triceratopo, lo pterodattilo e – certamente – il divo dell'ossario: il tirannosauro, il cui nome mescola insidiosamente il tiranno e il re e che, abbreviato in T-Rex, lascia intendere che è il Christus Rex dai lunghi denti di un mondo concorrenziale e colpito da amnesia.
Devo tuttavia correggermi. C'è una profonda pedagogia del dinosauro di peluche. Con esso un bambino può non soltanto addomesticare le sue paure, come con il buon vecchio Teddy Bear, ma anche apprendere delicatamente un'idea così fondamentale da costituire ormai lo snodo tra modernità e postmodernità.
Nel suo saggio The Sixth Extinction: an Unnatural History (Premio Pulitzer 2015), Elizabeth Kolbert osserva che «l'idea di estinzione è forse la prima nozione scientifica che i bambini di oggi si trovano ad affrontare. Ai bambini di un anno si danno pupazzetti di dinosauri e i bambini di due anni comprendono più o meno intuitivamente che quelle piccole bestie di plastica rappresentano in effetti animali molto grossi. Portano ancora i pannolini e già sono capaci di spiegare che un tempo ci furono innumerevoli tipi di dinosauri e che perirono tutti, tantissimo tempo fa, in una catastrofe planetaria».
Così il T-Rex di pezza o di plastica è molto più educativo dei giocattoli educativi, giacché familiarizza il bimbo non solo con la feroce lotta per la sopravvivenza ma anche e soprattutto con la prospettiva di un'estinzione totale. È la garanzia per lui di una precocità senza precedenti.
Perché l'idea di estinzione non va da sé. Fino al XVIII secolo, gli scienziati non immaginavano che una specie potesse sparire. Per gli antichi gli animali muoiono individualmente, ma, grazie alla riproduzione, la loro specie rimane: è proprio del movimento stesso della vita il tendere all'immortalità.
San Tommaso d'Aquino, nel suo commento al De anima di Aristotele, dice: «È naturale per il vivente generare un altro essere come se stesso per partecipare sempre al divino ed all'immortale». Siamo ben lontani da questo "naturale" ormai.
La teoria dell'evoluzione – che sul piano della natura è l'equivalente della "distruzione creatrice" dell'economia liberale – ci insegna anzitutto che le specie lentamente scompaiono per far posto ad altre specie più adattate. Darwin immagina tuttavia uno slancio uniforme, senza catastrofi, in una parola progressista. È in questo che è moderno.
Ora siamo andati oltre. Curiosamente, il primo a lavorare seriamente allo studio dei fossili e sostenere improvvisamente la tesi di specie scomparse fu il fissista Cuvier. Chiamato al Museo di Storia Naturale dal governo rivoluzionario, Cuvier non credeva al progresso ma alla catastrofe. Fu forse l'esperienza della caduta improvvisa dell'Ancien régime che fece germogliare in lui in questa intuizione? Joseph de Maistre non parlava forse a questo riguardo di «distruzione violenta della specie umana»?
Ma la questione è ancor più seria. Non si tratta qui soltanto del nuovo orizzonte di un'estinzione prossima che rende caduchi tutti i sogni di un progresso indefinito. Si tratta più radicalmente di capire: se la vita non è partecipazione all'immortalità, è al contrario solo partecipazione alla morte, al massacro che senza tregua ricomincia, fino al trionfo ultimo del vuoto intersiderale? Ecco ciò che il dinosauro in peluche insinua nel bambino che, diventato grande, ha solo due alternative: o gettarsi nei divertimenti della disperazione, o aprirsi a una speranza divina che lo spinge a coltivare questa terra proprio perché non durerà per sempre e perché è gloria dell'Eterno prendersi cura dell'effimero.
2/ Il sangue dietro il mondo digitale non è virtuale, di Fabrice Hadjadj
Riprendiamo da Avvenire del 6/3/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.
Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2016)
Tutti conoscono il mito, ma chi ne conosce la realtà? Tantalo è immerso per metà in un fiume, sotto i rami di alberi da frutto; quando si china per bere, l'acqua si ritira; se stende le braccia i frutti si sottraggono; ed eccolo condannato a morire di sete in mezzo alla sorgente, mentre arde sempre di più dal desiderio che suscita in lui la promessa di refrigerio che gli sta davanti senza requie.
Perché una tale condanna? Perché ha dato suo figlio Pelope in pasto agli dèi… Invece di accogliere la nascita umana ha brigato per favori sovrumani, dimenticando che i veri dèi del cielo sono i garanti dell'ordine sulla terra e che la dismisura che pretende di avvicinarsi all'Olimpo fa in verità sprofondare nel Tartaro.
Ora, stranamente, il supplizio di Tantalo assomiglia alle delizie dell'internauta. Tutto sta sul suo schermo ma niente è realmente presente. Crede che il mondo sia diventato più piccolo, che si riversi nella sua stanza, che sia a portata di mano, quando invece non è mai stato così lontano e le sue dita non possono afferrare neanche i pulsanti della tastiera.
Come suggerisce Albert Borgmann non si tratta soltanto del virtuale: si tratta dell'“opacità” degli apparecchi tecnologici. La loro sedicente trasparenza è una dissimulazione nascosta. La loro pretesa immediatezza è una mediazione occulta. Vuoi mandare un messaggio, clic, ed è partito, è già arrivato, e tutto sembra scorrere liscio come l'olio, e tuttavia per sostenere questa fulmineità occorrono centrali nucleari, satelliti, antenne giganti che emettono onde come tsunami, enormi datacenter o server farm (giacché si utilizza il termine molto contadino di “fattoria” per designare questi parchi di macchine, e credo che si potrebbe parlare anche di “stalla” dove il verbo si fa bit) con sale più soffocanti che in un sottomarino, tubature multicolori, spaghetti di cavi, fumi che salgono verso le nuvole, come sopra la città-fabbrica di Lenoir nella Carolina del Nord.
Ci si può stupire dell'ignoranza di un Ray Kurzweil che sogna di immortalare la sua coscienza personale grazie a “supporti non-biologici”, come se questi supporti non fossero ancora più materiali del corpo umano, e per questo più fragili, più dipendenti dalle incertezze del mercato mondiale. Ma, conformemente al mito, occorre che il trans-umanista consegni il bimbo agli dèi digitali per avere in cambio soltanto immagini di frutti e fontane la cui realtà gli sfugge.
Non è tutto. Il software ci nasconde l'hard, ed ecco qui il più hard, ecco, dietro la pseudo-immaterialità della tecnologia, la sua materialità più pesante: i minerali necessari alla fabbricazione dei suoi componenti, e dunque le miniere, giudiziosamente delocalizzate lontano dal cybersurfer, dove uomini, donne e bambini lavorano in condizioni in confronto alle quali il “Voreux” (la miniera raccontata da Emil Zola in Germinale) sembra un'attrazione di Disneyland.
Ed ecco qui il più bello: come per caso, tra questi “minerali di sangue” ce n'è uno specialmente dedicato all'elettronica, ai condensatori dei nostri computer e in particolare dei cellulari, che si chiama – ve la do a mille contro uno – il tantalio. Derivato dal coltan, il tantalio proviene principalmente dalla regione del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove alcuni gruppi armati da anni uccidono, saccheggiano e stuprano per avere il controllo dell'estrazione.
Dal 1998 a oggi, guerre e guerriglie e le loro fatali conseguenze hanno causato non meno di 6 milioni di morti. L'industria dell'elettronica può vantare un'efficacia simile a quella dei campi di concentramento. E di averci incorporati in una specie di grande Sonderkommando mondiale. Perché i tasti che scatenano i massacri, come una volta si azionava la leva della camera a gas, sono quelli dei nostri piccoli meravigliosi apparecchi che ci aprono all'“immateriale” e all'“immediato”… Certo, ho potuto avere queste notizie tramite Google. La macchina che realmente partecipa al male è anche quella che virtualmente lo denuncia. Ma noi siamo come Tantalo alla rovescia: vediamo le vittime dei nostri schermi sui nostri schermi e le nostre mani non possono venire loro in aiuto.