Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. Una guida per la visita, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /03 /2016 - 14:42 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito una guida al Palatino ed ai Fori Imperiali scritta da Andrea Lonardo come memoria dei diversi itinerari proposti a gruppi diversi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti (13/3/2016)

N.B. Il presente itinerario è la collazione di diversi itinerari proposti nel tempo con gruppi diversi. Per realizzarlo concretamente si suggerisce di ridurre il numero delle tappe e delle catechesi scegliendo di volta in volta quelle che si ritengono più adatte. Seguirà un secondo itinerario sulla figura di san Pietro, su cui vedi già La basilica di San Pietro in Vaticano: guida per la visita. I testi di www.giubileovirtualtour.it, di Andrea Lonardo.

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1/ Introduzione storica per situare in parallelismo la cronologia imperale e la cronologia neotestamentaria e dei primi decenni del cristianesimo (dal panorama su via di San Gregorio dalla salita al Palatino, a fianco dei resti degli archi Celimontani dell’acquedotto Claudio)

San Paolo entrò probabilmente in Roma da Porta Capena, accompagnato dal gruppo dei cristiani che gli erano andati incontro, oltre che dai soldati romani che lo conducevano nell’urbe. Porta Capena è la porta ormai scomparsa aperta lungo le antiche Mura Serviane: è localizzata dagli archeologi al di sotto dell’attuale piazza di Porta Capena. Prendeva il suo nome dalla città di Capua, perché, attraversandola, si imboccava la strada che portava a quella città. L’ingresso in Roma venne spostato più a sud già in età romana con la costruzione di Porta Appia - oggi Porta San Sebastiano – appartenente al nuovo recinto delle Mura Aureliane. Oggi è Porta San Sebastiano a segnare l’inizio del cammino verso il sud della penisola, quello che si snoda, appunto, sulla via Appia, ma al tempo di Paolo le mura Aureliane non erano ancora state costruite, per cui egli entrò nell’urbe proprio in quel punto che oggi è riconoscibile solamente da un incrocio semaforico. Vale la pena fermarsi ad immaginare l’antica porta, mentre Paolo la attraversa. Un buon punto per fermarsi a riflettere su questo evento così importante è la strada bianca, all’interno della zona archeologica del Palatino, che passa al fianco dei resti dell’acquedotto subito dopo essere entrati da via di San Gregorio. Paolo giunse a Porta Capena percorrendo la via.

Il Colle Palatino è oggi uno dei luoghi più belli di Roma perché su di esso si possono visitare le rovine del palazzo imperiale e godere dei migliori panorami sul centro della città. Il legame fra il colle ed il Palazzo è così forte che proprio l’attuale termine “palazzo” deriva da “Palatino”, il colle sul quale sorgeva appunto il “palatium” per eccellenza, la residenza imperiale. I resti ancora visibili permettono di ricostruire le diverse fasi della residenza che venne eretta dall’imperatore Augusto, negli anni quindi della nascita e della vita nascosta di Gesù.

Prima di visitare le rovine vale la pena dare uno sguardo globale alla cronologia del periodo imperiale, per poterla comparare con gli eventi neotestamentari: questo aiuterà a situare poi gli eventi della vita di Gesù e degli apostoli nel contesto degli eventi politici del tempo, in relazione alle rovine che via via si visiteranno – soffermarsi sui resti di alcuni edifici permette di soffermarsi anche visivamente nella scuola e nella catechesi sulle origini e sui primi secoli del cristianesimo.

I primi cinque imperatori appartennero ad un’unica dinastia, quella giulio-claudia. In realtà già Giulio Cesare governò da solo e con lui venne ad essere utilizzato il termine “imperator” in un senso nuovo, mentre prima con esso si indicava la figura di un generale delle truppe. Ma è solo con Ottaviano che si chiarisce definitivamente il nuovo utilizzo del termine: Ottaviano si fece chiamare Princeps, Caesar (come erede dell’autorità di Giulio Cesare), Augustus (etimologicamente “colui che accresce”, titolo che gli attribuiva un’aurea di nobiltà personale) ed, appunto, Imperator.

Cesare Ottaviano Augusto viene allora indicato dalle fonti come il primo imperatore: fu durante il suo governo che nacque Gesù, come affermano chiaramente i vangeli.

Ad Ottaviano succedette Tiberio, che fu il secondo imperatore: fu sotto il suo governo che Gesù venne crocifisso e risorse da morte: Ponzio Pilato era, a quel tempo, rappresentante di Tiberio in Giudea. Durante il suo regno avvenne ancor prima la predicazione del Battista e, alcuni anni dopo, la conversione di san Paolo.

A Tiberio successe Caligola, terzo imperatore romano, noto per aver espresso il desiderio di porre statue delle divinità romane all’interno del Tempio di Gerusalemme: a questa sua espressa richiesta fa probabilmente riferimento, come si vedrà, il Vangelo di Marco.

Quarto imperatore fu Claudio, durante il cui regno avvennero fatti molto importanti per la comunità primitiva descritti da san Paolo, cui si accennerà subito, come l’espulsione degli ebrei da Roma e, con essi, di Aquila e Priscilla e come l’incontro dell’apostolo con Gallione.

Quinto imperatore fu Nerone durante il cui regno vennero uccisi Pietro e Paolo: si attirò via via l’odio della popolazione romana e, per questo, cadde in disgrazia e non riuscì a designare un nuovo erede al trono. Giunse così al termine con lui la dinastia giulio- claudia.

Dopo aver visto in sequenza gli imperatori della dinastia, qualche approfondimento.

Nello schema a disposizione è possibile rendersi conto visivamente innanzitutto del lunghissimo regno di Ottaviano Augusto che durò 44 anni: la sua età venne chiamata saeculum augustum o saeculum aureum, a sottolineare che fu un periodo di splendore economico e letterario, con grandi letterati, giuristi, poeti.

Nel 4 a.C., durante il governo di Augusto, morì Erode il Grande – che, come si vedrà, venne fatto re da Ottaviano e Antonio, allora triumviri, proprio qui ai Fori, nella Curia del Senato. Gesù, quindi, nacque prima di questa data, come si può dedurre dal riferimento dei vangeli alla strage dei bambini innocenti: generalmente si pone la nascita del Cristo al 6 o al 5 a.C.

Tiberio morì invece nel 37 d.C. e suo governatore in Giudea fu Ponzio Pilato. Ponzio Pilato governò quella regione dell’impero romano per ben dieci anni (26-36 d.C.); sono gli anni del processo e della condanna a morte di Gesù. Sotto Tiberio si deve collocare anche la predicazione di Giovanni Battista, che è attestata anche dagli storici pagani tra il 27 e il 29 d.C. Sotto Tiberio si deve collocare anche la vocazione di san Paolo, intorno al 36 d.C., quindi probabilmente nell’ultimo anno di Tiberio. Perché è possibile datare tale conversione con relativa certezza? Perché Areta IV, che era re nabateo, cioè della zona conosciuta nell’Antico Testamento con il nome di Edom, il regno che aveva per capitale Petra al di là del Giordano, morì nell’anno 39 o 40 d.C. e quando Paolo venne condotto a Damasco, dopo aver incontrato il Cristo sulla via che portava appunto a Damasco, ne fuggì proprio a motivo di Areta. Così racconta lo stesso Paolo nella Seconda lettera ai Corinti: «A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani» (2 Cor 11, 32-33). Areta potrebbe essere il re di Petra che fece realizzare la famosa Khazneh (letteralmente il “tesoro”), il tempio funerario più famoso di Petra, ma la cosa non è certa.

A Tiberio successe Caligola. È certo che egli voleva far erigere una statua – probabilmente delle divinità romane oppure di tipo dinastico - all’interno del Tempio di Gerusalemme: la cosa destò giustamente grande preoccupazione presso il popolo ebraico che difendeva la dedicazione del Tempio a Yahweh e che sosteneva un deciso aniconismo a partire dall’Antico Testamento. Alcuni studiosi collegano questa decisione di Caligola ad un’espressione misteriosa del vangelo di Marco:

«Quando vedrete l’abominio della devastazione presente là dove non è lecito – chi legge, comprenda –, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano sui monti» (Mc 13,14). Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo-ellenista, giunse anche lui qui al Palatino presso Caligola, per farsi ricevere dal sovrano ed invitarlo a porre fine alle vessazioni che subivano gli ebrei di Alessandria d’Egitto.

A Caligola successe Claudio e durante il suo impero si verificarono eventi neotestamentari databili con certezza. Innanzitutto il proconsolato di Gallione. Dagli Atti degli Apostoli si sa che Paolo venne interrogato a Corinto dal proconsole Gallione. Questo incontro segna una data fondamentale, insieme a quella della morte di Areta, per la cronologia paolina. Gallione era il fratello di Lucio Anneo Seneca, il grande filosofo: i due erano fratelli di sangue. Gallione fu governatore dell’Acaia, la regione di cui Corinto faceva parte, ed il suo proconsolato è databile con certezza fra il 50 e il 52 d.C.: dunque in quegli anni Paolo fu a Corinto. A partire da quella data si riescono poi a collocare con precisione cronologica alcuni fatti. Poiché Paolo inviò la Prima Lettera ai Tessalonicesi prima di essere interrogato da Gallione, tale Lettera va situata negli anni 50-51 ed è pertanto probabilmente il testo più antico del Nuovo Testamento perché anteriore all’incontro con Gallione: la Lettera è, infatti, scritta da Atene (1 Tes 3,1), prima che Paolo arrivi a Corinto.

Ma sotto Claudio avvenne anche un altro episodio molto importante per la cronologia neotestamentaria, episodio che è ricordato pure nelle fonti pagane. Esse informano che sotto Claudio avvenne una rivolta dei giudei di Roma: infatti, un testo dello storico pagano Svetonio ricorda che si verificò un tumulto nell’urbe che coinvolse gli ebrei della città “impulsore Chresto”, cioè "a causa di un Cresto che spingeva" – il fatto è raccontato nella Vita Claudii. L’evento avvenne probabilmente nell’anno 49 ca. Lo storico pagano, avendo sentito che gli scontri fra fazioni ebraiche avvenivano a nome di un tal Chresto, deve aver pensato che questi fosse un agitatore politico o un capopopolo del tempo di Claudio. Invece quel Chresto – a motivo del fenomeno linguistico dello iotacismo che porta il suono “i” a modificarsi spesso in “e” – è proprio Gesù Cristo. Evidentemente gli ebrei dell’epoca insorgevano contro quei loro confratelli pure ebrei che erano diventati cristiani ed il nome di Cristo generava dissenso: sarà solo nell’anno 90, probabilmente, che gli ebrei decretarono la definitiva espulsione dei cristiani dalle sinagoghe.

Il nome di Cristo, solo una quindicina di anni dopo la sua morte e resurrezione, era quindi già così noto a Roma che la comunità ebraica era divisa al suo interno per questo. Una parte rifiutava Gesù, un’altra parte affermava che quell’uomo era il Cristo, che era il Messia atteso da Israele. Claudio cercò di placare gli scontri espellendo gli ebrei – cioè l’una e l’altra parte – dalla città, ma ovviamente il suo ordine dovette avere carattere transitorio.

Si ritrova traccia di questa espulsione in Atti 18,1-2, senza menzione però della causa del fatto. Gli Atti raccontano che una coppia di sposi, di nome Aquila e Priscilla, si trovavano a quel tempo in Grecia perché espulsi dall’urbe a motivo dell’editto di Claudio: «Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei».

È veramente un fatto enorme che già nell’anno 49, una quindicina d’anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo, il cristianesimo a Roma era così importante che faceva discutere la comunità ebraica locale.

A Claudio successe Nerone. Sotto il suo governo, che andò dal 54 al 68 d.C., venne scritta certamente la Lettera ai Romani generalmente datata dagli studiosi tra il 55 e il 58 d.C. Dal tenore del testo si evince chiaramente che Paolo non era ancora mai venuto a Roma e che aveva inviato la Lettera, di cui si parlerà più avanti, per preparare la sua venuta. È quindi uno scritto che egli invia per presentarsi, per spiegare cosa verrà ad annunciare, raccontando cos’è per lui la fede e la grazia che salva. Generalmente si ipotizza che Paolo sia arrivato a Roma fra il 59 ed il 60 d.C. e che vi sia arrivato insieme ad altri cristiani ed, in particolare, a Luca – come si vedrà fra breve.

Sempre durante il regno di Nerone deve essere situata l’uccisione di Giacomo il Minore, che dovette avvenire nell’anno 62 d.C. Anche questa fu decretata dal Sinedrio, nel periodo in cui la Giudea non ebbe un prefetto romano, poiché, morto Festo, il nuovo governatore impiegò del tempo a giungere dall’urbe. Dall’insieme dei dati si evince che nel I secolo, tragicamente, l’ebraismo perseguitò il cristianesimo fino alla morte; poi, ancor più tragicamente, nei secoli che seguirono, fu la fede cristiana a perseguitare in diverse occasioni il popolo ebraico. Vennero poi gli anni recenti nei quali, a partire dalla II guerra mondiale, ebrei e cristiani si ritrovarono vicini, innanzitutto negli anni dell’occupazione nazista della città, quando addirittura le suore dei monasteri di clausura nascosero nei loro conventi gli ebrei, li nascosero cioè proprio dove era vietato a chiunque l’ingresso – ovviamente ciò non poté avvenire senza l’intervento diretto del papa Pio XII che ordinò alle monache di infrangere la loro legge millenaria per l’emergenza di carità di quei mesi.

Ma, per tornare ai tempi del Nuovo Testamento, nel I secolo proseguì purtroppo da parte di alcuni responsabili del Sinedrio quell’astio che già aveva portato alla morte di Cristo. L’ebraismo cercò anche con la forza di estirpare il cristianesimo finché non si giunse all’espulsione dei cristiani di origine ebraica dalle sinagoghe: ciò dovette avvenire intorno all’anno 90 d.C.: da quel momento il cristianesimo divenne nell’impero religio illicita.

L’ebraismo, infatti, era religio licita dai tempi di Giulio Cesare: era cioè consentito agli ebrei di essere fedeli all’impero pur essendo esonerati dal rendere culto agli dèi pagani ed agli imperatori divinizzati. Finché il cristianesimo venne considerato un gruppo interno all’ebraismo, valsero queste garanzie anche per i cristiani, ma esse cessarono man mano che divenne chiara la nuova identità dei discepoli di Cristo. Nell’anno 90 appunto - così si ritiene dai più - si sancì la separazione definitiva fra ebraismo e cristianesimo.

Ma la prima persecuzioni contro i cristiani da parte romana scattò alcuni decenni prima, sotto Nerone, sicuramente nell’anno 64 d.C. In quella data vennero martirizzati i Protomartiri romani, di cui si parlerà, come ricorda un importantissimo testo di Tacito e probabilmente, anche se lo storico non lo afferma esplicitamente, fu in quella persecuzione che nel Circo presso il colle Vaticano trovò la morte Pietro, insieme a tanti altri cristiani: egli così non morì solo, ma insieme a catechisti, preti e semplici fedeli della comunità romana.

Vedere i diversi edifici realizzati qui sul Palatino e nei Fori imperiali dai diversi imperatori aiuterà a situare i dati certi della cronologia neotestamentaria.

Terminata la dinastia giulio-claudia a motivo della disgrazia di Nerone, dopo un periodo di lotte e disordini, ebbe inizio una nuova dinastia, quella dei Flavi.

Primo imperatore della nuova dinastia fu Vespasiano. Egli era ancora generale quando scoppiò la cosiddetta prima guerra giudaica nel 66. In quell’anno gli ebrei si rivoltarono al potere romano. Vespasiano stava conducendo vittoriosamente la campagna militare romana quando venne acclamato imperatore. Immediatamente prese la strada per Roma lasciando suo figlio Tito a terminare la guerra. Fu Tito, quindi, a sconfiggere definitivamente i rivoltosi giudei. Alla morte del padre Tito divenne a sua volta imperatore.

A Tito successe l’altro figlio di Vespasiano che si chiamava Domiziano. Quest’ultimo è quasi sicuramente l’imperatore che ha di mira l’Apocalisse: fu lui a far erigere a Efeso un Tempio alla dinastia flavia divinizzata, Tempio nel quale erano poste per la pubblica venerazione le grandi statue imperiali (cfr. Ap 13,14 «Per mezzo di prodigi, che le fu concesso di compiere in presenza della [prima] bestia, [la seconda bestia] seduce gli abitanti della terra, dicendo loro di erigere una statua alla bestia, che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta»).

Dopo Domiziano venne Nerva. Sebbene le fonti non siano chiarissime, sembra che con questo imperatore si sia avuta una prima inversione di tendenza nei confronti dei cristiani - qualche storico ha ipotizzato addirittura una vicinanza di Nerva al cristianesimo. Certamente già sotto Nerva alcuni personaggi della famiglia imperiale appartennero al cristianesimo.

Seguì poi Traiano, di cui si tratterà più avanti, che fu il primo imperatore ad emanare una vera e propria legge contro i cristiani, mentre la persecuzione neroniana deve essere considerata ancora episodica: è il famoso Rescritto di Traiano che chiede esplicitamente che i cristiani debbano essere perseguitati se denunziati.

Collochiamo adesso gli eventi della storia ebraico-cristiana in relazione agli imperatori della dinastia flavia.

Per la datazione del Nuovo Testamento cruciale è la data del 70 d.C., l’anno in cui Gerusalemme venne conquistata, saccheggiata e data alle fiamme. Siamo negli anni della I guerra giudaica che si svolse fra il 66 ed il 70, quando la prima grande rivolta giudaica fu sedata con la forza da Vespasiano e poi da Tito – in realtà la rivolta si prolungò ulteriormente nel tempo perché solo nel 73 cadde Masada dove si erano rifugiati gli ultimi zeloti. Ma decisivo è l’anno 70 quando anche il Tempio fu distrutto e, di fatto, la guerra ebbe termine.

In quell’anno si concluse il cosiddetto periodo del “secondo Tempio”, cioè del Tempio eretto dopo la distruzione del primo ad opera dei Babilonesi nel VI secolo a.C. Fino all’anno 70 gli ebrei ancora celebravano il culto sacrificando animali a Dio sull’altare del Tempio, ancora il sacerdozio era in vigore, ancora il Tempio era il centro del culto di Israele. Fino al 70 ancora i sacerdoti ebrei sgozzavano gli agnelli, così come gli altri animali sacrificali – anche le famiglie portavano animali al Tempio perché i sacerdoti li sacrificassero all’unico Dio. Dal 70, invece, da quando i romani distrussero il Tempio, si interruppe la ritualità templare e sacrificale d’Israele, mentre restò solo il culto sinagogale, basato sull’ascolto della Torah. Nacque così quello che viene chiamato il “giudaismo” che non è più l’ebraismo biblico, o meglio è l’ebraismo biblico ma con delle varianti significative.

Perché l’anno 70 è importante anche per la datazione del Nuovo Testamento? Perché quella data fornisce un criterio per la datazione degli scritti. Se da uno scritto appare evidente che il Tempio è ancora in attività, quello scritto è anteriore al 70. Se invece il Tempio è chiaramente distrutto, quello scritto è posteriore, almeno nella sua ultima redazione.

Ad esempio, nella Lettera agli Ebrei si parla del Tempio come chiaramente esistente, si dichiara che i sacerdoti si recano nel Tempio che è descritto come un’entità vivente. Questo fa ritenere che quel testo, poiché la liturgia templare è descritta come operante dall’autore che non accenna minimamente alla sua cessata attività, sia anteriore all’anno 70.

Il riferimento al Tempio è utile anche per la datazione dei Vangeli. Generalmente si ritiene che il Vangelo di Marco sia stato scritto prima del 70 d.C. per lo stesso motivo, cioè perché vi si accenna alla profezia di Gesù sulla distruzione del Tempio, ma in maniera molto vaga, mentre in Luca e Matteo la fine del Tempio è descritta con particolari che indicano che l’evento è avvenuto ed è avvenuto in un determinato modo: «Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte» (Lc 19,24). Quindi i Vangeli di Matteo e Luca nella loro redazione finale hanno conosciuto la fine storica del Tempio di Gerusalemme e sono perciò successivi al 70. Marco non l’ha conosciuta, ma riferisce solo della profezia di Gesù.

Sempre durante la dinastia flavia, sotto Domiziano, proprio a causa della I guerra giudaica Flavio Giuseppe, così importante per la storiografia del I secolo, venne a Roma. Flavio Giuseppe è il grande storico ebreo, che portando il nome di Giuseppe vi aggiunse poi quello di Flavio perché volle onorare la dinastia dei Flavi. Partecipò alla rivolta ebraica come condottiero in Galilea, legato inizialmente agli zeloti. Sulle alture vicino il Lago di Tiberiade si consegnò ai romani e passò dalla parte dei vincitori, facendosi “romano”. Tutt’oggi, in alcuni testi storiografici di parte ebraica, è considerato come uno dei grandi traditori. Venuto a Roma, vi scrisse una serie di opere, le più famose delle quali sono la Guerra giudaica e le Antichità giudaiche. Scrisse questi testi per mostrare all’imperatore - e alla cultura romana - che gli ebrei erano un popolo valente, nonostante la rivolta, che erano capaci di vivere in obbedienza all’impero e che di loro non si doveva avere paura poiché la loro fede era carica di valori. Negli scritti di Flavio Giuseppe si parla, fra l’altro, dei diversi gruppi presenti nell’ebraismo di allora: i farisei, i sadducei, gli esseni, gli zeloti. Flavio Giuseppe parla anche di Gesù, con chiarissimi riferimenti alla sua vicenda, come a quella di Giovanni Battista, che, confrontate con i testi evangelici, ne testimoniano l’affidabilità storica.

Le fonti attestano anche che i cristiani, durante il regno di Domiziano, vennero perseguitati con l’esplicita accusa di “ateismo”. Emergeva così per la prima volta l’accusa già implicita nella persecuzione neroniana: i cristiani, che affermavano a torto dal punto di vista pagano di essere credenti, erano “atei” - e, quindi, perseguibili dallo Stato che invece invitava a venerare gli dèi - perché affermavano che gli dèi pagani erano idoli e pertanto inesistenti.

Emerge qui dove si appuntava la critica del cristianesimo del I secolo alle religioni del tempo: i cristiani amavano i loro concittadini pagani e pregavano per loro, anche nel martirio, ma avevano il coraggio di affermare che la rappresentazione delle divinità che i pagani si facevano erano false e contrarie alla rivelazione del vero volto di Dio in Cristo e nella sua croce. Il cristianesimo faceva sua e prolungava la libertà di Israele che, a partire dall’incontro con il vero Dio di Abramo e di Mosè, si scagliava contro gli idoli, cioè le false e talvolta anche crudeli rappresentazioni di Dio dei popoli circostanti. Per i primi cristiani gli idoli non erano valori sbagliati – questo è il significato che il termine ha assunto oggi dove idoli sono il potere, il denaro, il sesso, ecc. -, ma immagini false di Dio presenti nel politeismo del tempo. Essi, insieme con noi, ritenevano che solo nel crocifisso che si fa carico del male degli uomini è possibile vedere il vero volto di Dio: le altre raffigurazioni delle divinità sono umane, troppo umane.

Sempre sotto Domiziano si situa cronologicamente la Lettera di Clemente ai Corinzi. Clemente è vescovo di Roma e scrive ai Corinzi. È il primo intervento della Chiesa di Roma al di fuori dell’urbe. Già alla fine del I secolo, insomma, la comunità di Roma inviava una lettera a Corinto invitando la comunità locale a cessare le divisioni presenti fra preti e fra preti e vescovo, rileggendo in maniera straordinaria il messaggio inviato decenni prima da san Paolo alla stessa comunità ed, in particolare, l’inno (o “elogio”) alla carità.

A Domiziano successe Nerva e si ipotizza da parte degli studiosi, avendo come fonte Eusebio di Cesarea, che durante il suo regno Giovanni, o comunque l’autore dell’Apocalisse, poté tornare da Patmos a Efeso, poiché la persecuzione contro di lui era cessata.

Si giunge quindi a Traiano, il primo imperatore che emanò la prima disposizione contro i cristiani con valore di legge e non come atto provvisorio e momentaneo. La legge fu emanata a partire da una precisa richiesta da parte di Plinio il Giovane, originario insieme a Plinio il Vecchio, lo zio, del nord Italia, precisamente di Como. Plinio il giovane, verso la fine della sua vita, venne mandato in Bitinia - nell’odierna Turchia - e da quella regione scrisse a Traiano chiedendo lumi. Traiano rispose emanando le condizioni della persecuzione, come si vedrà in seguito.

Sotto Traiano venne martirizzato Ignazio di Antiochia, di cui si parlerà più avanti nella spiegazione al Colosseo. Ignazio venne perseguitato probabilmente già con le leggi emanate da Traiano. Egli era vescovo di Antiochia di Siria, la città nella quale per la prima volta i discepoli di Gesù vennero chiamati “cristiani”. Antiochia era la città più importante del tempo dopo Roma e Alessandria d’Egitto: era così la terza città dell’impero. Ignazio ne venne prelevato e venne poi deportato per nave – è possibile seguire tramite le sue lettere tutto l’itinerario percorso - finché arrivò a Roma dove venne martirizzato quasi sicuramente al Colosseo perché lui parla proprio dei leoni che lo divoreranno.

Si può riassumere, anche per memorizzarla, la lista dei primi dieci imperatori, cinque per ognuna dinastia, ricordando che fra le due ebbero il dominio alcuni imperatori di minore importanza di cui qui non si è parlato. Regnarono in successione Ottaviano Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone della dinastia giulio-claudia e Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva e Traiano della dinastia Flavia.

Cronologia

DINASTIA GIULIO-CLAUDIA
30 a.C.-14 d.C. OTTAVIANO (saeculum augustum) Nel 4 a.C. morte di ERODE IL GRANDE Prima del 4 a.C. NASCITA DI GESÙ CRISTO
14-37 d.C. TIBERIO 26-36 PONZIO PILATO, prefetto in Giudea *) 27-29 predicazione di GIOVANNI IL BATTISTA
*) 30 ca. MORTE E RESURREZIONE DI GESU' CRISTO
*) 36 ca. vocazione di S. PAOLO (comunque prima del 39/40 perché in quell'anno morì il re nabateo Areta IV, re di Petra, e Paolo, appena convertito, sfuggì da un governatore di quel re facendosi calare in una cesta dalle mura di Damasco (2 Cor 11, 32-33)
37-41 CALIGOLA Progetto di una statua imperiale nel Tempio di Gerusalemme  
41-54 CLAUDIO 50-52 proconsolato di GALLIONE, fratello di SENECA, in Acaia *) 49 ca. oppure 41: tumulto a Roma "IMPULSORE CHRESTO" ("a causa di Cristo che incitava"), nella Vita Claudii di Svetonio; il fatto si ritrova in At 18,1-2 che racconta di Aquila e Priscilla allontanati da Roma a causa di un ordine dell'imperatore Claudio)
*) PAOLO dinanzi a Gallione fra il 51 e il 52 ca.
*) Prima di questa data, I LETTERA AI TESSALONICESI
54-68 NERONE 64 incendio di Roma *) tra il 55 e il 58 LETTERA AI ROMANI
*) ca 59-60 PAOLO E LUCA a Roma (brani "noi" di At)
*) 62 uccisione di GIACOMO IL MINORE, il "fratello del Signore" durante l'assenza del governatore romano
*) 64 ca. persecuzione dei cristiani e martirio di a Roma
I FLAVI
69-79 VESPASIANO *) 66-70 I rivolta giudaica
*) 70 DISTRUZIONE DEL "SECONDO" TEMPIO DI GERUSALEMME
70: a partire da questa data si possono datare molti scritti del NT (ante quem o post quem)
79-81 TITO    
81-96 DOMIZIANO *) Opere di FLAVIO GIUSEPPE
*) fra l'80 e il 90 espulsione dei cristiani dalle sinagoghe
*) Persecuzioni per "ateismo"
*) Lettera di CLEMENTE ai Corinzi
96-98 NERVA   Secondo Eusebio è sotto Nerva che Giovanni venne liberato dall'esilio di Patmos e tornò ad Efeso
98-117 TRAIANO   *) Fra il 111 ed il 113 lettere sui cristiani fra PLINIO IL GIOVANE e TRAIANO
*) Martirio di IGNAZIO D'ANTIOCHIA a Roma, non sappiamo se prima o dopo le lettere di Plinio e Traiano
GLI ANTONINI
117-138 ADRIANO 132-135 II rivolta giudaica Rescritto di Adriano nella prima Apologia di Giustino
138-161 ANTONINO PIO   *) 140-150 ca. PASTORE DI ERMA,
*) 153-160 APOLOGIE DI GIUSTINO
161-180 MARCO AURELIO   Martirio di GIUSTINO

2/ Perché san Paolo e san Pietro sono giunti fino a Roma? (dal panorama sul Circo Massimo nei resti del Palazzo imperiale)

Ambientazione

Vi propongo di riflettere su di un primo aspetto che qui possiamo visualizzare bene. Perché Paolo è giunto fin qui? Perché Pietro è venuto fino a Roma? Perché tanta gente è venuta fin qui a portare Cristo? Qui è possibile, di nuovo, immaginare il loro arrivo.

Da questa terrazza magnifica si vedono in basso i resti del Circo Massimo. Tale Circo era il grande circo di Roma, era il luogo delle più importanti corse delle quadrighe. Si potrebbe paragonare a ciò che è oggi per l’Italia l’autodromo di Monza. Era il luogo della massima velocità allora possibile. Un auriga guidava un cocchio trainato da quattro cavalli e sfidava altre quadrighe nella corsa.

Quando Costantino trasferì la capitale a Costantinopoli fece costruire anche lì un ippodromo analogo, oggi trasformato in piazza: è quello che ancora oggi ha al centro l’obelisco di Teodosio, vicino a Santa Sofia e alla Moschea Blu.

L’imperatore da questa alta tribuna poteva vedere le corse, ma ovviamente aveva un podio proprio ai fianchi del Circo. A quei tempi vi correvano quadrighe appartenenti a squadre contraddistinte da quattro colori: quella dei rossi, quella degli azzurri, quella dei verdi e quella dei bianchi. I tifosi erano così divisi in quattro tifoserie che divenivano talvolta dei veri e propri partiti politici che lottavano fra loro anche nella vita cittadina.

Guardando a sinistra, dove è la torre medioevale della Moletta, un tempo appartenuta alla famiglia dei Frangipane - di cui fece parte anche Jacopa dei Settesoli, discepola di san Francesco di Assisi che forse vi abitò – si vede chiaramente piazza di Porta Capena. Da quella porta ormai scomparsa si accedeva a Roma provenendo dal sud dell’Italia. Lì giungeva la via Appia che partiva da Brindisi. La via ricevette nuova sistemazione con Traiano. Paolo raggiunse la via Appia dopo essere sbarcato da Malta a Pozzuoli, che era il porto più importante vicino a Roma (Napoli non era ancora una città importante, mentre Pozzuoli era così importante che vicino ad essa sorgeva il porto della flotta imperiale romana vicino Capo Miseno). Da Pozzuoli san Paolo risalì verso Roma lungo una via litoranea che si collegava poi con la via Appia.

Ora la Porta, come si è già detto, è spostata un poco più a sud: è la Porta di San Sebastiano. Ma la Porta di San Sebastiano ai tempi di Paolo non esisteva. Quindi è possibile immaginare Paolo che entra in Roma proprio in quel punto, proprio dove è ora piazza di Porta Capena.

Questa arte dell’immaginazione è preziosa per far vivere anche emotivamente in noi i luoghi antichi. Come in Israele è possibile immaginare i luoghi calpestati da Gesù, così qui vale la pena immaginare cosa deve aver provato san Paolo al vedere le porte della città che si aprivano al suo arrivo.

Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che la comunità romana, saputo dell’arrivo di Paolo, per quanto egli fosse scortato da soldati, inviò incontro a lui dei fratelli perché lo aiutassero e lo accompagnassero. L’incontro avvenne in due luoghi: al Foro di Appio e alle Tre Taverne (quasi sicuramente l’odierna Cisterna), come racconta At 28,15. Si può immaginare che fra di essi vi fossero Aquila e Priscilla e qualcuno dei romani che Paolo saluta nell’ultimo capitolo della lettera scritta appunto per preparare il suo viaggio.

Non solo: la finale degli Atti, che racconta dell’arrivo di Paolo a Roma, appartiene alle cosiddette “sezioni-noi”, in tedesco Wir-stücken, degli Atti (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), cioè a quei brani dell’opera che hanno il soggetto alla prima persona plurale: “noi”. Si dice, ad esempio: «Arrivammo a Roma» (At 28,14) e non: «Paolo arrivò a Roma». L’autore di quei brani degli Atti era con Paolo. In questi testi, cioè, Luca stesso o qualcuno che è una sua fonte appare come testimone oculare a fianco di Paolo. Paolo e Luca arrivarono così insieme nell’urbe. Possiamo immaginare san Paolo e l’evangelista, ed insieme a loro Aquila e Priscilla e altri cristiani romani, nel momento in cui attraversarono Porta Capena e passarono a fianco del Palazzo Imperiale e del Circo Massimo, proprio nei luoghi che si possono ammirare da questo punto panoramico - la tradizione colloca poi la residenza di Luca a Roma nella zona sottostante la chiesa di Santa Maria in via Lata, mentre colloca la casa di Aquila e Priscilla sul colle Aventino, chiaramente visibile da questa terrazza, dove ora sorge la chiesa di Santa Prisca.

Le “sezioni-noi” cominciano in At 16,10: «Dopo che ebbe questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo» per giungere fino alla fine degli Atti con l’arrivo a Roma: «I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia» (At 28,15-16).

È possibile immaginare il dialogo che si sarà svolto fra di loro: qualcuno avrà presentato i diversi monumenti a Paolo e a Luca proprio come sto facendo io con voi.

In un’altra occasione vi invito a percorrere a piedi almeno un tratto della via Appia antica per immaginare ancora di più l’itinerario di Paolo e Luca. In estate, nei giorni festivi, il Parco archeologico di Villa dei Quintili permette l’accesso alla via Appia dalle rovine della villa e di lì, con un’ora a piedi, si raggiunge facilmente la Tomba di Cecilia Metella: sono 4 chilometri splendidi che permettono di porre i piedi proprio dove li pose l’apostolo e di immaginare quali dovevano essere allora i suoi sentimenti.

Catechesi

Affrontiamo allora di petto la domanda che questo luogo ci presenta: perché venire a Roma? Perché abbandonare la propria terra, le proprie sicurezze, per giungere in un posto così lontano e così pericoloso, che difatti portò Paolo, come Pietro, al martirio?

Si pensi anche alla fatica di questo itinerario. Uno studioso, Lorenzo De Lorenzi, ha calcolato che san Paolo percorse nei suoi quattro viaggi missionari almeno 16.500 chilometri, a piedi o in barca. Li ha percorsi attraversando pericoli di briganti e di fiere, con naufragi e persecuzioni. Tutto questo evidentemente con una motivazione fortissima che lo aiutava a superare ogni difficoltà. Quale?

Il testo che più di tutti aiuta a capire è un brano della Lettera ai Romani, scritta da Paolo proprio per preparare il viaggio. Così Paolo scrive: «Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni» (Rom 1,13).

Questa confessione di Paolo mostra che già da tempo egli aveva questa idea fissa di venire a Roma. Negli Atti è evidente che l’idea del viaggio a Roma nasce ad Efeso (At 19,21): «Paolo decise nello Spirito di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme, dicendo: “Dopo essere stato là, devo vedere anche Roma”». Ma sarà Cristo stesso a confermarlo in questa intenzione a Gerusalemme. Paolo, infatti, giunto a Gerusalemme, venne imprigionato perché un gruppo integralista ebraico voleva la sua morte, sobillato dal sinedrio (At 21,27-22,29). I soldati romani, per proteggere Paolo che altrimenti sarebbe stato ucciso sulla spianata del Tempio, lo portarono nella Fortezza Antonia. Gli Atti raccontano che, addirittura, 40 ebrei facinorosi e zelanti fecero voto di non prendere cibo prima di averlo ucciso, tanto la sua predicazione appariva loro come contraria all’ebraismo (At 23,12-15).

Quando i romani decisero di flagellarlo nella Fortezza Antonia, Paolo si dichiarò cittadino romano. La notte seguente gli apparve Cristo che gli disse di recarsi a Roma: «La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”» (At 23,11). È l’unico brano del Nuovo Testamento nel quale il Signore Gesù stesso – qui il Signore risorto – utilizza la parola “Roma”. Non sappiamo se l’abbia mai pronunciata con Cefa/Pietro, perché i Vangeli non ci dicono niente a riguardo. Ma gli Atti ci dicono che Paolo sentì pronunciare dal Signore il nome di “Roma” mentre era nella Fortezza Antonia.

Paolo sfruttò allora le possibilità che gli erano data dal suo essere cittadino romano. Pur essendo la sua famiglia di Tarso aveva acquisito la cittadinanza romana. Non si sa precisamente come, ma si conosce la prassi imperiale del tempo di concederla a famiglie importanti. Probabilmente dovette ottenerla per un motivo simile, perché solo molto tempo dopo venne emanata una Legge che garantiva a tutti la cittadinanza romana che era precedentemente riservata solo a pochi maggiorenti delle province.

Comunque Paolo usò lo stratagemma di appellarsi a Cesare, come cittadino romano. Dichiarò di voler essere giudicato a Roma e non da un tribunale della Giudea per realizzare finalmente il suo desiderio di giungere a Roma, per annunziare anche qui il vangelo.

Per lui, insomma, il cosiddetto “viaggio della prigionia”, il viaggio a Roma apparentemente così diverso dagli altri tre viaggi missionari, è in realtà uguale agli altri, è un viaggio di evangelizzazione. Già questo è estremamente istruttivo: approfittare di ogni circostanza per annunziare in nuovi luoghi il vangelo. Avviene qualcosa di simile quando un prete si ammala, deve essere ricoverato in ospedale e l’ospedale diventa un luogo di annunzio, per i suoi compagni di camera diventa l’occasione per incontrare un cristiano ed avvicinarsi alla fede.

Ma ecco che Paolo, dopo aver detto di essere stato fin lì impedito di recarsi a Roma – e abbiamo detto che sfrutterà la circostanza dell’appello a Cesare per giungervi finalmente – fornisce la motivazione: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rom 1,14-15).

È un’espressione bellissima: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti». Cosa significa qui questa parola “debito”? Chiaramente non s’intende qui certamente un debito economico da pagare. Oggi se noi diciamo a una persona: «Sei in debito, ad esempio perché hai da pagare un mutuo» descriviamo una situazione difficile. Paolo non può utilizzare ovviamente l’espressione in questo senso, anche perché non avrebbe senso sentirsi in una situazione di debito verso persone che ancora non conosce. Ma di un vero debito si tratta lo stesso! E allora?

Si potrebbe dire, in maniera semplice, che per Paolo l’essere in debito è la condizione di chi ha ricevuto qualcosa di talmente grande e bello che lo rende consapevole di non essere a posto finché non l’ha donata a sua volta a chi non possiede ancora quel dono. Paolo è in debito perché ciò che ha ricevuto è così bello e grande che avverte che quel dono è necessario per la vita di altri. Quel che gli è stato regalato è necessario anche ad altri per vivere, perché senza quel dono la vita non è fiorita in pienezza. Paolo è in debito non perché deve restituire il Vangelo a chi glielo ha donato, bensì perché lo deve dare a chi ancora non l’ha mai ricevuto!

Possiamo capirlo meglio con qualche esempio abbastanza semplice e vero.

Pensiamo alla generazione della vita, al diventare padri e madri. Perché si diventa madre o padre? In fondo ciò avviene perché io so di essere “in debito” con la vita, perché i miei genitori mi hanno dato la vita ed è realmente bello vivere. Ognuno sa che i nostri genitori hanno fatto bene a darci la vita: come possiamo noi, allora, non far nascere nuovi bambini? È perché io sono felice di vivere che mi viene in mente di dare la vita! Questo aiuta a capire anche la reale questione che oggi si pone: il problema è che molti non si decidono a generare figli perché non sono convinti a sufficienza che la vita sia bella. Non sentendosi in debito con la vita, non sentendosi di dire “grazie” a chi ha dato loro la vita, perché dovrebbero sprecare la propria vita per la vita di un figlio senza avere sicurezza se la nuova vita sarà bella e significativa? Non è l’egoismo che impedisce di generare: ciò che rende infecondi nel cuore è il non avere motivi sufficienti per dire che vivere è comunque un bene.

Un secondo esempio. Mi ricordo che quando ero ragazzo il mio parroco, che si chiamava don Tonino - adesso è in cielo - era stato precedentemente un ingegnere delle acciaierie di Terni: era una vocazione adulta perché solo ad un certo punto era diventato prete. Dato che aveva dovuto lasciare il lavoro per entrare nella comunità del Collegio Capranica per divenire prete, gli era stata offerta una borsa di studio da alcune famiglie per potersi pagare il vitto in Collegio, per poter pagare gli studi ed i libri di teologia. Una volta lo sentii dire: «Io avrò detto “grazie” a quelli che mi hanno pagato la retta al Collegio Capranica e all’Università quando avrò pagato la retta a un nuovo alunno più giovane». Questa testimonianza mostra che la gratitudine non consiste tanto nel girarsi indietro a dire “grazie” a chi ci ha fatto del bene, ma sta nel protendersi avanti e ripetere il gesto, offrire ad altri ciò che è stato donato a noi, creare le condizioni perché un altro possa avere lo stesso nostro dono.

Di fatto questo è poi ciò che avviene concretamente nella vita. Le nostre madri riceveranno molto raramente un “grazie”, soprattutto da noi maschi che siamo spesso molto parchi di parole. Mia madre avrebbe desiderato tante volte ricevere da noi figli un “grazie” esplicito, ma spesso noi non le abbiamo dato questa soddisfazione perché i maschi dicono raramente “grazie”, anche se a torto. Però quando una madre si accorge che un figlio si sposa, si fa prete, o diventa a sua volta madre o padre, capisce che in realtà gli ha trasmesso tutto, capisce di essere stata capita in ciò che ha fatto. Quando un figlio o una figlia rivive nel proprio corpo l’esperienza di metter alla vita un bambino, ecco che i genitori divenuti nonni hanno la prova che il loro amore è stato accolto e capito. Non è un grazie “diretto”, ma è ancora più significativo. “Vedo che i miei figli hanno talmente amato la vita che ho donato loro che a loro volta ne fanno dono a nuovi figli”. Se io mi limitassi a volgermi indietro e a ringraziare chi mi ha fatto un dono, resteremmo sempre e solo io e lui o lei e in realtà non nascerebbe mai niente di nuovo. Se invece io ripeto il gesto di chi mi ha amato e nasce una terza persona ecco che la gratitudine si allarga.

Allora, cosa vuol dire Paolo quando afferma di essere in debito con coloro che abitano a Roma, anche se ancora non li conosce? Vuol dire: «Mi è stato regalato Cristo senza che io lo meritassi. Lui stesso mi è apparso ed è ciò che rende la mia vita degna di essere vissuta. Allora adesso io, Paolo, voglio che a voi non manchi ciò che senza merito è stato donato a me. Finché non avrò donato Cristo a chi ancora non lo conosce, sono in debito». Per questo Paolo sente di dover andare laddove Cristo non è ancora conosciuto.

Un terzo esempio. Ricordo una semplice riflessione che mi colpì quando ero ragazzo. Non è il motivo decisivo per il quale sono diventato prete, ma lo stesso mi fece riflettere. Nella mia parrocchia c’era un viceparroco molto in gamba che si spendeva totalmente per noi ragazzi, per farci crescere e perché diventassimo cristiani. All’opposto vedevo alcuni miei compagni di classe che talvolta provenivano da parrocchie spente, nelle quali non c’era alcun gruppo giovanile, né un prete che si occupasse con intelligenza e passione dei giovani: venivano da parrocchie dove talvolta dicevano di ascoltare omelie tristi, parrocchie nelle quali non c’era nessuno che sapesse conquistare i loro cuori. E mi dicevo: «Perché io devo vivere in questa realtà così bella e loro debbono esserne privi? Non è giusto che loro non abbiano una parrocchia viva e piena di giovani, che non abbiano un prete che cammina con loro, che non abbiano un gruppo, un campo estivo, le riunioni. Chi offrirà loro questo? Chi renderà possibile vivere l’esperienza che io stavo vivendo ad altri giovani, in altri luoghi?» E pensavo: «Ma potrei farlo io questo!». Io ho ricevuto questo dono, io so come posso donarlo ad altri.

Ecco. Paolo dice: «Io sono in debito verso tutti». Notate che Paolo dice “verso tutti” e spiega poi “verso i greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti”. Paolo non seleziona i ricchi o i poveri. La parola “barbaro” proviene dalla ripetizione del suono “bar”: “bar-bar”. I latini e i greci non capivano la lingua dei galli, dei sassoni, dei teutoni, ecc. e dicevano: «Questi balbettano, ripetono espressioni come “bar-bar”, ripetono delle cose incomprensibili». Per l’uomo greco il mondo si divideva in greci - il mondo che contava - e in barbari, cioè il resto del mondo. Paolo afferma invece: «Io sono pronto a predicare il Vangelo ai greci e ai barbari. Sono pronto a predicare ai sapienti e agli ignoranti perché io sono in debito sia verso i sapienti, sia verso gli ignoranti, sono in debito verso tutti».

Due ultime considerazioni. Innanzitutto sulla vergogna e la fierezza. Paolo aggiunge un’ulteriore espressione al sentirsi in debito: «Io non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rom 1,16). Il Vangelo, per lui, non è una vergogna, ma anzi è la cosa più bella che abbia mai ricevuto perché potenza di Dio. Non lo si può tenere per sé e goderne in proprio senza donarla ulteriormente. In questo si rileva la giustizia di Dio.

L’atteggiamento abituale di tanti, invece, è questo: «Voi potete pure essere cristiani, basta che ve lo tenete per voi. Che cosa ci state a rompere le scatole!» Come se parlare di Cristo, parlarne ai figli, parlarne in pubblico, fosse una vergogna, fosse una cosa disonesta, una cosa di malaffare.

Noi non possiamo non parlare pubblicamente di Cristo, perché Cristo è una “cosa” bella”! Si predica Cristo perché il vangelo è una cosa bella – la più bella - e io le cose belle te le voglio far conoscere. Se io ascolto per la prima volta lo Stabat Mater di Pergolesi subito mi sale nel cuore il bisogno di parlarne ad altri, perché anche loro lo ascoltino. Se poi le persone che non lo conoscono non vogliono ascoltarlo sono fatti loro, ma io non riesco a non dire che è un’opera meravigliosa. Se vedo il film “Il concerto” di Radu Mih?ileanu - lo dovete vedere, non aver visto questo film è una mancanza gravissima, è un peccato mortale culturale – non posso non invitare tutti a vederlo. Così è del Vangelo. Se ne parlo è perché è un regalo. Dire: «Il Vangelo» è dire: «Questa realtà è bellissima».

Julien Green ha scritto una volta: «È sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano». Si sente riecheggiare talvolta una vecchia polemica intorno alla questione se sia giusto o meno pregare perché persone di altre religioni diventino cristiane. J. Neusner, un rabbino americano, ha scritto in risposta: «Ma guardate che nelle nostre preghiere noi preghiamo perché i pagani diventino ebrei». Come dire che è normale che un ebreo che è felice di essere ebreo desideri la stessa felicità per altri. Noi cristiani abbiano fra le nostre preghiere tante invocazioni a Dio per il mondo perché possa incontrare il vero volto di Dio. Non c’è niente di strano, anzi sarebbe strano il contrario. Certo sempre in un contesto di libertà, dove chi non è interessato al cristianesimo fa la sua strada e basta.

Questo sentirsi in debito, infine, aiuta ad entrare nel difficile tema della vocazione e della predestinazione.

Hans Urs von Balthasar scrisse un piccolissimo e preziosissimo libretto che si chiama Vocazione - lo lessi quando dovevo decidere se entrare o no in seminario. È un libro veramente luminoso. Balthasar afferma che ogni vocazione è una “pro-vocazione”, cioè è una chiamata “pro”, a favore, per gli altri. Ogni chiamato è chiamato a servizio di altri. Se Dio vuole arrivare a chiamare un uomo, certamente ha un disegno di predestinazione su di lui. Dinanzi a questa certezza spirituale della chiamata di Dio Calvino giunse a dire che se c’è una vocazione di Dio, cioè una predestinazione al bene, ma allora c’è anche una predestinazione al male, all’inferno. Egli parlò di doppia predestinazione, perché non riusciva ad uscire dal dilemma: o Dio non chiama nessuno, oppure se chiama qualcuno, deve necessariamente chiamare altri alla via contraria, alla perdizione.

Con la conseguenza terribile che Dio dividerebbe allora a metà il mondo: di qui gli eletti, i salvati, predestinati al bene e di là coloro che sono destinati a perdersi lontano da Dio. Invece Balthasar risponde: «La novità cristiana è che Dio sceglie te: Dio ha un disegno, un destino in mente per te, ha un’elezione, ma ti sceglie per gli altri, ti sceglie a favore degli altri, che vuole salvare tramite di te». Tu sei chiamato non contro tuo fratello, ma perché la chiamata di Dio tramite te arrivi ad un altro. Paolo sente così la sua chiamata: «Io sono stato chiamato, ma sono stato chiamato perché i romani diventino cristiani. Sono stato chiamato a servizio della chiamata universale». Ecco perché Paolo è venuto fin qui.

Antologia per la riflessione personale

Rom 1,13-16
Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma. Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco.

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.
Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.

LG 14
Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare.

-Itinerari dell'apostolo Paolo (tutti i luoghi antichi ed odierni), di Lorenzo De Lorenzi 

3/ I “vangeli” di Augusto ed il vangelo di Cristo (catechesi dinanzi all’Antiquarium, sui resti del quadriportico del palazzo di Augusto)

Ambientazione

Siamo nel cuore del palazzo imperiale di Augusto. Sono evidenti al centro i resti di una fontana ottagona intorno alla quale sorgeva un peristilio – un quadriportico, potremmo dire - del quale sono ancora oggi visibili le basi delle colonne. Il palazzo era molto grande. Il balcone sul Circo Massimo ce ne ha mostrato una parte, qui siamo in un cortile più vicino all’ingresso, magnificente, perché era la parte pubblica del palazzo, alla quale avevano accesso coloro che venivano a conferire con l’imperatore stesso. Le zone del palazzo più interne, quelle più vicine al balcone sul Circo Massimo, erano, invece, le zone più interne. Purtroppo gli scavi vennero eseguiti nel settecento e nell’ottocento, quando non esisteva ancora una scienza archeologica accurata e, quindi, non è così facile per gli studiosi oggi comprendere con precisione l’articolazione dell’intero complesso. Il peristilio, comunque, come molte delle murature che oggi ancora si vedono mostrano oggi la veste che assunsero al tempo di Domiziano, che abbellì l’intero palazzo fino al 92 d.C., affidando i lavori al famoso architetto Rabirio.

Possiamo, comunque, immaginare Augusto, l’imperatore durante il cui regno nacque Gesù, passeggiare con i suoi procuratori camminando al coperto, mentre la fontana gorgoglia con la sua acqua. Solo nel II millennio il luogo divenne poi Villa dei Farnese e potete vedere la palazzina che si erge sulle rovina. La visiteremo nella tappa successive: è divenuta l’Antiquarium del Palatino e conserva i resti del Palazzo emersi dagli scavi. Osservandoli vi potrete rendere conto della ricchezza del palazzo in età imperiale. Si vedono resti di affreschi, di stucchi, di pavimentazione, di statue in marmo. Mostra la cura architettonica che gli imperatori avevano per la bella vita che qui conducevano con le mogli, con i figli, con le amanti, con i potenti del tempo. Era il palazzo più importante di tutto l’occidente. L’imperatore era, nella mente dell’uomo antico, veramente il capo di tutta la terra: gli antichi non percepivano allora quanto grande fosse il mondo e così, per loro, l’imperatore era il supremo governante dell’orbe intero. Uno dei miei fratelli, con grande intelligenza, ripete spesso: «Si vede quanto sono stupidi gli uomini perché prima del 1492, prima di Cristoforo Colombo e della scoperta delle Americhe – anzi ancora qualche anno dopo Colombo perché egli non si accorse neanche di essere giunto in un “altro mondo”, ma pensava di essere giunto nelle Indie - , la metà dell’umanità non sapeva dell’esistenza dell’altra metà», europei ed americani non conoscevano l’esistenza reciproca gli uni degli altri. Questo dice la piccolezza del nostro sguardo umano miope. L’imperatore si sentiva veramente il capo di tutta la terra e passeggiava qui, in questo cortile.

Catechesi

Se noi ascoltiamo oggi la parola “vangelo” la colleghiamo subito con Gesù. Ma in quei tempi, prima ancora che Gesù la utilizzasse, incredibilmente era una parola che apparteneva al linguaggio di Augusto, anche se pochi sono oggi a conoscenza di questo – lo ha ricordato recentemente anche papa Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret. Proprio l’utilizzo imperiale di questa parola ci fa capire chi fosse l’imperatore e, per contrasto, quale novità sia il Vangelo di Gesù.

Sono le iscrizioni antiche a farci conoscere come coloro che erano chiamati a pubblicizzare l’operato imperiale utilizzassero il termine. Il più importante di questi testi è la cosiddetta Iscrizione di Priene. Priene è una meravigliosa città – oggi è possibile visitarne le rovine in Turchia – il cui piano urbanistico con vie che si incrociavano sempre ad angolo retto venne progettato dal grande Ippodamo di Mileto. L’Iscrizione di Priene ci testimonia un testo laudativo che doveva essere stato redatto per comparire in diverse città, dovunque l’apparato statale voleva che il nome di Augusto fosse lodato. Ne esisteva una precedente versione in latino meno esplicita, perché la cultura latina era molto meno propensa alla divinizzazione della figura imperiale, mentre in oriente il processo era più avanzato e accettato dalla popolazione. Se l’imperatore in occidente avesse affermato esplicitamente di essere un dio, avrebbe incontrato la ribellione di molti – la goccia che fece traboccare il vaso nel caso di Cesare fu proprio la sua decisione di presentarsi nel Tempio di Venere al Foro, quasi pretendendo la discendenza dalla dea – mentre in oriente la situazione era più tranquilla da questo punto di vista perché c’era tutta una tradizione ellenistica di sovrani che si erano paragonati alle divinità.

L’Iscrizione che loda il giorno di nascita dell’imperatore, inizia paragonando il suo venire al mondo all’inizio del mondo: «Se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pánt?n arch?)».

La nascita di Augusto è, per l’Iscrizione, l’inizio delle cose! Viene immediatamente in mente il Prologo di Giovanni: per Giovanni il “logos”, il Verbo, il Figlio è l’origine, è all’origine, è presso Dio, è Dio. Il termine che Giovanni utilizza è “arché”, “inizio”, “principio”. Tutto ha origine da Dio e dal suo Figlio. Invece l’Iscrizione di Priene dice che l’“arché” del mondo è la nascita di Augusto!

Non si dimentichi che l’Iscrizione di Priene è scritta prima del Vangelo di Giovanni. Augusto voleva che si pensasse che il mondo era nato in riferimento alla sua nascita imperiale.

Il testo prosegue: «Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (arch?n toû bíou kaì tês z?ês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati». È come se l’imperatore volesse dire che solo la sua nascita ha portato gioia ad un mondo triste e senza speranza. Prima della nascita di Augusto tutti erano tristi di essere vivi, tutti tristi di essere nati, ma quando giunse la notizia che egli regnava ecco che il mondo trovò la gioia di vivere. Solo un dittatore può affermare che la sua nascita «segna il limite e il termine del pentimento di essere nati». Di quale visione della vita doveva sentirsi portatore chi faceva scolpire tali affermazioni! Il testo spiega poi in che modo si è deciso di festeggiare ogni anno la nascita dell’imperatore e perché proprio in quel giorno debbano iniziare le pubbliche magistrature che dell’imperatore sono espressione: «Poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis t?n arch?n eisódou),… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» a nome della città] che tutte le comunità (politeí?n) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre».

L’Iscrizione si conclude con un ulteriore passaggio nel quale per ben due volte viene usato il termine “vangelo”, anche se in entrambe le volte al plurale: «Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (s?têra charisamén?) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci/i vangeli di tutti (euangélia pánt?n), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno di nascita del dio (h? genéthlios h?méra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci/vangeli a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósm?-i tôn di’autòn euaggelí?n)». Ecco che Cesare Augusto è chiamato Salvatore e dalla sua nascita dipendono – a dire dell’Iscrizione – tutti i “buoni annunzi”, tutti i “vangeli”. Insomma la nascita di Augusto è la gioia del mondo, è la vittoria sulla tristezza, è il senso della vita, è il vero annunzio di bene.

Questo testo è veramente incredibile. Certo con Augusto venne nei territori dominati dai romani un lungo periodo di pace e di benessere, le strade erano più sicure, le navi potevano viaggiare senza rischio di essere attaccate dai pirati, ma è questo l’annunzio di vita che da senso all’esistenza? Proprio questo pretendeva l’imperatore: di essere il senso della vita del mondo intero. Il mondo esisteva per collaborare al suo progetto politico, tutti i popoli trovavano il senso alla loro vita uniti a Roma ed al suo capo.

Ben più famose sono le parole di Virgilio, nella IV Ecloga, che vanno nella stessa direzione. In maniera meno esplicita, anche qui l’avvento al potere di Augusto viene visto come un fatto divino. L’immagine è quella dell’età dell’oro che appare sulla terra:

«Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto).
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orbem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità.
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo
. Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese»
.

Qui è la Sibilla Cumana a parlare per bocca di Virgilio per annunziare che il cielo, con tutti i suoi pianeti, ha ormai segnato il giorno nel quale “resteranno poche vestigia dell’umana malvagità” e “inizierà questa splendida età”, poiché “egli – non si dice il nome, ma è chiaramente Augusto - riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato”. Qui Augusto è presentato come colui che unisce finalmente uomini, divinità ed eroi e lui stesso apparterrà alla schiera divina: per Virgilio tutto è nuovo con l’imperatore. I contemporanei chiameranno il lungo periodo che vide Augusto governare, dal 30 a.C. al 14 d.C., il saeculum augustum.

Quando allora Luca ci ricorda che la nascita di Gesù avvenne nel contesto di un censimento decretato da Augusto, possiamo immaginare i sentimenti dell’imperatore nell’indirlo. Luca dice precisamente: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta» (Lc 2,1-5). Gli studiosi discutono sull’esatta data del censimento e se non ci sia un errore dato che i due mandati di Quirinio di cui si ha notizia sembrerebbero non corrispondere esattamente alla data ipotizzata per la nascita di Cristo. Ma quello che Luca vuole mostrare è, invece, l’azione “totalizzante” e “totalitaria” di Augusto – il “censimento di tutta la terra” -, che però si lascia sfuggire l’avvento del vero vangelo, la nascita di Gesù. Il documento delle Res gestae di Augusto, un altro testo propagandistico che racconta tutta la vita dell’imperatore ed il suo successo politico, ricorda con orgoglio che egli fece ben tre censimenti di tutto l’impero. I censimenti avevano ovviamente l’intento di controllare la popolazione e di stabilire una tassazione adeguata e funzionale, ampliando la capacità organizzativa dell’impero. Ebbene, anche se il censimento contemporaneo alla nascita di Gesù fosse avvenuto sotto un diverso governatore e anche se Luca avesse commesso un errore sul nome del magistrato che lo portò a compimento in Giudea, ciò che l’evangelista vuole mostrare è l’onnipresenza del potere imperiale dinanzi alla quale risalta ancor più la sorprendente libertà di Dio che fa entrare suo Figlio nel modo in modo che Augusto neanche se ne accorga. Ecco cosa ci permette di immaginare innanzitutto questo splendido cortile: un imperatore che si illude di governare il mondo, tenendolo sotto controllo, ed un Bambino che nasce e rinnova il mondo senza che colui che presiede all’impero ne prenda minimamente coscienza. Chissà cosa stava facendo Augusto il giorno in cui nacque Gesù, perché l’Incarnazione avvenne proprio durante il suo regno. Eppure non ne ebbe conoscenza alcuna.

Ma c’è una considerazione ancora più importante da fare. L’Iscrizione di Priene dichiara che tutto è cambiato con Augusto, ma poi parla di tanti “vangeli”, di tante “buone notizie” che la sua nascita consegnò alla storia. L’utilizzo del termine “vangelo” nel cristianesimo è nella stessa direzione, ma in una maniera ancora più personale, perché c’è “un solo” vangelo, Gesù Cristo.

Importantissimo è qui soffermarsi sul primo versetto del Vangelo di Marco. Ai tempi in cui i Vangeli furono scritti il termine “vangelo” non indicava ancora un testo scritto – tale uso è successivo e solo dopo un certo tempo si iniziò a dire che i vangeli erano quattro.

Marco si apre con le parole: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio». Questo versetto non vuol dire assolutamente: “Questo è l’inizio del mio scritto”, il vangelo secondo Marco, altrimenti troveremmo scritto “Inizio del vangelo di Marco” o “Inizio del mio vangelo”. Cosa vuol dire esattamente quell’espressione “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”?

Il nome di Gesù è al genitivo: “di Gesù Cristo”. Gli esegeti spiegano che, in un’espressione come questa, il genitivo può avere tre valori. Può essere un genitivo soggettivo, oggettivo o epesegetico.

Se fosse un “genitivo soggettivo” vorrebbe dire che Gesù è il soggetto e che il vangelo è composto dall’annunzio buono che egli farà nel prosieguo del testo.

Se fosse un “genitivo oggettivo” vorrebbe dire che il vangelo è un annunzio che ha come oggetto Gesù. Il buon annunzio parlerà di lui - non lui parlerà del buon annunzio, come nel caso del genitivo soggettivo.

Se pensiamo, ad esempio, all’espressione “l’amore di Dio”, noi possiamo intendere sia l’amore che Dio ha per noi (genitivo soggettivo), sia l’amore che noi abbiamo per Dio (genitivo oggettivo).

Ma c’è un terzo valore del genitivo, quello appunto epesegetico. Se io so che un’amica sta per avere un bambino e so insieme a tutti gli amici che quel bambino si chiamerà Andrea – e tutta la famiglia lo aspetta, sta preparano i vestitini, i pannolini, ha pronta la macchina fotografica, l’auto è sempre vicina per correre in ospedale per il parto – non appena arriva la telefonata e qualcuno dice: “È arrivata la lieta notizia di Andrea”, che cosa vuol dire? Non che Andrea ha parlato dicendoci una notizia e nemmeno che la notizia riguarda semplicemente Andrea, ma che la lieta notizia è Andrea stesso, è la sua nascita, è le sua vita.

Il senso del genitivo epesegetico è l’identificazione dei due termini: “la lieta notizia è Andrea”. Ecco il senso del primo versetto di Marco. La lieta notizia? Il Vangelo? Il Vangelo è Gesù stesso, la lieta notizia è la persona di Gesù. Si vede qui subito come il pretendere di essere la buona notizia da parte dell’imperatore è la cosa più ridicola che possa esistere al mondo. Nessun uomo può pretendere di essere “la buona notizia” del mondo, “la fine al pentimento di essere nati”. Con Cristo tutto è diverso. Noi certo sentiamo la forza di queste parole, ne siamo stupefatti da un lato, ma dall’altro diveniamo credenti proprio perché comprendiamo che solo la sua nascita conferisce pienamente senso ad ogni gioia e ad ogni dolore che è nel mondo. Per la prima volta nella storia l’uomo si trova dinanzi al fatto che Dio non gli rivolge una qualche parola, ma gli dona la sua Parola intera, completa, totale. Perché in Cristo la parola non viene a noi come quando una divinità ci offre un libro da leggere. In Cristo Dio stesso viene ad abitare in mezzo a noi. La grande novità proposta dal Concilio Vaticano II, nella Dei Verbum, è stata proprio quella di presentare all’uomo contemporaneo la rivelazione di Dio non come una serie di parole o di scritti, bensì come il suo rivelarci se stesso: «Piacque a Dio rivelare se stesso» (DV 2). Ecco cosa significa che Gesù è il Vangelo, che lo è personalmente. Per questo, poi, nasce anche il genere letterario “vangelo”, cioè la necessità di raccontare tutto di Gesù, non solo le sue parole, ma anche i suoi silenzi, le sue lacrime, le sue gocce di sangue sulla croce, perché ogni suo gesto è Parola di Do, perché Lui è la Parola di Dio. Non una parola di carta, ma una parola di carne.

Ma è Gesù ad essere il buon annunzio. Potremmo tradurre correttamente Mc 1,1 così, allora: «Inizio del vangelo che è Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il grande teologo francese de Lubac, che tanta parte ebbe nell’elaborazione della Dei Verbum, ebbe il coraggio di scrivere, prima della II guerra mondiale: «È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano». Non basta parlarne al plurale, come se esistessero tanti singoli annunzi di bene in lui, tante parole di libertà e di carità da lui pronunciate, tanti insegnamenti di sapienza che da lui provengono, tanti miracoli e gesti di carità da lui compiuti: no, bisogna parlarne al singolare. Gesù è lui in persona il lieto annunzio, il vangelo. Se il Signore è vero, allora tutto nella vita ha un significato.

Antologia per la riflessione personale

da Virgilio, IV Egloga
Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto)
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orbem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità.
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese.

dall’Iscrizione di Priene; OGIS 458
…[Inizio mutilo] se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pánt?n arch?)… (10) Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (arch?n toû bíou kaì tês z?ês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati. E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis t?n arch?n eisódou), (15)… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» (riga 44) a nome della città] che tutte le comunità (politeí?n) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (s?têra charisamén?) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia pánt?n), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio (h? genéthlios h?méra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósm?-i tôn di’autòn euaggelí?n)…

Lc 2, 1-7
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio..

Mc 1,1
Inizio del Vangelo che è Gesù Cristo Figlio di Dio

Dei Verbum 2
Piacque a Dio rivelare se stesso… Cristo è il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione.

da H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, Cerf, Paris, 2010, p. 265
È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano.

 

4/ L’altare al dio ignoto, la consapevolezza dell’uomo di non poter conoscere Dio con le proprie forze (nell’Antiquarium dinanzi all’ara al dio ignoto)

Ambientazione

Al piano inferiore del Museo Palatino si trova questo straordinario altare pagano che ci aiuta a capire cosa sia un altare al Dio ignoto simile a quello dal quale san Paolo prese spunto per annunciare a rivelazione di Dio ad Atene, come raccontano gli Atti degli apostoli. Quello del Palatino venne ritrovato nel 1829 nell'area sud-ovest del Palatino, ancora al suo posto originario.

Il personaggio dell'iscrizione che lo dedicò, Sextius Calvinus, è stato ritenuto il figlio dell'omonimo console il cui consolato è datata all’anno 124 a.C.; l'altare sarebbe stato dedicato quindi alcuni anni dopo, nell'età di Silla (i caratteri confermano tale datazione) a cavallo fra II e I secolo a.C. L’iscrizione dice: "Sei deo sei deivae / sac(rum) C. Sextius / C. f. Calvinus pr(aetor) / de senati sententia / restituit", cioè Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino, pretore, per decreto del Senato rifece”.

L’uomo che lo consacrò non poteva dire nemmeno se la divinità protettrice cui offriva sacrifici animali su quell’altare fosse maschio o femmina, fosse un dio o una dea. Le regole rituali richiedevano che si conoscesse esattamente il nome della divinità cui ci si rivolgeva perché il sacrificio avesse effetto, ma si aveva anche paura che eventuali avversari conoscessero quel nome e lo si occultava perché non potessero pronunciarlo. Di fatto l’iscrizione denuncia l’incapacità umana di sapere quale sia il vero volto di Dio, quale sia il suo nome: per evitare di non essere ascoltati, si preferisce una formula generica in modo che – si spera – gli dei ascoltino comunque. “Ascoltami, sia che tu sia un dio sia che tu sia una dea, dato che sei sostanzialmente ignoto”.

Il verbo restituit fa supporre che l'altare fosse dedicato da tempi più antichi ad una divinità ignota e che venisse periodicamente rinnovato nella sua forma arcaica, per mantenere vivo il ricordo delle origini.

Catechesi

Questo altare ci ricorda che la tarda classicità non era più sicura dei suoi dei, che l’ellenismo non credeva più nei suoi dei. Perché non è stato solo il cristianesimo a liberare l’uomo dal paganesimo, ma era il paganesimo ad essere già moribondo. Nel periodo ellenistico il politeismo era entrato in crisi. Gli uomini erano ormai pienamente consapevoli che le divinità non potevano essere come la mitologia le rappresentava. Questo altare ci riporta alla condizione di uomini che continuavano a rivolgersi alla divinità, coscienti però di non sapere nulla della divinità: è commovente tutto questo e vale la pena cercare di metterci nei loro panni. Gli uomini dell’età ellenistica sentivano di non poter vivere senza Dio, ma allo stesso tempo erano molto scettici sulla possibilità di conoscere il suo vero volto. Potevano gli dei avere veramente i volti di Giove, di Giunone o di Minerva? Nessuno credeva più a questa ipotesi. Eppure la gente continuava a pregare, a invocare la grazia, a chiedere il perdono, a credere nella vita eterna. Non riuscivano ad essere atei, perché il desiderio di Dio era nel loro cuore.

Da questo punto di vista l’ellenismo è un punto alto e non basso nella storia del pensiero e della religiosità dell’uomo. In quel tempo l’uomo prese coscienza di non poter conoscere Dio con le sole proprie forze. È allora che l’uomo imparò a comprendere meglio la condizione in cui si trovava. Da un lato, infatti, nessun uomo può fare a meno di Dio: senza Dio tutto è perduto ed ogni vera speranza è morta. Ma d’altro canto Dio lo si può solo invocare, si può solo chiedere che Egli venga, perché noi non siamo in grado di trovarlo. Gli uomini che hanno offerto sacrifici su questo altare avevano il senso di Dio, avevano un senso religioso, ma lo stesso non sapevano bene in cosa credere.

Cosa fece san Paolo dinanzi ad un altare simile a questo, per aiutare gli uomini del suo tempo? Disse: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”. Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,22-31).

Ogni seria riflessione teologica non può che partire dall’impossibilità da parte dell’uomo di conoscere Dio. Dio è talmente più grande dell’uomo da non poter essere da lui conosciuto. C’è solo una possibilità: che Dio si riveli. Che Dio colmi quell’abisso che lo divide dall’uomo, “aprendo i cieli”. Il grande contributo della Dei Verbum, che era chiamata a chiarire quale rapporto esista fra la Scrittura e la Tradizione, è stato innanzitutto quello di mostrare che non si può rispondere a tale questione se prima non si parla della rivelazione. Dio ha voluto rivelarsi. E lo ha fatto facendosi carne, mandando il suo Figlio. Se Egli non si fosse rivelato, noi saremmo ancora nella condizione dell’uomo che eresse questo altare. Saremmo con un cuore fatto per Dio, ma, insieme, nell’impossibilità di vedere il suo volto.

L’impossibilità di conoscere Dio con le nostre forze e la meraviglia della sua rivelazione sono due affermazioni corrispettive, sono sorelle.

Ne consegue qualcosa che è molto significativo: la rivelazione non distrugge l’uomo, ma anzi lo completa. L’uomo è fatto per la rivelazione, è aperto ad essa, avverte - come ai tempi in cui venne eretto questo altare - che desidera sapere chi è veramente Dio, ha un cuore fatto per la conoscenza di Dio ed ha, in fondo, coscienza che tutto ciò che di Dio ha pensato prima della rivelazione personale di Dio non corrisponde alla verità.

In una importante riflessione l’allora cardinal Ratzinger volle sottolineare che proprio per questo la fede cristiana non violenta mai le culture precedenti. La fede sa riconoscere il bene che c’è in ogni cultura, così come noi riconosciamo il desiderio bello degli uomini che costruirono quest’ara di cercare Dio. In ogni uomo ed in ogni cultura c’è sempre il bene presente, c’è sempre almeno un po’ d’amore, c’è sempre il senso del sacrificio, c’è sempre il valore della vita e della famiglia, c’è sempre la ricerca del bello, dell’eterno, la ricerca di Dio.

Ma, contemporaneamente, in ogni cultura, ci sono errori e peccati. Ad esempio il Dio vero non può essere onorato con sacrifici animali come avveniva su quest’ara, anzi non può che rifiutarli – e difatti Gesù, una volta venuto, cacciò tutti coloro che vendevano e compravano animali per il sacrificio al tempio di Gerusalemme. Similmente la cultura romana organizzava giochi gladiatori, dedicandoli agli dei, e questi giochi sono stati una delle vergogne più grandi della storia dell’umanità: gente che si radunava per divertirsi e commuoversi vedendo uomini uccidersi fra di loro o nella lotta con animali – lo si vedrà meglio più avanti.

Nella cultura romana c’erano lati luminosi e lati oscuri e la fede cristiana seppe apprezzare i lati luminosi e combattere i lati oscuri. E così sempre farà la fede dinanzi a qualsiasi cultura, dinanzi alla grecità, dinanzi alla cultura latina classica, dinanzi alla cultura Incas, dinanzi alle culture delle popolazioni barbariche, dinanzi alla cultura di una tribù africana. Opererà un discernimento per lodare il bene e denunciare il male.

Ma, soprattutto, sempre la fede cristiana - la fede nella rivelazione di Dio avvenuta in Cristo -, cercherà di scorgere nelle culture che incontra l’incompiutezza, l’anelito, la mancanza, il desiderio di verità non soddisfatto per scoprire che anche quella cultura è viva, perché è in cammino, perché misteriosamente anela al Dio vivo e vero come al suo compimento, conscia di essere incompleta. Saprà cogliere quell’apertura che è tipica di una cultura in cammino, di una cultura che non ha ancora incontrato il vero volto di Dio. I romani che si convertirono al cristianesimo erano romani che amavano la cultura romana, erano romani che criticavano aspetti deteriori della cultura romana, ma erano soprattutto romani che sentivano che tutto il bene della loro cultura romana era insufficiente perché tutta la loro sapienza non li aveva ancora condotti a vedere il volto di Dio. Erano come davanti ad un Dio ignoto. Solo quando incontrarono il Cristo capirono che Dio si era finalmente rivelato loro.

Così disse l’allora cardinal Ratzinger in merito: «Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse. Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione. [...] La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro. [...] Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo».

Rivolgersi ad un Dio ignoto era una finestra, un’apertura, un’attesa, che permise alla fede cristiana di non annientare la cultura latina e greca, bensì di compierla.

Antologia per la riflessione personale

da J. Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, relazione all’incontro dei vescovi della FABC (2-6 marzo 1993 a Hong Kong), pubblicato da Asia News, n. 141, 1-15 gennaio 1994 e disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger200609.htm .
Possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta.
Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.
Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione. [...]
La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro. [...]
Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.

da G.K. Chesterton, The Catholic Church and Conversion, in Perché sono cattolico, Gribaudi, 1994, p.135
La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo.

5/ Lo scandalo della croce e la scoperta che Dio è amore (nell’Antiquarium dinanzi al graffito con crocifisso blasfemo)

Ambientazione

Al piano superiore del Museo Palatino è conservato un reperto importantissimo, forse la più antica rappresentazione del crocifisso. Ma non è rappresentato da qualcuno che era cristiano, bensì da un uomo che voleva irridere ai cristiani: è, infatti, un crocifisso blasfemo che permette di capire quali critiche ricevessero allora – e sempre – i cristiani. Proviene dal cosiddetto Pedagogio (dove fu ritrovato negli scavi del 1856), cioè dall’edifico nel quale si formavano i paggi imperiali.

Il graffito di fattura molto elementare viene datato alla I metà del III secolo (fra il 200 ed il 250 d.C.) e rappresenta un crocifisso con testa di asino che ha al fianco un uomo con braccio alzato. A fianco l’iscrizione graffita recita in greco: "Alexamenos sebete theon", cioè Alexamenos adora il suo dio”. La maggior parte degli archeologi concorda nel ritenere che sia stato graffito da qualche paggio che si prendeva gioco di un paggio cristiano di nome Alexamenos. La critica è evidente: chi adora un Dio crocifisso adora un asino, adora un Dio incapace.

Catechesi

Questo crocifisso è chiaramente blasfemo, è chiaramente una presa in giro del cristianesimo. Un Dio che muore in croce non può essere – per l’autore del graffito – un Dio vero, ma solo un asino. Eppure proprio un’opera così irrisoria permette di capire ancora meglio la novità e la verità del cristianesimo. Il cristianesimo dava – e sempre darà – scandalo, perché la ragione umana non può ipotizzare da sé la croce. Essa appartiene alla rivelazione. È un fatto che si impone all’uomo nella sua grandezza e bellezza: un Dio che prende su di sé i peccati del mondo e ne muore (se ne parlerà più avanti, quando giungeremo ai luoghi di Tiberio imperatore). La croce non era prevista nel modo umano di concepire Dio. Qui si vede che l’impossibilità per l’uomo di giungere a contemplare il vero volto di Dio senza la rivelazione, l’impossibilità per l’uomo di comprendere l’amore di Dio senza la rivelazione, non è una questione oziosa per filosofi e teologi: è invece la verità. L’uomo poté dire: “Dio è amore”, solo dopo aver incontrato il fatto dell’amore di Cristo sulla croce. Questo graffito mostra da solo che senza l’accoglienza della rivelazione di Dio, la croce resta una cosa folle e sciocca e l’uomo non riesce a comprendere che Dio è amore.

Dinanzi a questo graffito divengono ancora più chiare le parole di san Paolo ai Corinti: «Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,20-25).

Paolo qui presenta gli uomini del suo tempo tutti tesi a giungere alla sapienza e a ricevere grazie e miracoli. Ebbene la sapienza della croce e la forza guaritrice della croce è inimmaginabile prima che Cristo venga. Non è come una filosofia od una conoscenza di una legge scientifica che qualcuno potrebbe elaborare per proprio conto come qualcosa di universale. È invece qualcosa di storico, di singolare, che avviene quando Dio stabilisce di mandare il suo Figlio. Non basta che l’uomo abbia le giuste domande, perché egli trovi Dio. Questo è un assurdo presupposto portato avanti da autori che propongono metodi pedagogici assolutamente falsi e disorientanti. L’uomo non trova Dio solo perché lo cerca. Anzi, l’uomo si mette in cerca di Dio perché Egli si rivela e viene a noi. La ricerca di Dio non nasce solo dalle nostre domande – per quanto esse siano importanti, vedi appunto l’altare al dio ignoto – ma la nostra ricerca può raggiungere la sua meta solo se Dio si rivela. E questo è ciò che è avvenuto in Cristo. Altrimenti nessun sottile indagatore di domande ed interrogativi esistenziali sarebbe mai stato in grado di trovarsi dinanzi al meraviglioso scandalo della croce.

Vero è piuttosto che solo quando l’uomo trova il Cristo ed il suo amore capisce se stesso e porta fino in fondo le proprie domande – per cui le domande sono decisive per trovare la fede, ma decisive almeno tanto quanto lo è la rivelazione. Non mi viene in mente descrizione migliore di questo straordinario passaggio di don Luigi Giussani, un prete milanese che fondò Comunione e Liberazione: «Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove». Nessuno ha mai immaginato il crocifisso, eppure quando lo incontriamo, se non lo rifiutiamo, scopriamo che corrisponde perfettamente al nostro cuore, al nostro desiderio.

Antologia per la riflessione personale

1 Cor 1,20-25
Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini

don Luigi Giussani
Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa. L’incontro, l’impatto, è con una umanità diversa, che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove.

6/ Erode Antipa fatto re della Galilea dinanzi ai resti del Tempio di Apollo

Ambientazione

Ci fermiamo qui, davanti alle rovine del Tempio di Apollo. Il tempio, che aveva anche due biblioteche, era stato fatto erigere da Augusto stesso. Vi si riuniva spesso il Senato in età imperiale, segno della sottomissione dei senatori al potere imperiale, ormai quasi assoluto.

Questo uso politico è confermato anche da un evento che fu decisivo per la storia neotestamentaria anche se è ignorato dalla maggioranza dei romani: proprio qui venne fatto re Erode Antipa, colui che fece uccidere Giovanni Battista, ordinandone la decapitazione, e colui che si trovò poi a giudicare Gesù, quando Pilato glielo inviò prigioniero per essere consigliato sul da farsi.

Proprio qui gli fu dato il titolo di tetrarca, re di una quarta parte, proprio perché Augusto divise il regno di Erode il grande in quattro parti.

Allo stesso modo pochi sanno che proprio qui venne assegnato ad Erode Filippo il nord della Galilea, e precisamente il regno che comprendeva la regione della Traconitide proprio dove Filippo costruì Cesarea di Filippo per ringraziare Cesare Augusto per il regno che gli aveva concesso e dove Gesù si recò per chiedere ai suoi chi credevano che egli fosse.

A raccontarci di questi fatti è Giuseppe Flavio, lo storico ebreo che volle unire al suo nome ebraico Giuseppe il nome della famiglia dei Flavi, quando abbandonò la lotta contro i romani e passò dalla parte dei vincitori, accettando poi di trasferirsi a Roma dove compose le sue famose opere che tante informazioni ci restituiscono sul popolo ebraico e sulla vita ebraica al tempo di Gesù.

Flavio Giuseppe racconta che alla morte di Erode il Grande – si vedrà più tardi che anche lui venne fatto re proprio qui nei Fori - scoppiò una disputa sulla sua successione. Nell’ultimo suo testamento egli aveva designato re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro – facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli al trono. Si presentarono così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano Augusto, che infine decise per la divisione del regno in tre parti, pronunciando sul Palatino il suo giudizio. Nel frattempo era giunto anche Erode Filippo per rivendicare anche lui una parte del regno del padre.

Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto nel 6 d.C. poiché si era reso impopolare. Augusto decise allora di nominare al suo posto un prefetto direttamente dipendente da Roma. Ad Erode Antipa, toccò la Galilea e la Perea (così si chiamava allora la regione al di là del Giordano). Per questo motivo il tetrarca sarà poi coinvolto nel processo di Gesù, perché il Cristo era un cittadino di quel regno e la sua attività pubblica, prima della sua ascesa a Gerusalemme, si svolse nei territori assoggettati a Erode Antipa.

A Filippo (che era fratellastro di entrambi, di Erode Antipa e di Archelao) fu assegnata la regione settentrionale della Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo. Il luogo è noto nei vangeli, perché nei suoi pressi Gesù condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua identità: «Voi, chi dite che io sia?».

In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto in Antichità giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò della di lui moglie Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende che portarono alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa ed Areta. Erode Antipa, spinto dalla moglie Erodiade, venne ancora in Italia, questa volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza dell’imperatore contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece, esiliare la coppia a Lione, in Gallia (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18, 240-255).

Queste le parole testuali di Giuseppe Flavio: «Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao… Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Fra i presenti era anche Filippo, il fratello di Archelao, inviato amichevolmente da Varo col seguito di una scorta per due motivi: per appoggiare Archelao e per ottenere una parte del patrimonio di Erode nel caso che Cesare l’avesse ripartito fra tutti i suoi discendenti… Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di “etnarca”, promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria».

I luoghi del Palatino ci mostrano così quanto fosse dipendente ormai la vita della Giudea e dell’intera Siria-Palestina dalle decisioni di Roma. Le principali decisioni politiche che riguardavano quei luoghi erano ormai prese tutte a Roma.

Catechesi

Il Tempio di Apollo apparteneva al Palazzo imperiale, ma era al contempo un luogo – si potrebbe dire – pubblico. Come abbiamo appena visto l’imperatore lo utilizzava non solo per sé e per i suoi sacrifici privati al dio, ma anche per l’accoglienza di personalità che, probabilmente, voleva in qualche modo porre sotto la protezione divina o, comunque, dinanzi ai quali voleva mostrare che ciò che egli faceva lo faceva con atteggiamento religioso. Immaginiamo allora il giorno in cui qui venne fatto re della Galilea, da Augusto, Erode Antipa, colui che poi fece decapitare Giovanni Battista e colui che per qualche momento ebbe dinanzi a sé Gesù nel giorno della sua crocifissione.

Erode Antipa mai avrebbe immaginato di passare alla storia per due gesti così poco regali come quelli che portarono alla morte del Battista e all’abbandono di Gesù stesso alla sua sorte. Immaginatelo qui il giorno della sua designazione a re ed immaginate che siamo in un luogo dove è venuto uno che ha veramente incontrato il Signore ed il suo precursore.

Dinanzi al Battista Erode Antipa non ebbe il coraggio di opporsi ad una donna, a sua moglie. Raccontano i Vangeli che il Battista, nella sua predicazione, non solo denunciava in generale i peccati, ma si scagliava pure contro precisi peccati pubblici commessi dalle autorità ed, in particolare, ci informano che era stato molto critico riguardo alle seconde nozze di Erode Antipa che aveva ripudiato, come si è detto, la prima moglie, la figlia del re Areta di Petra, probabilmente colui che costruì il grande tempio della Khazneh, e aveva sposato Erodiade, nonostante essa fosse già stata sposa del fratello Erode Filippo – non è del tutto chiaro se sia Erode Filippo, il tetrarca della Traconitide, oppure un ulteriore figlio di Erode il Grande che ebbe un ulteriore Erode Fiippo che non salì mai al regno. Fu proprio Erodiade a non tollerare le critiche del Battista e a decretarne la morte, quando sua figlia – è ancora una volta Flavio Giuseppe che ci ricorda un particolare: si chiamava Salome - ballò così bene che il re le promise qualsiasi cosa gli avesse chiesto.

L’episodio ricorda quanto ancor più grave del peccato di incesto – l’aver preso la moglie di suo fratello – sia il pretendere di non essere criticati per il peccato. Il peccatore che riconosce il suo peccato è ancora in qualche modo ancorato alla realtà: Erodiade, invece, non solo aveva peccato, come suo marito, ma soprattutto non tollerava di essere criticata. Questa è la cosa più grave: non accettare critiche e pretendere che tutti plaudano alla tua scelta anche se essa è ingiusta. Quante persone vogliono l’allontanamento di chiunque parli male di loro, quante persone non accettano la vicinanza di chi le ha criticate. L’incapacità di una donna di accettare la giusta critica per il peccato proprio e del marito fu la causa della morte del Battista. Giovanni non taceva, infatti, e continuava a criticare quel matrimonio come contrario alla volontà di Dio. Erode Antipa decise la decapitazione del Battista perché non ebbe il coraggio di opporsi all’astio della moglie contro il profeta. I Vangeli ci ricordano anche che Erode ebbe vergogna di smentire la promessa che aveva fatto pubblicamente a Salome. Anche da questo punto di vista la sua buona reputazione veniva per lui prima della giustizia e della verità. Sia lui che Erodiade preferirono uccidere un uomo piuttosto che vedere incrinata la loro reputazione. Ecco la prima triste vicenda che coinvolse Erode Antipa, nominato re da Augusto proprio qui al Palatino.

Un punto da sottolineare è che la vicenda neotestamentaria del Battista ci ricorda come la sua profezia non riguardi solo questioni puramente teologiche, ma anche la vita e le scelte morali, così come avveniva per i profeti veterotestamentari. Giovanni era profeta anche perché riteneva di dover insegnare la volontà di Dio sul matrimonio. Papa Giovanni Paolo II e papa Francesco hanno utilizzato più volte l’espressione “vangelo del matrimonio” per indicare che il matrimonio stesso è vangelo, è annunzio di gioia e che il vangelo di Gesù non è mai totalmente annunziato se se ne tacciono le conseguenze morali ed anche quelle riguardanti i rapporti affettivi. La storia ci ha insegnato quanto siano decisive nella vita le questioni affettive, al punto che possono decidere addirittura della sorte di popoli interi. Basti pensare al caso di Enrico VIII che generò la separazione della Chiesa di Inghilterra da Roma a motivo di un matrimonio, poiché egli pretendeva, contro la verità, che fosse sciolto il suo matrimonio e gli fosse concesso di sposare in Chiesa una nuova regina. Addirittura pretese la decapitazione del suo gran cancelliere fidatissimo, Tommaso Moro, che nemmeno criticava il fatto, essendo un funzionario del regno, ma non riteneva, per motivi di coscienza, di approvare in pubblico un comportamento affettivo ingiusto per la sua coscienza. Anche il re Enrico VIII, come già Erodiade, pretese l’assenso, non accettò che ci fosse chi, pur non criticandolo apertamente, non lo approvava. E fece uccidere Tommaso Moro ed altri con lui. Tommaso Moro fu, in quella triste circostanza, il vero difensore della libertà di coscienza, mentre il re Enrico VIII esercitò tutto il suo violento potere a proprio uso e consumo.

Ma c’è un secondo incontro ancora più importante che vide protagonista Erode Antipa e anche questo non sarebbe mai avvenuto se qui Augusto non gli avesse assegnato il regno. Infatti Erode incontrò infine anche il Signore stesso, quando ormai era imperatore Tiberio e governatore in Giudea Pilato. Pilato, non sapendo bene come comportarsi dinanzi a Gesù, approfittò del fatto che Gesù era galileo e, quindi, suddito di Erode Antipa e del fatto che Erode Antipa si trovava in quei giorni a Gerusalemme.

Il vangelo di Luca ricorda che Erode non volle coinvolgersi nel giudizio: egli non si preoccupò di far niente in difesa di Gesù. Gli interessava solo vedere se era capace di fare dei miracoli. Gesù, invece, non gli rispose nulla e si rifiutò implicitamente di fare segni in sua presenza: ormai il vero segno sarebbe stato solo quello della sua morte e resurrezione. Luca ricorda che Erode, una volta accortosi che Gesù non si prestava alla sua curiosità vuota, «con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro». L’uomo che qui divenne re è così anche lui colpevole di ciò che avvenne a Gesù, così come è colpevole della morte del Battista.

Nel tempio di Apollo venne fatto tetrarca anche Erode Filippo. Giunse in un secondo momento rispetto ad Archelao e ad Erode Antipa, perché, una volta capito che qui si giocavano le sorti dell’eredità del padre, accettò l’invito a presentarsi e fu così presente al momento della divisione del regno. Come già è stato detto, toccò a lui la Traconitide dove, alle sorgenti del Giordano, fece costruire la città che porta il nome suo e quello di Cesare, Cesarea di Filippo – oggi il parco archeologico di Banyas, alle pendici del monte Hermon – per ringraziare Augusto del dono del regno.

Chissà se Erode Filippo seppe mai che Gesù portò i suoi discepoli proprio nel suo territorio, nei pressi di Cesarea di Filippo, per porre loro la grande domanda sulla sua persona. Sono i sinottici a raccontare di questo viaggio in Traconitide: «Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (Mc 8,27-30).

Si vede qui come Gesù per primo fosse interessato a che gli apostoli avessero piena comprensione della sua persona. Chiaramente il motivo non è un qualche problema di egocentrismo. Invece è ancora una volta in questione la rivelazione di Dio. Prima della venuta di Gesù, era quasi normale ritenere che la rivelazione di Dio potesse al massimo consistere in un Libro inviato da Dio all’umanità o in un profeta che parlasse in suo nome.

Dalla risposta dei discepoli al quesito su cosa pensasse la gente di Gesù si vede che la gente intuiva qualcosa della sua grandezza, ma la leggeva sempre a partire dai propri presupposti, dalle proprie pre-comprensioni basate su personaggi già conosciuti: Gesù viene paragonato dalla gente a uno dei profeti, fosse pure il profeta più grande, sia stato esso Elia o Giovanni Battista.

Ma a Gesù non basta essere paragonato ai profeti, a Gesù non basta nemmeno essere considerato il profeta più grande, un profeta più grande dei più grandi profeti, Elia e Giovanni. Se Gesù è solo un profeta, Dio non è venuto ancora in mezzo agli uomini. Quando Gesù mette alle strette i discepoli, mostrando di rifiutare le visioni che la gente aveva su di lui, Pietro per primo ha il coraggio di proclamare che egli è il Cristo, che egli è l’atteso, che egli è colui che porta a compimento tutte le promesse di Dio: in Cristo tutte le promesse di Dio sono compiute. Dio ci parla ormai non più attraverso un libro, non più attraverso degli oracoli o dei comandamenti. Dio ci parla ormai nel suo Figlio venuto in mezzo a noi. Non ci parla più attraverso altri: ormai ci ha mandato il suo Messia, che lo rende presente nel mondo.

Incredibile è pensare di essere dinanzi al luogo dove Erode Filippo ricevette il regno, il luogo nel quale Gesù si recò con i suoi. Erode Filippo fu contemporaneo di Gesù, Gesù venne vicino alla sua città, ma anche egli, come Augusto, non lo incontrò, non lo conobbe, non divenne suo discepolo, non ebbe la grazia che è stata fatta a noi.

Antologia per la riflessione personale

da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98
«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro) si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare Archelao… Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Fra i presenti era anche Filippo, il fratello di Archelao, inviato amichevolmente da Varo col seguito di una scorta per due motivi: per appoggiare Archelao e per ottenere una parte del patrimonio di Erode nel caso che Cesare l’avesse ripartito fra tutti i suoi discendenti… Sentite le due parti, Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà dei regno ad Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea, l’intera Giudea e la Samaria» (da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98).

Mc 6,17-29
Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Lc 23,5-12
I capi dei sacerdoti insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.

Giuseppe Flavio, Ant. 18, 109-119
Vennero in conflitto Areta, re di Petra, ed Erode [Antipa]. Il tetrarca Erode aveva sposato la figlia di Areta ed era unito a lei già da molto tempo. In procinto di partire per Roma, egli prese alloggio da Erode [Filippo, nominato in Mc 6,17], suo fratello, essendo di diversa madre; infatti questo Erode era nato dalla figlia del sommo sacerdote Simone. Innamoratosi di Erodiade, sua moglie, che era figlia del loro fratello Aristobulo e sorella di Agrippa il Grande [=Erode Agrippa I, nominato in At 12], cominciò impudentemente a parlarle di matrimonio. Avendo ella accettato, convennero che lei si sarebbe trasferita a casa di lui, appena fosse tornato da Roma. Nei patti c'era che egli doveva ripudiare la figlia del re Areta. Trovatisi d'accordo su queste cose, egli s'imbarcò per Roma. Al ritorno, dopo aver sbrigato le sue faccende a Roma, sua moglie, venuta a conoscenza dei contatti con Erodiade e prima ancora di informarlo che sapeva ogni cosa, chiese di essere inviata a Macheronte, che era ai confini dei domini di Areta e di Erode, senza dare alcuna spiegazione delle sue intenzioni. Ed Erode la lasciò andare, senza sospettare cosa la donna tramasse. Ma questa aveva già mandato dei messaggeri a Macheronte, che allora era soggetto a suo padre, in modo che il governatore (della fortezza) potesse preparare tutto per il viaggio. Appena giunta, ella partì per l'Arabia, pensando i vari governatori al trasporto, finché giunse velocemente dal padre e gli rivelò il progetto di Erode. Quegli (=Areta) fece di ciò un motivo di inimicizia, in aggiunta alla questione dei confini nella regione della Gabalitide. Raccolte truppe da ambedue le parti in vista della guerra, designarono dei comandanti invece di prendere essi stessi il comando. Data battaglia, l'intero esercito di Erode fu distrutto, in seguito al tradimento di alcuni rifugiati, che provenivano dalla tetrarchia di Filippo e si erano uniti alle forze di Erode. Erode scrisse queste cose a Tiberio. Questi, adiratosi perché Areta aveva cominciato le ostilità, scrisse a Vitellio [Legato in Siria negli anni 35-37: cf. Tacito, Ann 6, 32] di dichiarargli guerra e di condurre a lui Areta in catene, se l'avesse catturato vivo, o di mandargli la testa, se fosse stato ucciso. Queste cose Tiberio ordinò al governatore di Siria.
Ma ad alcuni giudei sembrò che l'esercito di Erode fosse stato distrutto da Dio, e del tutto giustamente, per punire il suo trattamento di Giovanni soprannominato “battista”. Erode, infatti, aveva ucciso quest'uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo. In ciò, infatti, il battesimo doveva risultare secondo lui accetto (a Dio): non come richiesta di perdono per eventuali peccati commessi, ma come consacrazione del corpo, poiché l'anima era già tutta purificata con la pratica della giustizia. Ma quando altri si unirono alla folla, poiché erano cresciuti in grandissimo numero al sentire le sue parole, Erode cominciò a temere che l'effetto di una tale eloquenza sugli uomini portasse a qualche sollevazione, dato che sembrava che essi facessero qualunque cosa per decisione di lui. Ritenne perciò molto meglio prendere l'iniziativa e sbarazzarsene, prima che da parte sue si provocasse qualche subbuglio, piuttosto che, creatasi una sollevazione e trovandosi in un brutto affare, doversene poi pentire. Perciò (Giovanni), per il sospetto di Erode, fu inviato in catene a Macheronte, la fortezza di cui abbiamo già parlato, e là fu ucciso. Ma l'opinione dei giudei fu che la rovina dell'esercito venne da Dio, che volle punire Erode per averlo condannato”

Mc 8,27-30
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

7/ Perché Gesù venne ucciso sotto Ponzio Pilato, governatore di Tiberio? Chi decise la sua morte? (dalla terrazza sul Campidoglio vicino alla Domus Tiberiana)

Ambientazione

La terrazza del Palatino che permette la meravigliosa vista dei Fori e dell’intera città, è pertinente oggi ai cosiddetti Orti farnesiani, perché nel Cinquecento i Farnese vi sistemarono la loro villa di famiglia con i giardini tuttora visibili. Sotto la Villa si trova la cosiddetta Domus Tiberiana – scavata dagli archeologi solo in alcuni punti - che è l’estensione del palazzo imperiale fatta realizzare dal secondo imperatore, Tiberio, succeduto ad Augusto. Se sotto Augusto nacque Gesù, è sotto Tiberio che avvenne la morte del Battista e la crocifissione del Cristo. L’immaginazione ci permette di tornare ai tempi nei quali Tiberio passeggiava in questa zona del Palazzo. Sicuramente alla Domus Tiberiana dovette salire più volte anche Ponzio Pilato, che era governatore di Tiberio per la Giudea. Dalla terrazza è possibile scorgere un ulteriore luogo nel quale sicuramente Pilato si dovette recare, il Tempio di Marte Ultore.

Augusto ne decise l’edificazione nel 42 a.C., come atto votivo prima della battaglia di Filippi contro gli uccisori di Cesare, perché il dio lo sostenesse in questo atto di vendetta, anche se il tempio fu terminato solo nel 2 a.C.

Il tempio di Marte divenne il luogo nel quale si recavano a sacrificare alla divinità prima della loro missione tutti i condottieri dell’esercito romano, così come i capi dell’amministrazione imperiale delle diverse province. Il motivo di questi riti e di questi sacrifici è facilmente intuibile. Come Marte aveva sostenuto Augusto nella vittoria contro coloro che avevano attentato all’impero – gli uccisori di Cesare – così la stessa divinità avrebbe punito qualsiasi ufficiale dell’impero che non fosse stato fedele ad Augusto e ai suoi successori.

Possiamo immaginare allora Ponzio Pilato che, in partenza per la Giudea, offre sacrifici a Marte ultore, nel Tempio a lui dedicato - Pilato fu prefetto della Giudea dal 26 al 36 d.C. Solo con gli imperatori successivi il titolo di prefetto fu poi mutato in quello di procuratore.

Nato sotto Augusto, Gesù visse quindi la sua vita pubblica e venne poi crocifisso sotto Tiberio, essendo prefetto della Giudea Ponzio Pilato che qui giurò fedeltà a Roma ed al suo imperatore, consapevole che Marte lo avrebbe punito se si fosse ribellato a Cesare. L’imperatore è citato una volta nel Vangelo di Luca che dice: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-2).

Catechesi

Tiberio, dunque, è il secondo imperatore romano. È il successore di Ottaviano Augusto e regnò dal 14 al 37 d.C. Se si torna a Luca 3 - «Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare» - si vede che Tiberio è definito Cesare. Il termine voleva un tempo dire semplicemente “governante”, ma il suo significato era ormai equivalente a quello di “imperatore”, poiché Augusto si era fatto chiamare Cesare e prima di lui tale titolo era stato assunto da Giulio appunto Cesare. Si ritrova nei secoli l’evoluzione di quel titolo in tedesco ed in russo: in tedesco Kaiser ed in russo Zar (da Kzar).

Luca ricorda che a quel tempo «Ponzio Pilato era governatore della Giudea». Non c’era più, quindi, alcun etnarca: si era passati dall’etnarchia di Archelao al governatorato romano e la Giudea era sotto diretto governo romano. Pilato governava la Giudea e Gerusalemme a nome dell’imperatore Tiberio.

Ricorda ancora che «Erode era tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide – quindi, come si è visto, Erodiade passò dal regno dell’uno al regno dell’altro - e Lisània tetrarca dell'Abilène» - dall’altra parte del Giordano c'era l’Abilène, un’ulteriore quarta parte del regno voluta dai romani.

Si era «sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa». In realtà qui Luca probabilmente si sbaglia, poiché vi era un unico sommo sacerdote, ma era ancora vivo il predecessore. Caifa era il sommo sacerdote, succeduto ad Anna, ma poiché Anna era ancora molto importante i due sono associati nei sinottici, mentre Giovanni ricorda con più precisione che Caifa rivestiva quella carica.

Luca prosegue affermando che proprio mentre tutti costoro esercitavano il potere civile e religioso, ognuno nel suo ambito, «la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto». Luca annunzia così che la Parola di Dio è libera, scende dove vuole, scende in una determinata cronologica ed in determinate regioni con i loro governanti, ma scende senza aver bisogno di chiedere alcun permesso a tutti costoro.

Ma la catechesi che vogliamo qui svolgere riguarda l’importantissima questione del motivo della condanna di Gesù. Gesù fu condannato sotto Tiberio imperatore e sotto Ponzio Pilato governatore della Giudea. Ma chi fu il vero responsabile della morte del Cristo e soprattutto perché egli venne condannato?

Il passato recente si è abituato a rispondere a questi due quesiti importantissimi - ed ovviamente legati fra di loro - con affermazioni che poco hanno di storico. La preoccupazione sembra talvolta più quella di essere “politicamente corretti” e di inseguire immagini di Gesù à la page piuttosto che quella di raggiungere la verità storica.

Una certa vulgata ha voluto imporre una visione degli eventi secondo la quale Gesù sarebbe stato condannato a morte perché da lui si temeva un sommovimento popolare e, conseguentemente, il vero responsabile della crocifissione sarebbe stato il potere romano, deputato a mantenere l’ordine e, quindi, chiaramente ostile ad innovatori pericolosi.

Questa interpretazione rimonta a quel filone di pensiero che, prescindendo dalle fonti, vuole vedere in Gesù primariamente un contestatore dello status quo stabilito dai potenti del tempo, un maestro di morale venuto a rivelare la falsità di ogni legge umana e l’arbitrarietà di ogni legge scritta ed, in particolare, a rivelare la falsità della classe dirigente del tempo che di quella legge si serviva per tutelare i propri privilegi. Il sinedrio avrebbe sì contribuito alla morte del Cristo, ma solo perché avrebbe sentito traballare il proprio potere a motivo di quel galileo che era sorto a contestarne la legittimità.

Peccato, però, che nessun dato storico autorizzi questa visione degli eventi. Nell’episodio del pagamento della tassa al Tempio, Gesù invita, pur ritenendosene esente, a versare la tassa stabilita per il culto. Nella risposta a chi lo interroga sulla liceità del tributo a Cesare, Gesù, pur invitando a rendere culto innanzitutto a Dio, afferma che bisogna rendere a Cesare, nel suo caso a Tiberio, ciò che è contrassegnato dalla sua effige. Anche quando il Maestro critica coloro che si sono seduti sulla cattedra di Mosè, cioè gli scribi ed i farisei del suo tempo, egli non invita però a disprezzarli con facili irrisioni del tipo “predicano bene e razzolano male”, bensì afferma: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,3).

Anche l’osservazione del comportamento di Pilato orienta nella stessa direzione. Egli, come suprema autorità politica nella Giudea di allora, non aveva certamente esercitato la sua autorità sempre in maniera esemplare, abusandone talvolta, come insegna Flavio Giuseppe e come attestano gli stessi vangeli (cfr. Lc 13,1 che parla di «quei Galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), ma pure, in occasione del processo, mostra in un primo momento di non avere niente da ridire contro quell’uomo. Doveva sapere bene che nessun pericolo sarebbe mai venuto a lui ed al potere romano da quel Gesù e dai suoi discepoli.

Solo contro voglia, arrivò a “lavarsene le mani”, con espressione che da quel giorno diventerà memorabile ad indicare tutti coloro che vengono costretti ad interessarsi di una questione scottante e, pur avendo buone ragioni per prendere una decisione favorevole, preferiscono cedere alle pressioni.

Se è evidente, allora, che nessuno dei potenti del tempo aveva mai dovuto temere una diminuzione del proprio potere da quel “galileo”, perché Gesù fu condannato a morte e da chi?

La risposta è semplice e straordinariamente interessante. Gesù fu condannato per ragioni religiose, perché il suo insegnamento contravveniva alla Legge di Mosè. «Avete udito la bestemmia» (Mt 26,65), ripetono i vangeli. Il sinedrio determina la condanna di Gesù, perché non può accettare che egli si ponga sullo stesso piano di Dio: «Vedrete il Figlio dell’uomo stare alla destra di Dio» (Mt 26,64).

Ciò che è evidente in occasione del processo non è meno evidente nel corso di tutta la vita del Maestro. Continua è l’accusa di sovvertire la Legge di Dio, di farsi più grande di Mosè, di rivendicare cioè il ruolo di vero legislatore divino. Il processo appare, da questo punto di vista, solo come l’apice di una tensione crescente, perfettamente distinguibile e costante nei suoi motivi.

Gesù si attribuiva un ruolo che era spettato fino ad allora a Dio solo. Solo Dio, infatti, può chiedere di essere seguito, senza se e senza ma, ma questo Maestro pretendeva che la sua sequela divenisse il criterio determinante della stessa comunione con Dio.

Proprio la condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio mostra come l’establishment religioso del tempo si accorgesse bene che Gesù non si riteneva un rabbino come gli altri, bensì pretendeva un’autorità divina che faceva gridare alla bestemmia. Ci si poteva convertire a lui ed accoglierlo come Figlio di Dio, oppure bisognava che egli fosse soppresso perché la sua vita violava l’unicità di Dio.

Pilato ed il potere romano entrano in gioco solo quando la sua condanna a morte è già decisa. Essendoci un regime di occupazione, il diritto romano vietava ai suoi sudditi di eseguire condanne a morte senza previa autorizzazione. La condanna a morte, che era stata comminata a Gesù a motivo della legislazione religiosa del sinedrio allora vigente, non poteva essere eseguita dalle guardie dei sacerdoti, ma solamente dall’autorità romana.

Pilato accondiscese alla condanna non perché temeva una rivolta da parte dei discepoli di Gesù, ma perché, una volta che il sinedrio ebbe sobillato la popolazione, il governatore dovette rendersi conto che la popolazione si sarebbe rivoltata se egli non lo avesse fatto crocifiggere. Il movente politico entra in seconda battuta ed in una direzione totalmente diversa da quella che abitualmente si ipotizza. Era dagli avversari di Gesù che Pilato doveva guardarsi se voleva mantenere la pace nei territori che doveva amministrare.

Un autore moderno, C.S. Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia, ha mostrato in maniera chiarissima quali sono le due uniche possibilità dinanzi a Gesù. Poiché egli mostrava chiaramente un’autocoscienza di qualcuno che si poneva allo stesso livello di Dio non restano che due possibilità: o ritenerlo un pazzo, un megalomane, un egocentrico paranoico, oppure riconoscerlo Dio e farsi suo discepoli. Affermare che egli si ritenesse solo un rabbino, che si considerasse solo un uomo e che solo i discepoli lo abbiano innalzato al rango di Dio contraddice il dato storico: tutti i suoi ascoltatori sentivano che Gesù “bestemmiava”, che si faceva simile a Dio. Così afferma Lewis, in maniera straordinaria:

«Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo - allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito».

Fu, allora, il Sinedrio a decretare la morte di Gesù e fu Pilato invece l’esecutore, perché non ebbe il coraggio di opporsi al Sinedrio e se ne lavò le mani.

Ma tali responsabilità storiche del sinedrio non debbono far dimenticare il valore teologico di quanto avvenne in quei giorni: Cristo non morì solo per i peccati del sinedrio, ma perché prese su di sé i peccati di noi tutti. Come disse Giovanni Paolo II, nella sua storica visita alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986, «agli ebrei come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le sue opere”, gli ebrei come i cristiani».

Se è utile tornare a parlare di quella responsabilità non è assolutamente per infierire sul colpevole storico di quell’omicidio, bensì per affermare il fatto che Gesù rivendicava una vicinanza unica con il Padre.

Proprio per questo egli prese su di sé i peccati di noi tutti. Egli, coscientemente, dette compimento all’antica parola che Dio aveva pronunciato per mezzo della bocca del profeta Isaia: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5).

Antologia per la riflessione personale

Lc 3 1-4
Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.

da C.S. Lewis, Scusi... Qual è il suo Dio?, GBU, Roma, 1993, pp. 75-76
Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: “Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio”. Questa è proprio l’unica cosa che non dobbiamo dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e che dicesse le cose che disse Gesù non sarebbe certo un grande maestro di morale, ma un pazzo - allo stesso livello del pazzo che dice di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il Diavolo. Dovete fare la vostra scelta: o quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure era un matto o qualcosa di peggio. Potete rinchiuderlo come un pazzo, potete sputargli addosso e ucciderlo come un demonio, oppure potete cadere ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non tiriamo fuori nessuna condiscendente assurdità come la definizione di grande uomo, grande maestro. Egli ha escluso la possibilità di questa definizione – e lo ha fatto di proposito.

8/ La fine dei sacrifici animali ed il nuovo culto nella Lettera agli Ebrei (dinanzi all’Arco di Tito)

Ambientazione

La Via Sacra era la via per la quale passavano tutte le processioni e tutti i trionfi. Quando l’esercito vinceva una guerra, al ritorno dalla campagna vittoriosa, un lunghissimo corteo sfilava per la Via Sacra, passava sotto gli archi di trionfo e arrivava al Campidoglio dove venivano offerti sacrifici agli dèi nel tempio di Giove Capitolino, dove era venerata la Triade Capitolina, per ringraziare della vittoria ottenuta. Il corteo iniziava con i buoi destinati ad essere sacrificati e continuava con i soldati, con gli addetti che trasportavano gli oggetti del bottino di guerra, con i prigionieri di guerra ed i capi nemici catturati, e si concludeva con il vincitore i cui capo veniva cinto da alloro.

I romani presero ad edificare templi alla triade capitolina in ogni luogo delle loro conquiste e proprio il desiderio di Adriano di erigere un tale tempio a Gerusalemme suscitò le ire dei giudei, perché gli abitanti rifiutarono l’idea di un tempio pagano a Gerusalemme; si scatenò così la seconda guerra giudaica e si giunse alla successiva espulsione degli ebrei dalla loro capitale.

L’arco di Tito è uno degli archi eretti sulla Via Sacra: venne costruito al termine della I guerra giudaica. L’arco è detto di Tito, ma fu, in realtà, fatto erigere dal fratello Domiziano in onore del suo predecessore. Entrambi erano figli di Vespasiano. Sotto questo arco Tito non è mai passato, ma è stato costruito alla sua morte per celebrare la sua gloria.

L’iscrizione dedicatoria è ancora leggibile dal lato dal quale il corteo trionfale attraversava l’arco, percorrendo la Via Sacra verso il Campidoglio. L’iscrizione recita: "SENATUS POPULUS QUE ROMANUS DIVO TITO DIVI VESPASIANI F VESPASIANO AUGUSTO" cioè: “Il senato ed il popolo di Roma al divino Tito, figlio del divino Vespasiano, Vespasiano Augusto”. È un modo propagandistico di parlare, perché in realtà non è stato il senato o il popolo a prendere la decisone, ma tutto si deve alla volontà di Domiziano.

I punti scuri che si vedono ancora oggi nelle lettere che compongono l’iscrizione sono i fori nei quali erano fissate le lettere in bronzo, ma, nel tempo, tutti gli oggetti in metallo furono asportati per essere fusi e riutilizzati.

La I guerra giudaica che l’Arco celebra fu iniziata da Vespasiano, che era allora un generale di Nerone - Nerone morì nel 68, mentre la guerra iniziò nel 66 con la rivolta degli zeloti. Mentre Vespasiano combatteva, Nerone morì e Vespasiano fu acclamato imperatore dalle truppe. Dovette, allora, recarsi a Roma, per assumere il potere e lasciò il figlio Tito a continuare la guerra. Tito vinse la guerra, prendendo Gerusalemme ed espugnando, infine, anche Masada. Morto il padre, nel 79 divenne poi imperatore. Alla sua morte, solo due anni dopo, nell’81, divenne imperatore suo fratello Domiziano. Sotto Domiziano, secondo la tradizione, avvenne la persecuzione durante la quale si colloca l’Apocalisse. Con questo arco, appunto, Domiziano volle celebrare il fratello appena morto.

Le raffigurazioni più famose dell’arco sono sotto il fornice. In quella di sinistra, secondo il verso di ingresso per la celebrazione dei Trionfi, si vede raffigurato l’esercito romano che passa sotto l’arco trionfale. Il rilievo è scolpito in maniera prospettica, come se fosse un rotolo che gira, per dare una maggiore impressione di veridicità. L’arco è, quindi, rappresentato leggermente di traverso. I soldati romani portano dei cartelli sui quali erano scritte, come nei fumetti, le didascalie nelle quali si raccontavano gli eventi importanti della guerra vinta o le città conquistate.

Altri soldati inneggiano con le trombe, altri ancora portano in trionfo gli oggetti razziati dal Tempio di Gerusalemme. Fra gli oggetti del bottino di guerra si vede chiaramente la menorah, il candelabro a sette bracci - la menorah non è un oggetto particolare di culto, ma così erano realizzati i candelabri in oro presenti nel Tempio di Gerusalemme.

 

Sotto la menorah si vede un oggetto che viene identificato, ma la cosa è discussa, con la tavola per la presentazione dei pani nel Tempio. Tutto fu portato via dal Tempio, prima di darlo alle fiamme, e da quel momento in poi cessarono i sacrifici nel Tempio ed il giudaismo visse un culto ormai solo sinagogale, senza più la parte sacrificale che avveniva solo nel Tempio.

È ridicolo come ci sia ancora oggi qualche ignorante che si mette alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza; si tratta di sciocchezze, perché già dalla distruzione del cosiddetto “primo Tempio” di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi nel 587/86, fu razziato tutto e non rimase nulla. Già ai tempi della distruzione del “secondo Tempio” nell’anno 70 questi oggetti quindi, qualsiasi cosa si pensi degli eventi dell’Esodo, non esistevano più.

I romani distrussero quello che è noto come il secondo Tempio che fu, appunto, la ricostruzione del primo Tempio scomparso nell’anno 587/86. Dopo la distruzione del primo Tempio i profeti del post-esilio, Esdra, Neemia, ecc. chiesero, a nome di Dio, che il Tempio fosse ricostruito, dopo la distruzione del secondo questo non è avvenuto.

Il cosiddetto “Muro del pianto”, che gli ebrei chiamano in realtà “Muro occidentale” (in ebraico 'Hakotel Hama'aravi) è il muro occidentale di fondazione di questo secondo Tempio, con gli abbellimenti monumentali voluti da Erode il Grande.

Prese il nome tradizionale di “Muro del pianto” perché gli ebrei, dinanzi a queste mura di fondazione, si recavano a piangere il fatto che oramai il Tempio non c’era più e non era più possibile offrire a Dio i sacrifici che la Legge prescriveva. Dio aveva, in qualche modo, cessato di abitare in mezzo al popolo nel suo Tempio.

La lettura cristiana dell’evento vedrà nella distruzione del Tempio non solo un fatto storico dovuto ad una guerra cruenta, ma anche un evento provvidenziale che confermava che il vero sacrificio gradito a Dio era ormai solo la croce di Cristo. Per un cristiano offrire degli animali in sacrificio non avrebbe alcun senso. Alcuni rabbini discutono anche oggi sulla questione della ricostruzione di un III Tempio e sull’ipotesi che Dio potrebbe tornare a chiedere i sacrifici che erano prescritti per gli ebrei prima dell’anno 70.

L’ebraismo si è, comunque, trasformato, proprio a motivo degli eventi della I guerra giudaica, in una religione sinagogale che ha cessato i sacrifici ed ha incentrato il suo culto nella lettura della Torah, della Sacra Scrittura. Le sinagoghe esistevano anche prima del 70, ma solo da quell’anno quello sinagogale divenne il culto ufficiale.

Nel pannello sul lato destro, si vede il trionfo dell’imperatore. L’imperatore è sulla quadriga e segue il corteo con i prigionieri e le armi. Il corteo che abbiamo visto sull’altro pannello precedeva l’imperatore. Il trionfo era un momento di festa nell’urbe, perché Roma aveva sconfitto un altro nemico; durava giorni interi. I prigionieri più importanti arrivavano al carcere Mamertino e venivano o imprigionati o uccisi.

Alle spalle dell’imperatore si vede la Vittoria alata che lo incorona con l’alloro. In origine la parola imperator voleva dire semplicemente “colui che porta l’alloro”, cioè “colui che ha vinto”. Spesso tutti i soldati, qui lo vedete raffigurato, avevano l’alloro in testa: era il segno della vittoria.
Si vedono anche due figure che sono chiaramente simboliche, una nuda che rappresenta il popolo tutto, l’intera urbs di Roma che ha vinto, l’altra, vestita, che rappresenta il Senato
 (le due figure esprimono simbolicamente l’espressione proverbiale Senatus populusque romanus, il Senato e il popolo romano, abbreviata in SPQR).

Se guardate nella volta dell’arco, si vede l’imperatore Tito che viene portato in cielo da un’aquila. È un’immagine dell’apoteosi, della divinizzazione; la religione pagana promossa dagli imperatori voleva che alcuni uomini ed, in particolare, gli imperatori, potessero ascendere al cielo e diventare dèi.

 

La fede cristiana, al contrario, è discendente: è il Figlio di Dio che si incarna. Noi crediamo non nella divinizzazione di alcuni uomini, ma nell’umanizzazione di Dio! Dio, che è infinito, si fa piccolo, si fa uomo. Qui vediamo il contrario, l’imperatore che ha vinto la guerra viene portato in alto.

Se torniamo dal lato dell’iscrizione, si vede in alto, sulla cornice, il corteo trionfale. Si vedono qui, in particolare, gli animali destinati al sacrificio ed una piccola portantina, detta ferculum, sulla quale viene portato un simulacro (potrebbe essere la rappresentazione del fiume Giordano, ma questo non è certo).

Catechesi

Dinanzi all’arco di Tito vi invito a riflettere sulla questione di cosa abbia pensato fin dalle origini il cristianesimo dei sacrifici antichi. Quasi tutte le religioni antiche – ma anche molte delle moderne, come l’Islam che lo conserva ancora una volta l’anno – davano valore ai sacrifici animali ritenendo che essi fossero graditi a Dio. Anche nell’ebraismo esisteva il sacrificio rituale fino alla distruzione del Tempio avvenuta nell’anno 70 e ricordata, appunto, da questo Arco trionfale.

Un libro del Nuovo Testamento, in particolare, è importantissimo in questo senso ed è la Lettera agli Ebrei. In essa si spiega quale sia il sacrificio veramente gradito a Dio e si congedano definitivamente i sacrifici animali. I sacrifici animali vengono ritenuti ormai inutili perché superati totalmente dall’offerta del Figlio e dalla sua croce. Meglio: non inutili del tutto, perché importanti come prefigurazione di ciò che doveva avvenire, ma ormai da abbandonare, una volta che si è realizzato ciò che essi non erano in grado di raggiungere.

Qual è la vera novità del sacrificio di Cristo? Si può rispondere in maniera sintetica con queste straordinarie parole:

«Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati altrimenti i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale». Così scriveva nel 1968 J. Ratzinger nelle sue lezioni sul Simbolo apostolico del volume Introduzione al cristianesimo.

La domanda sul significato della croce non cessa di scuotere ogni generazione. Proprio la lettera agli Ebrei ne chiarifica il senso. Essa è, in realtà, la trascrizione di un’omelia pronunciata prima dell’anno 70 dopo Cristo. In quell’anno – come si è già detto - si interruppero le offerte dei sacrifici nel Tempio e la storia dell’ebraismo conobbe una svolta radicale.

Nella lettera agli Ebrei, che confronta il nuovo sacerdozio di Cristo con il sacerdozio levitico che si svolgeva nel Tempio, non è possibile trovare neanche un minimo accenno alla fine dell’antico culto; gli esegeti ne deducono che la lettera è di poco anteriore al 70, poiché se l’autore avesse avuto conoscenza della distruzione del Tempio ne avrebbe certamente inserito la notizia nella sua argomentazione.

L’omelia divenne una lettera, come è facile vedere dagli ultimi versetti; fu cioè inviata ad un altra comunità perché lì fosse letta. Questa comunità è probabilmente Roma, poiché si dice in chiusura del testo: «Vi salutano quelli dell’Italia» (Eb 13,24). Queste parole sono testimonianza del fatto che alcuni emigrati dall’Italia inviarono insieme alla lettera il saluto ai loro compatrioti; è ovvio che un invio dello scritto in Italia non poteva non comprendere come destinazione anche Roma.

Perché il sacrificio di Cristo è “nuovo” e “definitivo”? Perché la morte in croce? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Queste sono le grandi domande a cui risponde la lettera agli Ebrei. Afferma l’Autore: «La legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19)! I tanti sacerdoti che avevano offerto sempre nuovi sacrifici a Dio dovevano offrirli sempre di nuovo, perché né loro, né il popolo erano mai senza peccato. I sacrifici rinnovavano sempre il ricordo dei peccati, ma mai rendevano totalmente nuovo il cuore.

Cristo non offrì una vittima per quanto preziosa, ma offrì se stesso (cfr. Eb 8,27). A Dio fu gradita non semplicemente la sua morte, non il suo dolore - lungi dal cristianesimo l’idea di un Dio che si compiace del dolore! Dio ha amato, nella croce, l’amore del Figlio. È questo la novità cristiana, è questa la salvezza del mondo: Cristo ha riempito di amore il dolore fisico della crocifissione, Cristo ha colmato di amore, attraverso il perdono, anche il dolore del suo essere rifiutato degli uomini. Lì dove l’uomo accresce la rabbia o il rifiuto, Egli ha riempito di obbedienza al Padre e di misericordia il male che gli era inflitto.

Ma perché ha potuto farlo? Proprio perché è il Figlio fattosi uomo. I sacrifici delle religioni sono offerte dell’uomo rivolte a Dio; ogni popolo nei secoli ha cercato di prendere quanto di più bello e prezioso aveva per offrirlo a Dio. Nella fede cristiana, invece, l’offerta discende dal cielo. Il dono giunge da Dio, il sacrificio ed il sacerdote provengono da lui. Dio ci ha donato il Cristo perché noi accogliessimo il suo sacrificio per noi. Cristo, dice l’Autore della lettera agli Ebrei, non è solo “misericordioso” verso noi uomini, ma è, insieme, “degno di fede” (cfr. Eb 2,17ss.), perché più grande degli angeli, perché, luce della stessa gloria divina, porta impressa in sé tutta la divinità di Dio.

Ecco allora la salvezza cristiana: non l’uomo che si acquista l’amore di Dio con le sue opere ed i suoi sacrifici, ma Dio che si dona perché l’uomo possa avere comunione con Lui. La soteriologia è così intimamente legata alla dogmatica: dire che Cristo è il Salvatore è aver detto tutto su di lui. Infatti, se Cristo è morto in croce per i nostri peccati, se ci ha salvati, se crediamo che Dio è amore dopo aver visto la croce, noi crediamo che Gesù è veramente Dio. Nella croce noi non incontriamo una bella testimonianza, bensì molto più profondamente noi siamo abbracciati dal suo amore, cioè dall’amore di Dio. Nella croce noi siamo amati e salvati. Senza quell’amore non potremmo con le nostre sole opere incontrare Dio.

È importante sottolineare che molte religioni rifiutano l’idea di un salvatore. Il buddismo, ad esempio, ritiene che l’uomo non abbia bisogno di essere salvato, bensì che debba purificarsi ed abbia le forze per farlo. L’Islam, invece, rifiuta Cristo come salvatore, nonostante il fatto che, per i musulmani, Gesù sia il più grande profeta prima di Maometto. In una Sura coranica, infatti, gli ebrei di Medina sono accusati per aver detto: «"Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!", mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]» (Sura IV, 157). Per l’Islam la crocifissione sarebbe così una invenzione di ebrei e cristiani ed i racconti sulla morte di Gesù sarebbero falsificati. Gesù sarebbe, invece, asceso in cielo in corpo e anima, senza prima morire.

Gli studiosi affermano che il rifiuto storico di accettare la morte in croce di Gesù dipenda da un motivo più profondo: l’Islam non può accettare la croce, perché se la accettasse, dovrebbe riconoscere che abbiamo bisogno di un Salvatore. E che è Gesù che ci ha salvati. E che non è la sola fede in Allah che salva. E che sarebbe necessario “associare” a Dio un altro, il suo Figlio.

La visione islamica ha difficoltà ad accettare anche che un giusto possa essere fatto soffrire da Dio: Dio, se è giusto, “deve” proteggere i suoi profeti. Ma cancellando la croce, cancella anche il perdono: l’eliminazione della croce fa sì che l’adultera, il ladro, l’omicida, il rinnegatore di Dio non abbiano più chi li difenda, li perdoni e li protegga.

La fede cristiana proclama invece con gioia che proprio nella croce del Figlio Dio si è manifestato come il Dio del perdono, il Dio della misericordia. Se Gesù è Figlio di Dio allora la croce ha un senso: non è solo una sconfitta, ma la più grande rivelazione di amore. Se Gesù non è Figlio di Dio allora la croce non ha alcun significato, è solo un orrendo omicidio.

Ma vale pure l’inverso. Se Gesù è morto in croce consapevolmente per salvarci, allora egli è Dio.

Ancora una volta appare evidente come il dogma non sia una questione teologica astratta per specialisti, ma la custodia del fatto che la vita è stata salvata e che Dio è venuto in mezzo a noi.

Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che con il sacrificio della croce si trasforma tutto il rapporto tra l’uomo ed il male, così come tutto il rapporto tra l’uomo e Dio. R. Girard, pensatore francese, ha intuito che il sacrificio cruento, violento, accompagna tutta la storia umana fino all’avvento del cristianesimo. In ogni cultura, quando viene commesso il male, ecco che la società se ne distacca accusando il colpevole e pretendendo da lui o da un capro espiatorio di pagare per il male commesso. Ma così il male non viene superato, bensì riproposto nuovamente: per liberare la società dal male, si cerca una nuova vittima - reale nel caso della pena di morte o simbolica nel caso del sacrificio animale - e la si sacrifica.

Gesù Cristo spezza questo circuito che si ripete eternamente. Dinanzi al male commesso, Egli non chiede una vittima, un sacrificio, un capro espiatorio, ma offre se stesso. La vittima non sale più dall’uomo a Dio, ma discende da Dio stesso, perché l’uomo sa perdonato.

Non solo, ma il cuore di questo nuovo sacrificio, quello della croce, non consiste più nel sangue versato, bensì nell’amore di Cristo. Dio Padre non ama che il Figlio soffra, bensì che il Figlio ami e si doni totalmente. Il vero sacrificio diviene ormai la misericordia: non più qualcuno che paghi ancora per il male, ma il Signore che ama chi non è meritevole d’amore.

Per questo l’agnello diviene il simbolo stesso di Cristo, come profetizzò Giovanni Battista e come storicamente avvenne quando Gesù fu immolato proprio in occasione della Pasqua: Cristo è il nuovo e definitivo agnello pasquale. Il sinedrio, Giuda, Pilato e i nostri peccati lo consegnano con indifferenza ed anzi con odio alla morte, ma Egli riempie quel male del suo amore. Egli continua ad amarci, anzi manifesta in maniera suprema il suo amore, continuando ad amare noi peccatori che lo conduciamo al macello. Nel punto più lontano da Dio, la morte inflitta al Figlio di Dio, regna ormai e per sempre l’amore.

 

9/ Il nuovo sacerdozio (dinanzi al Tempio di Faustina e Antonino Pio/San Lorenzo in Miranda)

Ambientazione

Più avanti è possibile vedere il Tempio di Antonino e Faustina che permette di cogliere un altro aspetto della novità cristiana, della nuova liturgia nata con il cristianesimo. Il tempio venne dedicato all’imperatore e alla moglie - Divi Antonini et Divae Faustinae – divinizzati. La sua trasformazione in Chiesa mostra come era cresciuto il livello del terreno. La porta della Chiesa si apre al livello del riempimento causato dallo scorrere del tempo che aveva interrato gran parte dei Fori. Da quando però sono stati effettuati gli scavi e si ritornò al livello degli edifici di età romana, ecco che la porta appare altissima. La si osserva oggi sempre dalla Via Sacra. Le colonne mostrano anche le scanalature create nei secoli per poter legare ad esse animali.

Catechesi

Sulla scalinata si vede ancora l’altare per i sacrifici. È interessante rendersi conto che nei templi pagani l’uomo non aveva accesso alla cella della divinità. Gli offerenti laici portavano gli animali al sacerdote che li sgozzava sull’altare e preparava poi l’offerta, suddividendo le carni. Ma era poi solo il sacerdote ad entrare nella cella per portare l’offerta alle divinità All’uomo “comune” non era consentito alcun accesso agli dèi.

Tutto cambia con il cristianesimo. Non solo viene abolito il sacrificio animale. Soprattutto si amplia la navata del tempio e tutti, uomini e donne, sono ammessi insieme al cospetto di Dio. L’eucarestia, il vero sacrificio, è certamente presieduta dal sacerdote, ma tutto il popolo si stringe intorno all’altare e nessuno resta fuori dal tempio. Anche questo è sottolineato dalla lettere agli Ebrei: l’autore vuole porre l’accento sul fatto che Cristo, dal punto di vista della sua storia familiare, non apparteneva ad una discendenza sacerdotale, non apparteneva alla tribù dei leviti, non era discendente di Aronne: era un “laico”. Inoltre la sua croce venne innalzata non nel Tempio, non nella Città Santa, ma al di fuori di essa. Eppure lì si manifestò la vera santità, la presenza di Dio, la salvezza, che nessun sacrificio aveva mai potuto realizzare.

Poiché Cristo è il nuovo sacerdote ecco che tutto il popolo e non solo una tribù, diviene popolo sacerdotale ed è ammesso fin nel cuore del tempio, mentre offre a Dio la propria vita nella liturgia quotidiana del dono di sé a Dio ed ai fratelli in famiglia, nel mondo del lavoro e ovunque vada.

Non solo. Con Cristo cambia allora anche il ruolo stesso del sacerdote. Anzi gli apostoli inizialmente non sono nemmeno chiamati sacerdoti nel Nuovo Testamento, nonostante sia chiaro che siano essi a celebrare l’eucarestia - può sembrare strano, ma l’unico del quale esplicitamente si afferma che celebrò l’eucarestia è san Paolo di cui si dice, negli Atti degli apostoli, che spezzò il pane ed il contesto è chiaramente liturgico (At 20,11).

Il motivo per cui ci si mise del tempo a chiamare gli apostoli ed i loro successori è facilmente comprensibile proprio perché nel linguaggio ebraico e pagano del tempo sacerdote era uno che sacrificava gli animali. Immaginatevi che diversità rispetto ad uno che celebrava invece l’eucarestia dove il sacrificio è incruento! Se un sacerdote odierno fosse stato un sacerdote veterotestamentario avrebbe dovuto studiare nozioni di macelleria ed abituarsi allo sgozzamento di animali.

La lettera agli Ebrei chiama per la prima volta Cristo sommo sacerdote e da lì in poi fu possibile applicare nuovamente tale termine anche agli apostoli ed ai loro successori, poiché essi offrivano il nuovo ed eterno sacrificio nell’eucarestia: Cristo stesso. Il prof. Giancarlo Biguzzi ha scritto con grande acutezza, citando il grande studioso della Lettera agli Ebrei A. Vanhoye: «“[I ministri cristiani] non ricevono nel NT il titolo di sacerdoti. La cosa si capisce senza difficoltà: i titoli dei dirigenti della Chiesa primitiva furono scelti in un tempo in cui la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata ancora elaborata. Siccome le loro funzioni erano molto diverse da quelle dei sacerdoti del tempo, ebrei o pagani, l’idea di chiamarli sacerdoti non poteva venire in mente. Dopo l’elaborazione della cristologia sacerdotale del ministero cristiano diventava possibile, anzi necessaria. Essa si fece strada in modo quanto mai naturale nel tempo posteriore al Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento stesso è soltanto suggerita”. Per chi conosceva il tempio di Gerusalemme e le sue celebrazioni sacrificali, infatti, i sacerdoti erano collegati con l’uccisione degli animali (quando l’offerente era in stato di impurità, Ez 44,11; 2Cr 30,17), erano collegati con la manipolazione del sangue che era la parte più santa della vittima (Lv 17,11.14) e con la collocazione sopra l’altare delle carni offerte a Dio. Si può dunque davvero pensare che coloro che presiedevano l’Eucaristia non sono stati chiamati “sacerdoti” perché non avevano a che fare né con l’altare del tempio di Gerusalemme, né con il sangue o con le carni degli animali offerti in sacrificio».

L’allora cardinal Ratzinger ebbe una volta a spiegare che con la fede cristiana il sacerdozio non era abolito, ma trasformato. Ormai non era più l’uomo ad offrire doni a Dio in via ascendente, bensì era Dio a donare se stesso in offerta, in via discendente. Ed il cuore di questo dono, come si è già detto, non consisteva nel sangue o nel dolore, bensì nell’amore con il quale Dio salvava l’uomo. Giovanni Paolo II, nella Pastores dabo vobis, ha scritto, allora, che il sacerdozio è tuttora necessario, anche se è al servizio della Chiesa intera: «Non si deve pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio» (Pastores dabo vobis 16). Del sacerdozio abbiamo bisogno ed esso non è abolito, ma è un sacerdozio diverso da quello antico che è solo una prefigurazione del nuovo.

Antologia per la riflessione personale

Eb 13,24-25
Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano gli emigrati dall’Italia. La grazia sia con tutti voi.

Eb 8,1-5
Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito.
Ogni sommo sacerdote, infatti, viene costituito per offrire doni e sacrifici: di qui la necessità che anche Gesù abbia qualcosa da offrire. Se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge. Questi offrono un culto che è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosè, quando stava per costruire la tenda: «Guarda – disse – di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte.

da G. Biguzzi, Dispense dal titolo Il Sacerdozio del Cristo in Ebrei, presso la Pontificia Università Urbaniana
«[I ministri cristiani] non ricevono nel NT il titolo di sacerdoti. La cosa si capisce senza difficoltà: i titoli dei dirigenti della Chiesa primitiva furono scelti in un tempo in cui la dottrina del sacerdozio di Cristo non era stata ancora elaborata. Siccome le loro funzioni erano molto diverse da quelle dei sacerdoti del tempo, ebrei o pagani, l’idea di chiamarli sacerdoti non poteva venire in mente. Dopo l’elaborazione della cristologia sacerdotale del ministero cristiano diventava possibile, anzi necessaria. Essa si fece strada in modo quanto mai naturale nel tempo posteriore al Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento stesso è soltanto suggerita» (A. Vanhoye, «Sacerdozio», 1398).
– Per chi conosceva il tempio di Gerusalemme e le sue celebrazioni sacrificali, infatti, i sacerdoti erano collegati con l’uccisione degli animali (quando l’offerente era in stato di impurità, Ez 44,11; 2Cr 30,17), erano collegati con la manipolazione del sangue che era la parte più santa della vittima (Lv 17,11.14) e con la collocazione sopra l’altare delle carni offerte a Dio. Scrive per esempio R. De Vaux: «Le prêtre est donc très proprement le “ministre de l’autel” … par (…) évolution (…), l’action sacrificielle leur [= ai sacerdoti] a été de plus en plus réservée, elle est devenue une fonction essentielle et, conséquemment, la ruine du Temple [nell’anno 70 d.C.] a marqué la fin de leur influence : la religion de la Tôra a remplacé le rituel du Temple et les prêtres ont été supplantés par le rabbins» (R. De Vaux, Les institutions de l’AT, vol. II, 210).
- Si può dunque davvero pensare che coloro che presiedevano l’Eucaristia non sono stati chiamati «sacerdoti» perché non avevano a che fare né con l’altare del tempio di Gerusalemme, né con il sangue o con le carni degli animali offerti in sacrificio.
- San Paolo, ad esempio, era certamente sacerdote cristiano e presiedeva l'eucarestia; cfr. At 20,11
[Paolo a Troade risalì dopo la resurrezione del ragazzo], spezzò il pane, mangiò e, dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì.

10/ Una nuova concezione del potere (dinanzi alla Colonna di Foca)

Ambientazione

Al centro dei Fori si leva l’ultimo monumento dedicato da un imperatore in Roma: la colonna di Foca. Essa venne dedicata appunto da Foca imperatore nell’anno 608. Cosa vuol dire questo: che non è vero che l’impero romano in occidente finisce nell’anno 476 con la cattura a Ravenna di Romolo Augustolo! L’impero romano continuò la sua esistenza millenaria e Roma restò una città imperiale, anche se l’imperatore era ormai lontano perché abitava a Costantinopoli. Pian piano si ebbe, invece, un’evoluzione amministrativa perché l’imperatore nominò a rappresentarlo un’esarca, che ebbe sede a Ravenna, poiché Ravenna era più facilmente raggiungibile via mare da Costantinopoli e perché era più facilmente difendibile grazie alle sue paludi. Roma era ormai una città di confine, ma l’esarca scendeva sovente da Ravenna a Roma per il governo dell’urbe. L’esarca, legittimo rappresentante dell’imperatore, risiedeva allora nel palazzo imperiale del Palatino ogni volta che questo fosse necessario. L’iscrizione della colonna di Foca ricorda il nome dell’esarca Smaragdo che la fece erigere:

«All'ottimo principe signore nostro, Foca imperatore, di somma clemenza e somma pietà, per l'eternità incoronato da Dio, trionfatore sempre augusto, Smaragdo, patrizio e esarca d'Italia, per decisione del sacro palazzo, devoto alla sua clemenza, per gli innumerevoli benefici ottenuti dalla sua pietà, e per la pace procurata all'Italia, e per la libertà mantenuta, questa statua di sua maestà, splendente di aureo fulgore, pose su questa sublime colonna a perenne sua gloria, e la dedicò il primo giorno di agosto, nell'undicesima indizione, nell'anno quinto dopo il consolato di sua pietà».

In quegli anni nacque anche l’usanza di inviare, da parte dell’imperatore, un suo ritratto, oppure una ciocca dei suoi capelli, perché queste “reliquie” rendessero presente simbolicamente in Roma la presenza imperiale: tali oggetti venivano conservati ed esposti nella chiesa di Santa Maria al Palatino, oggi nota come Santa Maria Antiqua. Il dominio imperiale su Roma è evidente per quel che riguarda l’imperatore Foca anche dal fatto che fu lui a concedere alla Chiesa di Roma che il Pantheon, tempio che apparteneva al dominio imperiale, fosse trasformato in chiesa cristiana. È il primo tempio pagano in Roma ad essere trasformato in chiesa nell’anno 609. Prima di questa data – siamo ben tre secoli dopo l’editto di Costantino – ancora nessun tempio nell’urbe era stato distrutto, né tanto meno trasformato in chiesa. Fu possibile tale trasformazione nell’anno 609 solo una volta che l’imperatore ebbe dato l’assenso.

Catechesi

Con questa riflessione facciamo un salto dal periodo neotestamentario a quello patristico e medioevale, per non perdere l’occasione di approfondire alcune questioni storiche importantissime, correggendo la visione ideologicamente falsificata che abitualmente viene proposta riguardo al presunto atteggiamento mistificatorio della Chiesa relativo alla Donazione costantiniana. La vera questione non è come mai esista quel falso che è la Donatio di Costantino, ma come mai esista il potere temporale della Chiesa. Se la Donazione di Costantino è un falso, come mai allora il vescovo di Roma venne in possesso del potere temporale? Vedremo subito che, una volta capito cosa avvenne realmente, si riesce allora a collocare quel testo, che non fu mai per la Chiesa un testo importante, nella giusta luce

Che il passaggio dell’acquisizione di un potere temporale sia avvenuto gradatamente è manifesto anzitutto dall'impossibilità di individuare una datazione precisa di tale transizione.

Gli storici, alla ricerca del momento fondativo di tale potere, hanno suggerito che la svolta decisiva sia avvenuta nel 680, oppure nel 726 o nel 732/33, oppure nel 751, o ancora nel 754. Il 680 è l'anno in cui venne stipulata una pace con i longobardi, con un conseguente calo dell’organico militare imperiale presente in Italia e con la concessione al pontefice da parte di Costantinopoli del diritto di coniare monete. Nel 726 e nel 732/33 Roma rifiutò l'aumento del censo imperiale e Costantinopoli, come contromossa, distaccò dal pontefice le diocesi del sud della penisola integrandole pienamente nella cultura bizantina. Il 751 è l'anno in cui Ravenna cadde nelle mani dei longobardi e non ci fu, in conseguenza, più un esarca a rappresentare il potere imperiale in Italia. Nel 754 papa Stefano II si recò a piedi a Reims a chiedere l'appoggio della corte franca dopo che il re longobardo si era rifiutato di restituire le terre sottratte all'impero. Ognuna di queste date è importante, nessuna di per sé decisiva.

Come manca un preciso riferimento cronologico così non esiste un nome dell'incipiente potere temporale della Chiesa di Roma. Lidia Capo ha scritto che «un nome ufficiale è semplicemente mancato»: i termini Stato della Chiesares publica Sancti Petripatrimonium Petri sono tutti moderni.

Ciò che è invece evidente è la continuità: il pontefice in quegli anni continuò ad essere ordinato vescovo di Roma, solo all'arrivo di un documento emanato da Ravenna o Costantinopoli. Senza tale iussio non era lecito procedere dopo l'elezione alla consacrazione, poiché Roma era città imperiale e il papa suddito dell'imperatore (ciò avvenne fino alla caduta di Ravenna).

Non solo, ma Roma continuò a celebrare un cerimoniale che manifestava piena dipendenza da Costantinopoli, come appare proprio dall'erezione della Colonna di Foca e dall'accoglienza delle ciocche dei capelli degli imperatori o delle loro immagini nella chiesa di Santa Maria al Palatino, come si è appena detto.

Costante era l’invocazione di aiuto economico e militare rivolta dall'urbe all'imperatore – si pensi a quando sotto papa Giovanni VI (701-705), nel momento in cui il duca longobardo giunse fino a Sora, il Liber pontificalis afferma che nullus extitisset qui ei potuisset resistere per descrivere la lontananza del potere imperiale.

L'appartenenza di Roma all'impero è attestata soprattutto dal viaggio che l'imperatore Costante II compì per combattere i longobardi, raggiungendo infine Roma nel 663. Nell'urbe dimorò 13 giorni, precisamente nel Palazzo del Palatino, ancora custodito dai suoi ufficiali: fu l'ultima residenza di un imperatore nell'antica capitale prima del “trasferimento” dell'impero in occidente, quando Carlo Magno divenne il nuovo imperator romanorum.

L'imperatore di Costantinopoli si riteneva ancora arbitro supremo non solo delle questioni civili, ma anche di quelle religiose, pretendendo di dettare legge anche al papa di Roma. Alla metà del VII secolo Martino I e Massimo il Confessore pagarono con l'esilio la loro difesa della duplice volontà umana e divina del Cristo, perché l'imperatore era invece monotelita. Martino I venne addirittura preso prigioniero dai soldati imperiali mentre si era fatto distendere su di un lettuccio dinanzi all'altare di San Giovanni in Laterano – poiché era malato – illudendosi che questo lo avrebbe salvato.

Dopo le lotte per i canoni del Sinodo Quinisesto, si giunse alla crisi iconoclasta. Roma si trovò a difendere le immagini contro l'imperatore ed il papa Costantino dovette recarsi, costretto dai soldati bizantini, a Costantinopoli nel 710 mentre gli armati mettevano a morte il consiglio di reggenza della Chiesa di Roma. Alcuni anni più tardi il Liber pontificalis racconta che per ben cinque volte le milizie imperiali cercarono di uccidere papa Gregorio II che difendeva le icone.

Ma questi erano gli ultimi sussulti del moribondo governo imperiale di Roma. Costantinopoli doveva, infatti, fare fronte all'avanzata araba che non concedeva tregua. La città sul Bosforo venne assediata dalle armate musulmane per quattro lunghi anni, dal 674 al 678 e, successivamente, nel 717. Lì si arrestò l’ondata islamica che era sembrata fino a quel momento invincibile. La conseguenza di quegli eventi fu che le energie dell'impero dovettero essere impiegate su quel fronte, per la sopravvivenza stessa di Costantinopoli.

È ben per questo che, quando i longobardi ripresero a premere per un maggiore dominio sulla penisola, solo il pontefice, con la sua autorità morale e sempre più temporale, si levò contro di essi. Roma era ormai legata a Ravenna solo da una stretta lingua di territorio che era ancora in potere imperiale: è quella che gli storici moderni chiamano “corridoio bizantino”, percorso da un arteria che, tramite Perugia, raggiungeva Ravenna e l'Adriatico. A nord di esso era ormai saldamente insediato il regno longobardo, mentre a sud vi era il ducato di Spoleto. Con azioni successive i longobardi presero - e poi restituirono per intervento dei pontefici - Cuma, Sutri, Narni, Perugia, Sora, Cesena, Ravenna. Era evidente la finalità delle diverse azioni: il re longobardo intendeva divenire il nuovo protettore di Roma, sostituendosi all'imperatore ed unificando la penisola sotto il suo governo.

Roma intrattenne buoni rapporti con il mondo longobardo, al punto che il vescovo di Pavia ottenne il privilegio di dipendere direttamente dal vescovo di Roma e non da quello di Milano. L'influsso romano si fece sentire anche nell'elaborazione del diritto longobardo. Ma Roma rifiutò la prospettiva longobarda, difese la tradizione latino-imperale e volle conservare la memoria di un’unità ideale dell'impero che vantava un orizzonte universale e non quello più ristretto di un regno come quello longobardo. Nel vuoto di potere creatosi per la debolezza in occidente dell'impero, il pontefice si levò più volte ad ostacolare le mire espansionistiche longobarde.

Nel frattempo, cresceva il suo ruolo amministrativo e politico su Roma ed il Lazio. Il Liber pontificalis ricorda più volte che il pontefice provvedeva certamente al sostegno economico della vita della Chiesa nelle quattro parti rivolte a clero, monasteriis, diaconiae et mansionaribus – Jean Durliat ha mostrato in maniera definitiva come monasteriis e diaconiae siano da intendersi come due dativi, ai monasteri ed alla diaconia, poiché non sono mai esistiti in quel tempo dei monasteria diaconiae.

Ma il vescovo di Roma, come garante e sempre più come effettivo responsabile dell'amministrazione dell'urbe, gestiva ormai anche la vita temporale della città. A lui facevano capo il sistema fiscale e la distribuzione degli stipendi statali (come appare nel caso dell'assedio dei militari bizantini al patriarchio lateranense sotto papa Severino nell'anno 640, posto in atto per avere in maniera irregolare la paga per il servizio svolto alla città), così come la cura dell'intero apparato amministrativo (Paolo Radiciotti ha dimostrato nei suoi studi come si sia passati dalla corsiva nova tardo-imperiale alla curiale romana medioevale in un continuum mai interrotto delle forme di scrittura dell'amministrazione romana), così come la trasformazione degli edifici dell'urbe (si pensi alla trasformazione del Pantheon in chiesa cui si è fatto cenno), così come infine per il restauro degli acquedotti che venivano sabotati durante gli assedi e per il consolidamento della cinta muraria dell'urbe e delle altre città del Lazio.

Un grande passo fu compiuto dal pontefice, quando, non essendo più sufficiente opporsi alle reiterate avanzate longobarde, si rivolse infine ai franchi. Sono gli eventi che segnarono la nascita dell'Europa: il viaggio di Stefano II a Reims è un evento decisivo nella storia non solo di Roma, ma dell'Europa intera e del suo sviluppo storico e culturale.

Proprio il Liber pontificalis è la testimonianza emblematica di quell'evoluzione che portò il pontefice ad assumere una responsabilità temporale. Quel libro mai concluso, perché aggiornato “ad ogni morte di papa” - ma anche prima della morte stessa del pontefice poiché Beda il Venerabile utilizzò nel 725 una copia della biografia di Gregorio II cui mancava ancora la conclusione – divenne di biografia in biografia un documento “diplomatico”, nel senso moderno della parola. La curia romana lo aggiornava evidentemente perché fosse inviato nei diversi regni con l'intento di presentare fuori di Roma le vicende dell'urbe – interessantissime in questo senso sono le interpolazioni anti-longobarde nelle vite di Gregorio III e Zaccaria che vennero aggiunte solo durante il pontificato di Stefano II.

Di un potere temporale necessario del vescovo di Roma si tratta dunque, anche se l'aggettivo ha bisogno di precisazioni. La sua necessità non è teologica, non derivando ovviamente in maniera diretta dalla rivelazione. Fu piuttosto un potere necessario storicamente, quando la Chiesa di Roma si trovò a far fronte in un momento difficilissimo all'impossibilità bizantina di provvedere agli avvenimenti che riguardavano il centro Italia. La sede romana accrebbe in maniera graduale la sua responsabilità temporale, attenta – per utilizzare una terminologia moderna - ai “segni dei tempi”. Se fu provvidenziale la fine di quel potere temporale nel 1870, altrettanto si deve probabilmente dire del suo inizio.

La Donatio costantiniana non deve essere vista allora come un documento scritto per accreditare alla sede di Roma un potere che non le competeva – ed, infatti, la Donatio non venne mai utilizzata in questo senso mentre tale potere andava sviluppandosi – bensì piuttosto come un testimone che attesta la consapevolezza che quel potere temporale era ormai un dato di fatto.

Antologia per la riflessione personale

-cfr. il volume Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo

11/ Il cristianesimo è per tutti, tranne per chi se ne tiene fuori come Erode (dinanzi alla Curia del Senato dove Erode il Grande divenne re)

Ambientazione

Siamo dinanzi alla Curia del Senato. Qui avvenivano in età antica le discussioni e le votazioni. Ovviamente, in età imperiale, il Senato era stato quasi totalmente esautorato dal suo potere, poiché Augusto aveva di fatto avocato a sé ogni potere decisionale, anche se formalmente continuava ad esaltare il Senato ed i suoi senatori. Qui avvenne un altro episodio decisivo per la storia del Nuovo Testamento anche se i romani ignorano che proprio qui avvenne tale fatto. Al tempo in cui Ottaviano era ancora triumviro, nominò insieme ad Antonio – anche lui allora triumviro, prima che esplodesse il conflitto con Ottaviano – Erode re in Israele. Chi lo racconta è sempre Flavio Giuseppe che dice:

«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».

 

Erode, che passerà alla storia come “Erode il Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari assediati da Antigono nella fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove giunse nel 40 a.C. La sua richiesta era che venisse fatto re il fratello di sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli asmonei.

Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito nella Curia, ritenendolo il più affidabile per governare in sintonia con il potere romano.

Fu proprio durante il regno di Erode il grande che nacque Gesù.

Anche la Curia del Senato, come il Pantheon, si è conservata intatta perché venne trasformata in chiesa e, pertanto, gli abitanti di Roma non la saccheggiarono nel medioevo per prelevarne pietre.

Catechesi

Proprio qui venne Erode, proprio qui venne costituito re. Lo possiamo immaginare uscire trionfante per questo successo inaspettato, insieme ad Ottaviano e Antonio. Da qui salì verso il Tempio dedicato alla Triade Capitolina per partecipare ai sacrifici animali nel massimo tempio dei romani. Anche lui mai avrebbe immaginato di essere ricordato per sempre nella storia del mondo per essere citato nei Vangeli, come il re sotto il quale nacque Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio. Strana sorte quella per cui Erode sarà ricordato per sempre, mentre tanti altri che regnarono come lui sono dimenticati da tutti. Ma certo il suo ricordo non è bello. Erode ebbe veramente paura di Gesù, mentre non la ebbero né il Sinedrio, né Pilato, come si è visto, poiché il Sinedrio condannò Gesù perché egli si faceva Figlio di Dio e Pilato, invece, lo condanno per paura del Sinedrio.

Anche Erode è stato un potente ed un violento, anzi lo è stato più di tante figure citate nel Nuovo Testamento. Il suo desiderio di potenza appare dalle sue monumentali costruzioni, molte delle quali difensive, oggi scavate dagli archeologi.

Fu lui a fortificare Masada facendone una fortezza di primo ordine – anche se essa esisteva già dal II secolo a.C. – e molti dei resti che vi si visitano sono pertinenti al suo regno. Fu lui a costruire l’Herodion in Giudea, dove è stata recentemente ritrovata la sua tomba. Fu lui a costruire Macheronte, altra grande fortezza, al di là del Giordano, vicino al Mar Morto. Fu lui a costruire il Palazzo che è agli inizi del wadi Qelt, la valle scavata dai ruscelli del deserto che Gesù percorse per salire a Gerusalemme da Gerico per la passione. Fu soprattutto lui a ricostruire il Tempio di Gerusalemme a partire dall’anno 19 a.C. Quando chiesero a Gesù un segno e lui disse che se avessero distrutto il tempio dopo tre giorni egli lo avrebbe ricostruito, i giudei esclamano: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?» (Gv 2,20). Quei quarantasei anni sono gli anni che Erode impiegò ad ingrandirlo ed abbellirlo. Ancora oggi le grandi pietre scanalate ai lati che si vedono al Muro occidentale – il muro di sostegno un tempo chiamato Muro del pianto – sono le pietre erodiane. Si possono vedere bene a Gerusalemme visitando il Temple Mount/Jerusalem Archeological Park che meglio di ogni altro luogo permette di rendersi conto della maestosità della costruzione erodiana.

Erode non era ebreo di origine, bensì idumeo – l’Idumea è la regione che aveva per
capitale Petra -, e cercò sempre di accreditare la sua dignità a governare da ebreo, facendo prima circoncidere a forza il popolo degli idumei e poi ricostruendo il Tempio.

Anche negli ultimi giorni della vita terrena di Gesù, quando egli uscì definitivamente dalla Città Santa per pronunciare il discorso escatologico sul Monte degli Ulivi, ritorna il riferimento alle pietre erodiane:

«Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Egli disse loro: “Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta”. Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”» (Mt 24,1-3).

Il vangelo di Matteo dipinge Erode veramente per quello che era. La strage degli innocenti appartiene alla sua mentalità: Erode, in questa sete di difendere il proprio potere, fece uccidere almeno tre dei suoi figli: nel 7 a.C. fece uccidere Alessandro e Aristobulo e nel 4 a.C. Antipatro perché aveva paura che i figli lo spodestassero dal regno.

I magi che giunsero durante il suo regno fino al Bambino Gesù sono l’avanguardia dei pagani che “invaderanno” lo spazio per poter incontrare il Signore. Fino al loro arrivo nel “presepe” c’erano solo ebrei. Maria era ebrea, Giuseppe era ebreo, i pastori erano ebrei, il bambino Gesù era ebreo. Eppure gli evangelisti sottolineano che quel bambino non era solo ebreo: prima ancora era uomo.

Dio si era fatto uomo per tutti gli uomini. Matteo ricorda che fra gli antenati di Giuseppe, il padre adottivo che dette a Gesù la discendenza davidica, c’erano quattro donne pagane: Giuseppe non aveva solo sangue ebraico, ma anche sangue pagano. Perché quel bambino che diveniva suo figlio era venuto non solo per il popolo eletto, ma per l’umanità intera.

Giovanni evangelista, ebreo che scrisse in greco, afferma che il Verbo divino si fece uomo, si fece carne (sarx in greco) per indicare l’umanità, prima ancora che l’ebraicità di Gesù.

Ed, infatti, nel Credo non si dice che “nel grembo della Vergine Maria Gesù si fece ebreo”, bensì che “si fece uomo”, a dire che la sua ebraicità è una specificazione del suo essersi fatto uno di noi, di tutti noi, arabi ed europei compresi.

L’ebraicità di Gesù dice comunque il compimento dell’alleanza stretta da Dio con il suo popolo, alleanza mai revocata, e dice dunque l’amore che tutti dobbiamo al popolo ebraico.

Dice anche l’origine mediorientale del cristianesimo. Chi dicesse che il cristianesimo è occidentale, non avrebbe capito nulla della fede cristiana. Ricordo una ragazza iraniana che voleva battezzarsi e la madre, che pure l’amava, le diceva che voleva farsi cristiana per divenire occidentale, per dissuaderla dalla scelta. Le dissi che l’affermazione della madre non era vera. Perché in Persia il cristianesimo c’era da diversi secoli prima dell’arrivo dell’Islam. Lei poteva essere cristiana e restare orientale. Essere cristiani non vuol dire diventare occidentali, come prova, appunto, la Chiesa caldea dell’Iran, così come tutte le Chiese orientali antiche, quella ebraico-cristiana quella sira, quella assira, quella copta, quella armena, quella araba, quelle del nord-Africa (si pensi solo ad Agostino e a Cipriano), quelle arabe (la penisola arabica conserva ancora fondamenta di basiliche cristiane e sepolcreti del primo millennio, pieni di croci scolpite sulla roccia), quella ebraico-cristiana in Israele, ecc. ecc., tutte molto più antiche dell’islamizzazione della regione, anche se poi alcune di essere vennero totalmente annientate nei secoli.

Ma, ad un certo punto, arrivarono sotto Erode il grande, i magi. Qualsiasi cosa si pensi della loro origine, l’evangelista lascia intuire un'origine dal lontano oriente – il termine “magi” fa pensare alla Persia. Ma quei magi sono la concretizzazione di tutti i popoli che avrebbero accolto il Vangelo, come aveva annunziato l’antica profezia di Isaia.

Ecco che i magi assumono talvolta i volti delle tre età dell’uomo, il giovane, l’adulto, l’anziano – così ad esempio in Giorgione. Oppure assumono le sembianze di tre re provenienti dai tre continenti allora conosciuti: l’Africa (uno di loro spesso è dipinto come nero di carnagione), l’Asia, l’Europa. Quei cercatori di Dio sono i rappresentanti simbolici degli altri continenti. I magi aprono il presepe alla terra intera. In quello sperduto luogo del medio oriente, il mondo intero è convocato a gioire.

Ecco perché con grande sapienza i presepi della tradizione italiana, in particolare quello napoletano, aggiungono figure di ogni luogo e tempo: nel presepe ci sono tutti. E se ci si recasse a comprare statuine a Napoli a San Gregorio Armeno, si troverebbero statuine di presidenti, di politici, di calciatori, di cantanti, oltre a Benino che dorme.

Mi ha sempre colpito il gesto simbolico che compiamo quando poniamo i magi nel presepe. Siamo obbligati a spostare i pastori. Nel I secolo fu un momento drammatico quando i cristiani provenienti dall’ebraismo si trovarono a dover accogliere un enorme numero di cristiani provenienti dal paganesimo, di pagani che diventavano cristiani senza prima circoncidersi (cfr. Is 60,6 afferma profeticamente: «Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore»). Ma quel momento drammatico lo si rivive ogni volta che nella Chiesa giunge una nuova generazione che desidera anch’essa adorare il bambino, eppure è diversa dalla precedente che già lo adora: tutti insieme dobbiamo disporci intorno a quel bambino e vivere in comunione. Erode solo se ne tiene fuori: egli invia i magi, ma non vuole accorrere ad onorare il re.

Nel suo libro Gesù di Nazaret J. Ratzinger-Benedetto XVI ha scritto: «Si tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di storie? Al riguardo, J. Daniélou, a ragione, osserva: “A differenza del racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo, ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe”. Daniélou stesso, però, giunge alla convinzione che si tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo. [Anche dinanzi al mutato clima dell’esegesi attuale,] merita di essere considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura, di K. Berger: “Anche nel caso di un'unica attestazione [...] bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici [...] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto va al di là di ogni immaginabile competenza di storici”. Non posso che concordare con quest'affermazione. I due capitoli del racconto dell'infanzia in Matteo non sono una meditazione espressa in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù».

Antologia per la riflessione personale

da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389
«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».

da J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret III, pp. 134-138
Al termine di questo lungo capitolo si pone la domanda: come dobbiamo intendere tutto ciò? Si tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di storie? Al riguardo, Jean Daniélou, a ragione, osserva: «A differenza del racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo, ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe» (Les Évangiles de l’Enfance, p. 105). Daniélou stesso, però, giunge alla convinzione che si tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo.
Per dirla in modo semplice: questa è anche la mia convinzione. Bisogna però constatare che, nel corso degli ultimi cinquant’anni, nella valutazione della storicità, si è verificato un cambiamento d’opinione, che non si fonda su nuove conoscenze storiche, ma su un atteggiamento diverso di fronte alla Sacra Scrittura e al messaggio cristiano nel suo insieme. Mentre Gerhard Delling, nel quarto volume del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament (1942), riteneva la storicità del racconto sui Magi ancora assicurata in modo convincente dalla ricerca storica (cfr. p. 362, nota 11), ormai anche esegeti di chiaro orientamento ecclesiale come Ernst Nellessen o Rudolf Pesch sono contrari alla storicità o per lo meno lasciano aperta tale questione. Di fronte a tutto ciò, merita di essere considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura, di Klaus Berger nel suo commento del 2011 all'intero Nuovo Testamento: «Anche nel caso di un'unica attestazione [...] bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici [...] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto va al di là di ogni immaginabile competenza di storici» (Kommentar zum Neuen Testament, p. 20).
Non posso che concordare con quest'affermazione. I due capitoli del racconto dell'infanzia in Matteo non sono una meditazione espressa in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù.

12/ L’alleanza fra il cristianesimo e la ragione (all’interno del Senato)

Ambientazione

Merita soffermarsi a ricordare un secondo episodio che riguarda la Curia del Senato, questa volta di epoca patristica: riguardò la collocazione della statua della dea Vittoria proprio in quest’aula.

Nel Senato era stata posta nell’antichità una statua della dea Vittoria alla quale i senatori offrivano sacrifici, invocando la protezione e il trionfo di Roma. Nel 357 l’imperatore Costanzo, ormai cristiano, l’aveva fatta rimuovere una prima volta e poi essa era stata definitivamente rimossa dal senato da Graziano (375-383). Nel 384 Simmaco richiese che fosse nuovamente posta in loco.

Simmaco non faceva la sua battaglia per una “libertà di coscienza” intesa alla maniera moderna, che era ovviamente impensabile a quel tempo. Il problema era che Graziano aveva rifiutato il titolo di pontifex maximus, cioè si rifiutava di fare i sacrifici come capo dello stato ed a nome dello stato. Ma se i sacrifici non erano fatti dall’imperatore e se non erano sovvenzionati dallo stato, non avrebbero avuto efficacia per placare gli dèi – spiegava Simmaco nella III Relatio. Per questo Simmaco affermava: “non si può giungere per una sola via ad un segreto tanto grande”, quello di Dio, affermazione che andava intesa non come un invito ad un pluralismo religioso e alla libertà di coscienza - che egli se avesse potuto avrebbe invece negato per ripristinare il divieto del cristianesimo - bensì come un invito all’imperatore perché, sebbene cristiano, venisse in Senato a sacrificare agli dèi rendendo così onore alla divinità sia tramite il culto cristiano, sia tramite quello pagano, in qualità di pontifex maximus. Questa qualifica che egli aveva rifiutato era esattamente il problema: l’imperatore, fino a quel momento, era stato il supremo sacerdote ed a lui spettava dirigere e guidare i sacrifici per ottenere il benessere e la vittoria dello stato. Ora, invece, egli si rifiutava di celebrarli, perché si dichiarava cristiano.

Catechesi

Benedetto XVI ha insistito molto e con intelligenza sull’alleanza che si creò fra la filosofia e la fede, mentre il conflitto culturale avvenne fra la mitologia e la fede. Così aveva scritto, ad esempio, nel discorso preparato per l’Università La Sapienza di Roma:

«L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti… Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera».

Ecco l’importanza della questione della non ricollocazione dell’altare e della statua della dea Vittoria qui in Senato. Ambrogio non rifiutava la laicità: Ambrogio rifiutava invece che una statua di una divinità inesistente venisse posta nuovamente nella Curia e che l’imperatore fosse obbligato ad offrirvi sacrifici.

Vedremo più avanti come la cultura cristiana accogliesse il meglio della tradizione laica latina (ad esempio, oltre alla filosofia, il diritto), mentre ne contestasse la violenza e la mitologia.

13/ Una spina nella carne: nella sofferenza una sorgente di fecondità (nel Carcere Mamertino)

Ambientazione

Siamo dinanzi al Carcere Mamertino – la denominazione è tardiva e deriva da Mamerte, dio della guerra osco al quale forse era dedicato un tempio nelle vicinanze.

Se ne conserva solo una parte, la più interna e segreta, detta Tullianum. L’iscrizione ricorda due consoli, C. Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva e permette la datazione dell’attuale facciata agli anni 39-42 d.C. Il carcere era più grande ed aveva il nome corrente di Lautumiae, perché scavato in antiche cave di tufo. Nel punto più terribile del carcere, quello che appunto oggi è visitabile, si accedeva solo per un foro circolare che è tuttora al centro del pavimento. La scala per scendervi è stata scavata successivamente, quando il Tullianum divenne una chiesa che ricordava Pietro e Paolo. Il Tullianum era, ai tempi del Nuovo Testamento, il carcere cittadino per i nemici dello stato che attraverso quella botola vi venivano gettati dentro. Vi vennero imprigionati sicuramente diversi personaggi illustri: Gaio Sempronio Gracco (nel 121 a.C.), Giugurta, re della Numidia (nel 104 a.C.), Aristobulo II, re dei Giudei, 61 a.C., Lentulo e Cetego, compagni di Catilina (nel 60 a.C.), Vercingetorige, re dei Galli (nel 46 a.C.), Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio (nel 31 d.C.) e Simone di Giora, difensore di Gerusalemme (nel 71 d.C.).

I prigionieri venivano poi, al momento stabilito, estratti e strangolati pubblicamente, oppure potevano essere fatti morire di fame. Fra l’altro il Tullianum è proprio accanto al tratto finale della Via Sacra che da qui sale poi al tempio della Triade capitolina, il cui basamento è conservato all’interno dei Musei capitoli – un angolo è visibile anche dall’esterno del Palazzo. La vicinanza del carcere al tratto finale della Via Sacra non è casuale, ma rispondeva ad un preciso rituale. I prigionieri di guerra importanti sfilavano al seguito del corteo trionfale e, mentre l’imperatore saliva al Campidoglio, venivano rinchiusi del Tullianum.

Pensiamo, ad esempio, al caso di Simone bar Giora, Simone figlio di Giora che fu uno dei capi della rivolta contro i romani in Giudea a partire dal 66, quella domata dagli imperatori flavi. Possiamo immaginare che quando l’imperatore Tito percorse la Via Sacra in trionfo, avendo dietro di sé i beni depredati a Gerusalemme, nel corteo venne mostrato anche Simone, opportunamente legato, per essere irriso dalla popolazione romana. Giunto a questo luogo, mentre il corteo trionfale proseguiva la salita, venne calato nel Tullianum. Una volta ucciso venne poi esposto, come avveniva per tutti i prigionieri del Tullianum, alla sinistra del carcere stesso, dove ora sono le scale che salgono al Campidoglio, perché la popolazione si facesse ulteriormente scherno del cadavere.

Nel Tullianum la tradizione pone anche la prigionia di Pietro e Paolo. E qui pone anche l’episodio del battesimo dei carcerieri Processo e Martiniano, compiuto da Pietro con acqua che sarebbe scaturita miracolosamente dalla roccia. Non è così importante stabilire se Pietro e Paolo siano stati proprio qui incarcerati o se la loro carcerazione prima del martirio sia avvenuta in un altro luogo distante qualche centinaio di metri da qui. Certamente essa è avvenuta ed è avvenuta qui a Roma e certamente i romani di allora non erano teneri con i loro condannati a morte. Questo luogo ci aiuta ad immaginare la loro prigionia, anche se essa dovesse poi essersi verificata in un altro luogo qui vicino in città.

Bellissimo è il particolare del battesimo dei carcerieri. Come ci ricorda Tacito, parlando proprio della prima persecuzione imperiale contro i cristiani, quella del 64 nel quale morirono Pietro, Paolo e i protomartiri romani, il martirio dei cristiani suscitava pietà da parte della popolazione e faceva avvicinare al cristianesimo, creando simpatia per i credenti: «Per quanto [i supplizi della crocifissione, dell’essere sbranati da fiere o dell’essere arsi come torce fatti subire ai cristiani nel 64 d.C.] fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà, perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di un principe» (Annali, 15, 44, 2-5). Si vede qui come Tacito ritenga colpevoli i cristiani di una religione “atea” perché negavano la divinità dell’imperatore e l’esistenza degli dèi pagani. Lo storico nota tuttavia che tanti si accostavano alla fede proprio vedendo i cristiani morire. Ecco che questo dato ci aiuta a ricordare come fu anche con la loro prigionia ed il loro martirio che Pietro e Paolo convertirono il mondo.

Il Tullianum venne profondamente trasformato tra il VI e il VII secolo, divenendo una chiesa dedicata a San Pietro almeno a partire dall’VIII-IX secolo, come testimoniano due affreschi di età medioevale. In quello più famoso che si vede all’interno, Gesù tiene la mano sulla spalla di Pietro che lo guarda intensamente e sorride.

Catechesi

Paolo visse parte del suo periodo romano in carcere. Già la sua prima abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria detenzione.

La tradizione conserva nei sotterranei della Chiesa di Santa Maria in via Lata (l’antico nome dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata» (2 Tim 2,9). Più noto è il Carcere Mamertino che ci è dinanzi.

Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda. Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in occasione di grazia.

Nelle catene egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta:

«Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio - e dovunque - si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14).

Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso. Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della salvezza.

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di realizzarli».

Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).

Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Il brano fa riferimento ad esperienze che non conosciamo da altri testi: sappiamo che fu percosso, ma 2 Cor ci dice che i 39 colpi furono inferti ben 5 volte. Che per ben 3 volte fu percosso con verghe. Sappiamo che fu lapidato una volta e si salvò solo perché lo credettero già morto. Conosciamo il naufragio di Malta, ma qui si dice che Paolo naufragò 3 volte. Si ricorda che viaggiò per migliaia e migliaia di chilometri senza arrestarsi e che i pericoli gli vennero da tutti, dai connazionali ebrei, dai pagani, addirittura dai falsi fratelli cristiani (il cosiddetto “fuoco amico” è forse il più doloroso, quando ti devi guardare le spalle dagli stessi cristiani, dagli altri preti, dalle persone care).

Eppure niente di tutto questo lo scoraggiò, né lo fece diventare un persona concentrata sulle proprie lagnanze. Dinanzi alle incomprensioni che incontrò, anche noi possiamo riconciliarci con i nostri insuccessi e non stare lì sempre a lamentarci, a ripeterci che se non fosse stato per quella o quell’altra persona, per quella o quell’altra situazione, allora sì noi avremo fatto qualcosa di buono.

In una bellissima canzone il cantautore romano Niccolò Fabi così descrive l’egocentrico che sempre si lagna dei torti ricevuti:

«Io che mi sveglio la mattina presto, io
Io che lavoro sempre tutto il giorno, io
Io sono quello che “nei miei panni”
Io sono quello che ogni volta paga i danni
Io solo soffro, io solo sono stanco
Io solo cerco di calmare il tuo tormento
Io che mia madre non mi ha mai capito
Io che mio padre non l'ho mai stimato
Ma, io, io, io, io , io, io, io, io, io, io […]
Tu non capisci la mia situazione
Tu non rispetti la mia condizione
Tu non ti sforzi, non mi incoraggi
Non accompagni mai nessuno dei miei viaggi
Io non mi sento mai gratificato
Io non mi sento mai realizzato
Io sono sempre pronto a perdonare
Io sono sempre pronto a rinunciare
Ma, io, io, io, io , io, io, io, io, io, io»

Paolo dichiara invece, nella stessa seconda lettera ai Corinti, la fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor 4,7-12).

Ognuno sa che nel matrimonio troverà gesti che non gli piaceranno. Che in parrocchia ci saranno problemi, che in diocesi tante cose non andranno. Che nel posto di lavoro, qualcuno remerà contro. Questo carcere ci ricorda che in situazioni estremamente più avverse di quelle in cui viviamo, Paolo e Pietro non smisero di battezzare nuovi cristiani e di vivere la fecondità dell’annunzio. Furono tribolati da ogni parte, ma mai schiacciati; furono sconvolti, ma mai si disperarono; furono perseguitati, ma mai abbandonati; vennero colpiti, ma portarono sempre e dovunque nel corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifestasse in loro.

Ecco che dalle catene sopportate in questo carcere, ecco che dalla morte di Paolo e Pietro è giunta a noi la fede. «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6).

Merita ricordare che anche nella vita di Paolo la stessa prigionia si rivelò feconda anche dal punto di vista letterario. Egli battezzò persone nelle carceri come Pietro, ma vi scrisse alcune delle sue lettere. Infatti in alcune di esse (Filemone, Filippesi, Colossesi), Paolo fa chiaramente riferimento ad una situazione di prigionia nella quale egli si trova. Tali lettere vengono perciò abitualmente designate come “lettere dalla prigionia”. Ma anche Efesini e Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Secondo il racconto degli Atti, Paolo venne recluso sia a Gerusalemme – e successivamente a Cesarea Marittima - in occasione del suo appello a Cesare per potersi recare nell’urbe, sia a Roma stessa. Tradizionalmente le lettere paoline scritte dalla reclusione vengono ambientate nel corso della prigionia romana, ma sempre più si fa strada l’ipotesi che potrebbero essere invece state spedite da Efeso, nel corso di un ulteriore periodo di detenzione subito dall’apostolo.

Un particolare della lettera ai Filippesi è di difficile decifrazione: nella lettera si fa riferimento alla presenza di cristiani appartenenti “alla casa di Cesare”: «Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare» (Fil 4,12). Se la lettera fosse stata scritta da Roma, si tratterebbe di convertiti al cristianesimo fra i dipendenti del Palazzo imperiale, mentre, se la redazione è avvenuta in Efeso, si tratta di dipendenti dell’autorità romana nella città dell’Asia minore.

Antologia per la riflessione personale

2Cor 11,24-33
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.

2Cor 6,4-10
In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!

14/ L’origine del male (dal punto panoramico presso il Campidoglio su via di San Pietro in Carcere)

Ambientazione

Dalla terrazza di via di San Pietro in Carcere si gode una bellissima vista sui Fori Romani. Dinanzi a noi è l’Arco di Settimio Severo.

È possibile immaginare da questo punto panoramico qualsiasi personaggio dell’antichità romana che passeggia per le vie dei Fori. Prima dei personaggi di età neotestamentaria vi invito ad immaginare il più grande dei Padri della Chiesa, sant’Agostino. Egli passeggiò a lungo per le vie di Roma ed in particolare nei Fori e nei Templi del Campidoglio.

Il luogo più appropriato per immaginarlo è certamente la Curia del Senato che ben si vede anche da questa terrazza, dove Agostino, che a quel tempo era un retore in carriera, sicuramente avrà passato molto del suo tempo insieme ai senatori, alcuni dei quali lo avevano anche scelto come insegnante dei loro figli. Non conosciamo, invece, precisamente né in quale edificio egli abitò, né dove risiedevano i manichei romani che gli offrirono ospitalità e che egli dovette frequentare nel corso della sua prima residenza romana

La Roma di Agostino era, più o meno, la Roma costantiniana, non ancora sconvolta dal primo sacco dei barbari che avvenne nel 410, quando Agostino era già tornato in Africa.

Simmaco, cugino di Ambrogio vescovo di Milano – di cui abbiamo già parlato in relazione alle polemiche per l’Ara della Vittoria e di cui parleremo ancora per i Giochi gladiatori che indisse in quegli anni -, era praefectus urbis a Roma. Per un paradosso della storia provvidenzialmente guidata da Dio, fu proprio lui, che lottava contro Ambrogio per cercare di riportare i culti pagani a Roma, a sostenere la candidatura di Agostino perché divenisse a Milano professore di retorica, perché pensava forse di trovare in lui, che era ancora manicheo, un aiuto presso l'imperatore contro i cristiani! Senza Simmaco, Agostino non avrebbe mai conosciuto Ambrogio e non sarebbe divenuto cristiano.

Il confronto fra paganesimo e cristianesimo doveva essere ancora molto vivo e le Confessioni, che non ricordano la polemica sull'Ara della Vittoria, ricordano invece che Simpliciano - il prete che ebbe un ruolo decisivo nella conversione di Agostino perché lo ascoltò e lo consigliò nel momento in cui quest'ultimo stava per divenire cristiano - fu a Roma testimone della conversione del filosofo pagano Mario Vittorino.

Proprio Simpliciano raccontò ad Agostino della decisione di Vittorino di proclamare il Simbolo di fede dinanzi a tutto il popolo, in un luogo che può essere identificato con sicurezza con la basilica di San Giovanni in Laterano (Confessioni VIII,2,3-5).

Agostino era giunto a Roma da Cartagine, l'odierna Tunisi, nell'anno 383, quando aveva circa 29 anni, per fare carriera come retore. Vi restò fino all'anno successivo nel corso del quale si trasferì a Milano, quando Simmaco lo propose come professore di retorica. Agostino aveva preferito Roma a Cartagine, perché, come egli stesso scrive, gli studenti del capoluogo africano non avevano alcun rispetto della disciplina e degli insegnanti e la scuola non riusciva pertanto ad essere veramente formativa, mentre gli era stato assicurato che la situazione dell'insegnamento a Roma era molto migliore.

Nell'urbe, invece, incontrò un diverso problema scolastico: gli studenti, in prossimità della fine dell'anno, si ritiravano e passavano ad un nuovo insegnante per esimersi dal pagare i compensi del docente che li aveva accompagnati nel corso dell'anno.

Che la situazione culturale di Roma fosse scadente è testimoniato anche da uno storico, Ammiano Marcellino, giunto anch'egli a Roma dalla provincia: egli ricorda come a Roma le biblioteche sembrassero “chiuse come le tombe” e riferisce il fatto che, nei momenti di recessione economica, si preferiva licenziare “gli insegnanti delle arti liberali” e trattenere 3000 danzatrici per i propri divertimenti (Res gestae XIV 6.1) - la situazione non sembra diversa da quanto anche oggi avviene in merito ai bilanci delle TV nazionali ed, in genere, delle spese per attività culturali, dove l'intrattenimento la fa da padrone!

Le Confessioni raccontano anche della forza di seduzione che avevano ancora i giochi del circo, quando riferiscono che Alipio, l'amico che proprio Agostino aveva sottratto a Cartagine al fascino dei giochi gladiatori, arrivato a Roma poco prima del suo maestro si era lasciato nuovamente trascinare dall'ebbrezza degli spettacoli cruenti del Colosseo (Confessioni VI, 8.13). Sui giochi ed il loro fascino torneremo più avanti.

Agostino fu spinto a cercare i favori di Simmaco per farsi concedere il trasferimento a Milano, perché Roma non gli permetteva quella promozione professionale che si aspettava. Infatti, non solo Costantinopoli era ormai più importante di Roma, ma lo era anche Milano che era stata scelta dagli imperatori d'occidente come luogo della loro residenza.

Agostino tornò poi nuovamente a Roma a trentatré anni circa, nel 387, pochi mesi dopo il suo battesimo, sulla via del ritorno in Africa. Egli era ridisceso nel Lazio per imbarcarsi con i suoi amici, divenuti cristiani, per ritirarsi a vita monastica a Tagaste. Ma i porti erano bloccati dall'usurpatore Massimo che si era ribellato all'imperatore Teodosio che a Costantinopoli si stava preparando per affrontarlo e sconfiggerlo.

Nell'attesa della partenza per Cartagine, Agostino abitò così per diversi mesi ad Ostia, quando morì la madre Monica. Morta la madre, Agostino da Ostia si trasferì nell'urbe fino alla metà del 388, quando finalmente poté imbarcarsi e raggiungere di nuovo Cartagine e poi Tagaste. In questo secondo periodo romano Agostino, ormai pienamente cristiano, certamente visitò le grandi basiliche che esistevano già dai tempi di Costantino: San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme e San Pietro - ma non vi è dubbio che si sarà recato in esse già nei mesi della sua prima permanenza in Roma. Lo possiamo immaginare qui, nei Fori, allora anche come cristiano già battezzato, insieme alla madre Monica ed al figlio Adeodato battezzatosi con lui e con l’amico Alipio.

Da questa terrazza, insomma, possiamo immaginarlo passeggiare nei Fori prima in compagnia di Simmaco e dei manichei, poi con i cristiani di Roma. E lo possiamo immaginare mentre discute del problema dell’origine del male che a quel tempo lo attanagliava.

Catechesi

Il cristianesimo è vero anche perché è l’unica religione che parla in maniera seria del male! Da dove viene il male? Se provate a chiedere da dove viene il male, vi accorgerete subito che tale questione suscita un interesse enorme - e giustamente. Eppure si ha paura di parlarne. Vogliamo affrontare questa grande questione proprio in questo luogo dove possiamo immaginare Ovidio che ne parla e alcuni anni dopo san Paolo che avrà continuato a spiegare a voce ciò che aveva detto per lettera ai romani, avendo compreso che di questa cosa essi erano interessatissimi a parlare, proprio qui nei Fori. Più avanti parleremo di Agostino e della sua comprensione cristiana del male come assenza di bene.

Del male sono state date nella storia diverse interpretazioni. Per una mentalità scientista, neo-darwinista – non darwinista, perché Darwin non era ateo – il male non esiste, perché il male non è un concetto scientifico. La lotta fra gli esseri è un elemento caratterizzante la selezione naturale: l’ambiente seleziona gli esseri più adatti a sopravvivere in quel dato contesto ed elimina gli altri. Pensiamo ai dinosauri: avrebbe senso dire che è stato un male la loro scomparsa? No, essi sono scomparsi perché non più adatti all’ambiente che si modificava.

Ma se io dicessi che, in fondo, è normale che l’ambiente selezioni gli esseri umani, ad esempio nelle zone desertiche o nelle zone dove manca il cibo, direi qualcosa di sensato? Non possiamo non parlare del male quando parliamo della morte di un essere umano, a differenza di tutti gli altri esseri. Parlare del male, vuol dire entrare di petto in un ambito che non è quello scientifico, vuol dire affermare che la scienza non basta, vuol dire cercare con la filosofia e con la teologia la verità sul male. Perché giustamente noi uomini non ci rassegniamo al fatto che resistano solo gli individui adatti all’ambiente: noi sentiamo che è un dovere morale per ogni uomo combattere a favore del meno adatto all’ambiente e non accettare passivamente la sua eliminazione.

Ci accorgiamo del male non appena smettiamo di giustificarci e ci accorgiamo che qualcuno fa a noi del male. Noi sappiamo che è male, che quella persona si sta comportando ingiustamente. Abbiamo talmente dentro di noi la “legge naturale” che sentiamo quando qualcuno ci fa del male. Ma sentiamo anche che dobbiamo essere noi a compiere il bene, sentiamo che non ci basta studiare le leggi scientifiche - Kant diceva che l’uomo è consapevole del cielo stellato sopra di sé (cioè della scienza) e dell’esigenza di compiere il bene che ha nel cuore (cioè della coscienza). A tutti noi piacciono le storie epiche come Il signore degli anelli, come Le cronache di Narnia, ma anche come Harry Potter o Star Wars, perché sentiamo che dobbiamo essere come dei cavalieri che combattono per il bene e , se necessario, muoiono per esso, si sacrificano per il bene dei loro amici.

Dunque il bene ed il male esistono, dunque il male morale esiste, dunque esiste la lotta far il bene ed il male. Ma da dove viene il male?

Se gli scientisti dicono che il bene e il male sono concetti metafisici e quindi debbono essere eliminati, altri sentono che il bene e il male esistono, ma affermano che essi esistono da sempre. Qualche pensatore arriva a sostenere che solo l’esistenza del male permette di capire cosa sia il bene, giungendo a dire allora che il male è originario e necessario. Si pensi ai sistemi dualisti, come il manicheismo che Agostino affrontò, dove il male è fatto risalire ad un principio originario come il bene. Da sempre ci sarebbero in lotta un dio del bene ed un dio del male, responsabili ognuno per la sua parte nella lotta fra le creature esistenti.

Anche oggi molte persone portano al collo il simbolo del Tao te ching (o Daodejing) che cerca di mostrare come gli opposti (bianco e nero, ma anche bene e male, semplificando) siano indissociabili l’uno dall’altro. Anzi dentro ogni “bianco” ci sarebbe una punta di “nero” e dentro ogni “nero” una punta di “bianco”: non sarebbe possibile denominare il bianco se non per opposizione al nero. Anche nella mitologia induista esiste un dio della distruzione che sarebbe paradossalmente anche il dio della fecondità, perché permetterebbe dopo la distruzione la ricostruzione – lo Shiva della Trimurti.

Ebbene il cristianesimo fece piazza pulita di ogni visione dualista. Se esiste un solo Dio, un solo Creatore, non si può dire che c’è un creatore del male, perché ciò metterebbe in discussione l’unicità di Dio. Ma allora da dove viene il male, se il male c’è, contrariamente a chi lo esclude per una visione scientista del reale, e se il male non viene da Dio, contrariamente a chi ritiene che ci sia un dio del male?

Sì, perché questa è l’incredibile comprensione esistenziale che ne ebbe sant’Agostino illuminato dalla fede cristiana: c’è un solo Dio e quindi tutto ciò che è creato è buono. Tutto ciò che esiste viene da Dio, Dio è buono e quindi tutto non può che essere buono.

Ma allora da dove viene il male se tutto è buono? Più avanti vedremo come ne parla san Paolo, ma già ora conviene fornire la sintesi che del suo pensiero farà la fede cristiana, aiutata da quel grande lettore di Paolo che fu Agostino. Per Agostino il male è assenza di bene. Il male non è una cosa come il bene, non ha un’origine divina come il bene. Anzi, a voler essere precisi, per Agostino il male è il rifiuto di Dio, è il rifiuto del bene, la lotta contro il bene, piuttosto che la semplice assenza. Ogni creatura deve la propria esistenza a Dio e si rivolge verso di Lui per accogliere il bene e l’esistenza che Egli continuamente le dona. Ma se io, a motivo della mia libertà che è di per sé buona, volgo le spalle a Dio, mi rivolgo verso il nulla. Dimentico di averlo davanti, anzi mi rifiuto di averlo davanti e mi ritrovo non dinanzi a qualche cosa d’altro, ma solo dinanzi al nulla. Ecco il dramma. Se Dio è la vita ed io diffido di Lui che è la vita, se Dio è la vita ed io mi rifiuto di seguire la sua via che mi porta alla vita, anzi lo rinnego accusandolo di esser causa di infelicità, lo accuso di “non volere che io diventi come Lui” – è il peccato originale – ecco che io nel mio orgoglio mi precludo l’unica via che conduce alla vita. Togliendo la fiducia all’Unico che è affidabile, mi ritrovo nell’assenza del bene, mi ritrovo senza il bene, mi ritrovo solo nel peccato e nella morte.

Per meglio capire questa “assenza del bene”, si può pensare al maligno, al diavolo. Egli non è nato tale. Era un angelo, dice la fede della Chiesa - qualcuno aggiunge che era il più bello degli angeli creati da Dio. Era stato creato per amare, come Michele, come Raffaele, come Gabriele, come i nostri angeli custodi. Ma si rifiutò di amare e la sua esistenza, da quel momento, si è mutata in assenza di bene, in rifiuto del bene. Egli non cerca più di amare, ma di far morire e di distruggere. Ecco perché è così triste. Ma egli resta una creatura e non è Dio. Solo Dio è Dio, il diavolo è una povera creatura che ha rifiutato il bene per il quale era stata creata.

Sono illuminanti su questo le riflessioni degli allora professori W. Kasper e J. Ratzinger. Il primo scrisse: «il diavolo è una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona». Questo passaggio del teologo tedesco rimanda, a sua volta, ad una riflessione di J. Ratzinger che aveva precedentemente affermato: «quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani».

Il Maligno è, cioè, certamente un essere personale, qualcuno che liberamente cerca il male dell’uomo. Ma qual è il suo modo di essere persona? Cosa significa che egli è persona nella “forma della non-persona”? Poiché essere persone vuol dire, precisamente, avere delle relazioni, voler bene, identificarsi come amanti che si donano, il diavolo è al contrario colui che a nessuno vuole bene, colui che tutti cerca, senza amare nessuno. È persona che ha rinnegato ciò che costituisce precisamente l’essere persona: l’amore.

Dante, con un’immagine potentissima, ha descritto la condizione del Maligno attraverso il mare di ghiaccio nel quale egli è avvolto (e non si dimentichi che C.S. Lewis, ne Le cronache di Narnia, ha ripreso la stessa immagine). Più che il fuoco, per Dante è il gelo del freddo a rappresentare un cuore che non ama, che non prova alcun calore, che non cerca il bene e l’affezione. Il sommo poeta, nel XXXIV canto dell’Inferno, ha scolpito l’eterna tristezza del male, rappresentandolo con tre paia d’ali: «e quelle svolazzava, / sì che tre venti si movean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (Inferno, XXXIV, vv. 50-52).

Il Cristo, invece, restituisce all’uomo ogni relazione, lo riporta alla pienezza della sua umanità, aprendolo alla fede ed alla carità che anima ogni relazione veramente “personale”, rivelando all’uomo, cioè, la sua natura di “persona”.

Tutto, insomma è buono e creato per essere in relazione con Dio: solo una realtà non è stata direttamente voluta e creata da Dio: il male. Il cardinale Newman disse una volta in maniera straordinaria: il peccato è «l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua».

Tutto è buono, tutto è creato da Dio, ma se si voltano le spalle a Dio, ecco che ci si ritrova senza Dio, contro di Lui, senza la vita, contro la vita.

Vale la pena vedere più in dettaglio il pensiero di Agostino che egli elaborò via via proprio qui mentre passeggiava per i Fori e vi insegnava, ancora da manicheo.

Agostino parla più volte del male nelle Confessioni. In particolare nel Libro VII esplode con la serie di questioni che meditava da manicheo: «Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potente al massimo grado e enormemente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le abbraccia e le riempie. Allora dov'è il male, da dove e per quale via è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? [...] Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da ciò da cui le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non convertì in bene? […]". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli che mi incalzavano, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità» (Confessioni VII,5.7).

Agostino era stato attratto dai manichei proprio perché erano fra i pochi che affrontavano il problema del male. Per divenire cristiano dovette rinnegare le loro posizioni, ma esse avevano per lui almeno il merito di avere posto il grande problema del male che altri nemmeno affrontavano.

I manichei affermavano che il male esisteva perché all'origine di tutto non c'era un unico Dio buono, bensì fin dall'origine coesistevano due divinità in lotta fra di loro, l'una responsabile del male e l'altra del bene. Dall'evidenza dell'esistenza del male essi traevano dunque la conclusione che non vi era solo un Dio buono.

Si capisce immediatamente come il problema del male e quello di Dio siano connessi inestricabilmente. I manichei rispondevano alla grande domanda sul perché del male sostenendo che il Dio buono non era il creatore della materia, perché essa è evidentemente incurante del bene della singola persona. Dio era responsabile solo del bene che esisteva.

Il manicheismo era un sistema dualistico, ben diverso dal monoteismo biblico. L'iniziatore di questa prospettiva filosofico-religiosa era un personaggio di origine persiana, Mani appunto, vissuto nel III secolo d.C., pochi decenni prima di Agostino. Il suo pensiero poi si era diffuso nell'impero romano, che garantiva la circolazioni di persone, mezzi e messaggi, grazie alla sicurezza delle comunicazioni.

Anche la comprensione della vita interiore dell'uomo propria dei manichei dipendeva da questa visione. Essi affermavano che c'è nell'uomo una propensione al male, così come c'è il desiderio del bene ed attribuivano la prima alla divinità del male ed il secondo al Dio vero e buono.

Proprio a partire da questa falsa analisi dell'interiorità umana iniziò il distacco di Agostino dal manicheismo. Agostino, infatti, rivendicava la responsabilità piena delle proprie azioni nella consapevolezza che non si poteva attribuire ad una divinità “cattiva” il male che l'uomo commetteva:

«Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. Quando volevo o non volevo una cosa ero certissimo di essere io, non un altro, a volere e non volere; e capivo sempre meglio che qui si annidava la causa del mio peccato […] Ma chi ha piantato e innestato in me questa piantagione d'infelicità, se io sono integralmente opera del mio dolcissimo Dio?". Queste riflessioni tornavano a deprimermi, a soffocarmi, ma non riuscivano a trascinarmi fino al baratro di quell'errore dove nessuno più ti loda, se preferisce pensare che sei Tu ad essere sottoposto al male, piuttosto che crederne l'uomo capace» (Confessioni VII,3.5).

Agostino cominciò così a capire che l'uomo è realmente responsabile delle proprie azioni ed anche del male che compie. Si faceva strada in lui l'idea che il male non era necessario, non era coeterno con Dio e Dio non era costretto a subirlo; non riusciva però ancora a trovare una visione dell'origine del male che lo convisse.

Solamente la certezza che Dio è il creatore di tutto e che tutto è buono, lo aiutò a incamminarsi verso la soluzione dell'enigma:

«Mi si rivelò nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero comunque beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; se non fossero beni affatto, non avrebbero nulla in se stessi di corruttibile [...] Dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose molto buone» (Confessioni VII,11.17-12.18).

In questo importantissimo brano si vede come Agostino sia giunto finalmente ad apprezzare tutto il creato come opera di Dio: non c'è nessuna cosa creata che sia cattiva e il male non è allora qualcosa che è stato creato già maligno bensì è, piuttosto, una privazione di bene.

Solo il bene è all'origine di tutto e tutto ciò che è creato è bene, ma, a causa del peccato, è possibile perdere il beneecco allora che il male è “privazione di bene”!

Agostino elaborò così, in piena consonanza con San Paolo e con tutto il messaggio biblico, il concetto che il male è assenza di bene. Il male, cioè, non è un principio che ha una forza pari a quella di Dio. Con la fede cristiana Agostino afferma con forza che c’è un unico creatore: non esistono una divinità del bene ed una del male, come sostenevano i manichei.

Il male interviene nella creazione successivamente, tramite il peccato, perché il peccato viene commesso dalle creature. È il male a voler far credere agli uomini di essere originario come Dio, indispensabile come Dio, invincibile come Dio, mentre in realtà non lo è assolutamente.

E che cosa è precisamente il peccato, cosa è precisamente questa “privazione” del bene? Nella sua radice ultima è il rifiuto di Dio. Ogni cosa è buona perché è in relazione a Dio, perché da Dio riceve esistenza e perché da Lui è conservata in vita. Anche la creatura, che pure è un bene corruttibile, se resta in relazione a Dio incorruttibile può ricevere da lui la vita eterna, può scoprire di essere amata, pur sapendo di non essere il tutto.

Ma quando la creatura si sottrae a Dio, gli volta le spalle e si taglia fuori da Lui, ecco che, da sola, scopre di non bastare a se stessa, scopre di essere priva del bene.

Proprio questo è il “peccato originale”, il primo peccato, il peccato che porta con sé tutti gli altri. Proprio questo è il peccato originale di cui parla san paolo, come abbiamo appena visto.

Agostino esclama: «In Te [Dio] il male non esiste affatto, e non solo in Te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l'ordine che vi hai imposto»(Confessioni VII,13.19).

Il male è piuttosto distogliersi da Dio, è assenza di Lui, è, soprattutto, rifiuto di Lui che è la vita, l'essere, il bene:

«Cercai l'essenza della malvagità e trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, che si allontana dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse» (ConfessioniVII,16.22). In questo ultimo testo appare chiaramente la visione cristiana del male. Quando Agostino afferma che il male è assenza di bene, non ha in mente una semplice mancanza, ma una vera avversione, una vera “distrazione” dal bene: chi si rivolta contro Dio, chi lo esclude, chi toglie la fiducia all'Unico che è affidabile, si ritrova nel non senso, nell'inimicizia, nella morte. Chi nega la carità che nasce da Dio e la speranza che da Lui è fondata, si trova senza amore e senza prospettiva, solo con se stesso.

Ecco che ad Agostino appare allora tutto l'errore dei manichei che ritenevano invece il male una sostanza parimenti esistente come il bene: «Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto» (Confessioni III,7.12).

Come spiegherà bene G.K. Chesterton, questa visione del male non solo non è pessimistica, ma è anzi la garanzia della bellezza della vita: «Il peccato originale è una visione del mondo. È la visione del mondo non solo più illuminante, ma anche più incoraggiante [...]: abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia» (G.K. Chesterton, Perché sono cattolico (e altri scritti), Torino, Gribaudi 2007, pp.136-137).

15/ Il peccato originale (in piazza del Campidoglio)

Ambientazione

Siamo giunti in piazza del Campidoglio. Guardando verso i Fori, in età romana, avremmo avuto a destra il Tempio di Giove Ottimo Massimo al Campidoglio e a sinistra il Tempio di Giunone Moneta (ammonitrice), il primo sul Capitolium, l’altro sull’Arx, l’Arce – le due cime del Campidoglio antico.

Sulle due sommità c’erano i due grandi templi capitolini. Sul Capitolium c’era il tempio di Giove Ottimo Massimo, che è l’equivalente latino dello Zeus greco, il dio supremo del pantheon romano (da Zeus/Giove viene la nostra parola Dio, attraverso il latino Deus) venerato con le sue due donne, la moglie Giunone e la figlia Minerva che, con lui, formano la triade capitolina. Deus era la divinità paterna, divinità solare, dio del cielo, dei fulmini e del tuono, Giunone era la divinità lunare, femminile, protettrice dei parti e della fecondità, Minerva era la dea dell’intelligenza e delle arti. Nei Musei Capitolini sono visibili i resti del maestoso basamento di questo tempio che sono stati riportati alla luce nei recenti scavi, subito dietro l’esedra sistemata dall’architetto Aymonino dove è stata collocata la statua equestre di Marco Aurelio.

Sull’Arx, cioè dove ora è la chiesa dell’Aracoeli, era l’altro grande tempio, quello dedicato a Giunone Moneta, cioè a Giunone venerata come l’ammonitrice, la consigliera. Siccome vicino a questo tempio sorgeva la zecca romana ne è derivata la nostra parola moneta ad indicare il denaro, dall’attributo di Moneta dato a Giunone.

Non dimentichiamo che in età classica i luoghi di culto erano rivolti verso i Fori che erano il centro della Roma antica, mentre nel medioevo le chiese vennero rivolte in senso opposto perché i Fori erano ormai disabitati e la città abitata era tutta circoscritta nell’ansa del Tevere.

Possiamo immaginare qui, in visita ai due grandi templi dell’urbe Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-18 d.C.) che fu poeta ammirato, autore delle famose Metamorfosi. Venne poi condannato all’esilio, sembra per aver amoreggiato con Giulia II la seconda figlia di Ottaviano Augusto, creando il risentimento di Livia, seconda moglie dell’imperatore che a sua volta voleva forse il poeta per sé ed, insieme, intendeva favorire il figlio Tiberio, allontanando Giulia II che avrebbe potuto generare in futuro eredi.

Ovidio è figura interessantissima ai fini del nostro itinerario perché in lui troviamo una importante riflessione sull’impossibilità per l’uomo di vivere pienamente il bene a partire dalle proprie sole forze.

Negli Amores, Libro Secondo, scrisse: «Io non avrei il coraggio di difendere costumi disonesti e di impugnare armi ingannatrici in difesa delle mie colpe. Anzi, confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe». Si vede in questo passaggio il suo riferimento alla possibilità di confessare i proprio peccati, ma anche all’inefficacia di questo atteggiamento – Ovidio ebbe tre moglie, contestò i costumi della tradizione romana (il mos maiorum) e scrisse la famosa Ars amatoria, aprendo la via ad uno sganciamento della sessualità da una stabile relazione affettiva.

Più famosa ancora è la sua notissima espressione: «Video meliora proboque, deteriora sequor», che si può tradurre «Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori» (Ovidio, Metamorfosi, VII, 20), versi così famosi che vennero ripresi dal Petrarca, Canzoniere CCLXIV: «E veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio», da Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato I, 1, 31 «Ch'io vedo il meglio ed al peggior m'appiglio» e dal Foscolo, Sonetti II, Di se stesso«Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio».

Proprio san Paolo, scrivendo la lettera ai Romani in preparazione al suo viaggio, scrisse parole simili, ma giungendo a diverse conclusioni, poiché giunse a presentare il peccato originale e la possibilità reale che Cristo ce ne liberi. Possiamo immaginare anche lui in questi luoghi – come abbiamo già detto egli arrivò a Roma in una data che è difficile precisare con esattezza, fra il 59 e il 61.

Paolo visse in Roma almeno 3 anni. Alcuni studiosi vogliono anche che si sia allontanato da Roma e vi sia poi tornato, concretizzando l’ipotesi di un viaggio in Spagna. In pratica, lo possiamo immaginare passeggiare in qualsiasi luogo dell’attuale centro storico, tanto lunga fu la sua presenza in Roma prima del martirio. Sicuramente passò molto tempo nei Fori e salì proprio qui, al luogo dove sorgeva il tempio della Triade capitolina. Si può facilmente dedurre la cosa, vedendo come egli si comportò in Atene, come ci è descritto in At 17,16-34. In At 17,16-19 in particolare si dice: «Paolo fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli. Frattanto, nella sinagoga, discuteva con i Giudei e con i pagani credenti in Dio e ogni giorno, sulla piazza principale, con quelli che incontrava. Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: “Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?”. E altri: “Sembra essere uno che annuncia divinità straniere”, poiché annunciava Gesù e la risurrezione. Lo presero allora con sé, lo condussero all’Areòpago». Quando poi prende la parola all’Areopago (il tribunale di Ares ad Atene) si riferisce ai templi che ha visitato in città, si riferisce, anche se indirettamente, al Partenone nello stesso discorso in cui parla dell’altare al Dio ignoto: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo» (At 17,22-24).

Si vede qui come Paolo faceva riferimento ai templi, nel caso di Atene sicuramente al Partenone che avrà visitato, ed alle numerose statue di divinità che si trovavano proprio nei templi pagani.

Lo stesso deve essere accaduto anche a Roma. Avrà parlato con i filosofi qui nei Fori, chissà se avrà incontrato Seneca o se qualcuno gli avrà parlato di Ovidio. Certamente sarà salito al Campidoglio a visitare il Tempio della Triade capitolina, spiegando ai suoi discepoli ed annunziando ai romani di allora che le tre divinità lì adorate erano solo idoli, fremendo per la distorsione del volto di Dio operata da chi riteneva le divinità politeiste corrispondenti alla verità ed annunziando invece che il Dio fin lì ignoto si era rivelato nell’amore del Cristo.

Catechesi

Paolo è il maestro di Agostino. Ma Gesù Cristo è il maestro di Paolo. Non è stato Paolo a cambiare il messaggio di Gesù, bensì è stato Gesù a convertire Paolo. Paolo è colui al quale Cristo rivela ciò che già aveva rivelato ai Dodici, che non si giunge a Dio con le proprie forze: il Cristo che appare a Paolo sulla via di Damasco gli mostra che l’uomo ha bisogno di essere amato per poter amare, che l’uomo ha bisogno della grazia divina rivelatasi nella croce per vincere il male.

In questo luogo vogliamo parlare del peccato originale, così come Paolo lo comprende dinanzi alla grazia sovrabbondante di Cristo che ci libera da esso e da ogni male. Per Paolo, infatti, come poi per Agostino, non si può parlare del male se non alla luce del bene, non si può parlare del peccato se non nella luce della grazia.

Paolo volle preparare la sua venuta a Roma, come già si è detto, inviando una lettera ai Romani. In essa si sofferma sul “mistero” dell’uomo, per mostrare come l’uomo abbia bisogno di Cristo e del suo amore. Dell’uomo egli vede le luci e le ombre ed invita a considerarne la dignità alla luce di Cristo, ma anche le ferite che segnano ogni cuore.

Paolo vede certamente le luci dell’uomo, perché sa che la creazione è buona. L’apostolo ritiene l’uomo capace di riconoscere la presenza di Dio nel mondo. Infatti – afferma - «dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).

Non solo. L’uomo è anche in grado di riconoscere il bene ed il male perché anche i pagani, che pure non hanno ricevuto il Decalogo, «dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15).

In questa duplice relazione con Dio e con gli altri uomini, in questa ricerca di verità e di un retto operare sta tutta la grandezza dell’uomo. Tutto questo è immenso. Vuol dire riconoscere che ogni uomo anche prima di Cristo – e anche al di fuori di Cristo – è capace di giungere alla consapevolezza dell’esistenza di Dio con la forza della propria ragione ed è capace di conoscere il bene ed il male grazie alla voce della propria coscienza che è la voce di Dio nel nostro cuore.

Paolo ebreo ha stima, insomma, dei pagani, dei “lontani” da Dio, ha stima parla bene anche di coloro che non hanno conosciuto la legge di Mosè. Ne ha stima perché è l’uomo ad essere ad immagine di Dio. È l’uomo ad essere buono. Perché non c’è un creatore del male, perché esiste l’unico Dio e tutto ciò che Dio crea è buono.

Ma Paolo, subito, vede anche le ombre dell’uomo. Gli uomini «pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa» (Rm 1,21), giungendo ad immaginare Dio come egli non è. «Essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore» (Rm 1,25). Questo ha portato con sé – prosegue la lettera ai Romani - uno stravolgimento delle relazioni umane: poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, essi sono diventati «colmi di cupidigia, di malizia, d'invidia, di rivalità, di frodi; diffamatori, maldicenti, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, non solo continuano a fare tali cose, ma anche approvano chi le fa» (cfr. Rm 1,29-32; e l’elenco dei vizi umani è molto più lungo nella lettera!).

Ecco il mistero dell’uomo, ecco la sua realtà contraddittoria. Socrate aveva affermato che l’uomo fa il male solo perché non ne è consapevole. L’educazione filosofica consisteva precisamente, secondo la sua proposta, nel far prendere coscienza del male; egli era convinto che, attraverso questo processo, l’uomo avrebbe vinto da se stesso il male presente nel suo cuore.

Paolo è più moderno e più profondo del pensatore greco. L’apostolo afferma, infatti: «Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rm 7,18-19.21).

Quindi per Paolo, a differenza di Socrate, l’uomo sa già che determinate azioni sono cattive, eppure le compie lo stesso! L’uomo sa già che determinate azioni sono buone eppure non le compie lo stesso! Si pensi al fatto che ricadiamo sempre negli stessi peccati. Paolo è più moderno e vero di Socrate: Paolo annunzia che non basta la conoscenza del bene e del male, bensì è necessaria una passione, una grazia, un amore che mi sostiene nella fedeltà alle scelte che debbo compiere.

In un famoso passo il Concilio Vaticano II riprende questa lettura del cuore umano, presentando la divisione che esiste all’interno del nostro animo. L’uomo anela ad una armonia, ad un cuore unificato, proteso verso il bene, ma si scopre anche capace di cattiveria e di indifferenza. La Gaudium et spes afferma, infatti: «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (GS 13). Il Concilio è d’accordo con Ovidio e con Paolo!

Ed ecco la paradossale visione dell’uomo che emerge dalla fede: un uomo buono nel quale però è entrato il rifiuto di Dio, un uomo buono che deve però lottare con la diffidenza verso Dio che il peccato ha generato. Paolo lo dice con parole di una verità esistenziale incredibile: «Io non riesco a capire ciò che io faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). L’uomo ha bisogno di Cristo per ritrovare la relazione con Dio e vincere quella lontananza da Dio in egli stesso si è posto.

Come ha affermato con grande chiarezza il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, all’apparire di Cristo l’uomo comprende finalmente cosa sia l’amore ma, al contempo, prende coscienza di non aver mai amato di quell’amore, prende coscienza di non essere capace di quell’amore.

Paolo raggiunse Roma perché conoscitore dell’ambiguità del cuore umano, perché consapevole che il cuore è bisognoso di un aiuto, di una grazia necessaria e pure imprevedibile. Nella lettera è come se dicesse che vuole condividere con i romani il Vangelo, perché senza di esso essi resterebbero nell’incapacità di vincere il male.

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo ereditò dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorse, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.

Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?

Paolo risponde: perché il peccato originale ha cambiato il nostro cuore, perché il peccato del primo uomo ha allontanato i nostri cuori dalla vita.

Si noti che nella teologia l’espressione “peccato originale” ha due significati strettamente connessi. In primo luogo il peccato originale è la condizione in cui l’uomo si trova senza Cristo, è la condizione attuale nella quale l’uomo scopre di avere un cuore diviso: “oggi”, “adesso”, a fianco della voce della coscienza, parla anche la voce della tentazione, parla anche una voce che invita a non fidarsi di Dio. È quello che i teologi chiamano il “peccato originale originato”, cioè la conseguenza in noi del peccato di origine. È ciò che abbiamo visto fin qui e che il Concilio descrive così bene: «L'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso» (GS 13).

Ma l’espressione “peccato originale” vuol dire anche una seconda realtà: il peccato originale “originato” presente in noi dipende dal peccato originale “originante” commesso dal primo uomo. L’uomo non è per essenza peccatore, bensì è stato creato buono. Il primo uomo non era stato creato per vivere la divisione del cuore che noi sperimentiamo oggi: essa è entrato nel suo cuore solo successivamente per il suo rifiuto di fidarsi di Dio e da li è stata trasmessa a tutti.

Il peccato originale “originante” è quello di Adamo, come spiega Paolo nella lettera ai Romani: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo» (Rom 5,12).

Il fatto che il peccato sia entrato successivamente nel mondo – anche se vi è entrato subito - dice che l’uomo è buono. L’uomo è stato creato come creatura buona, ma si è volto contro Dio, lo ha rifiutato, ha addirittura diffidato di Dio, ha diffidato dell’unico affidabile. Il desiderio di Dio era – ed è - che l’uomo avesse la sua stessa vita divina, la sua stessa vita eterna, la sua vita di amore, ma l’uomo ha ritenuto, invece, che Dio non volesse il suo bene, ha pensato che fosse meglio diffidare di Dio, ha pensato che Dio non volesse che noi “diventassimo come Lui”.

Il tentatore insinua nel cuore di Adamo ed Eva proprio questa tentazione: «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio» (Gen 3,5). L’uomo giunge così a pensare che Dio non lo ama, che Dio gli vuole male, che si debba diffidare di Dio, che si debba fare il contrario della volontà di Dio, quasi che Dio non volesse farci diventare come Lui, non volesse darci la sua felicità e la vita che egli possiede in pienezza.

Il peccato originale è il primo peccato, ma è anche l’archetipo di ogni peccato: è il peccato “originale”, è il primo peccato ed il peccato DOC – si potrebbe dire. Diffidare di Dio, diffidare cioè dell’Unico affidabile, e perdere così colui che ci è necessario per vivere ed essere felici: ecco il peccato originale “originante”, quello che ha causato la nostra condizione attuale.

Esiste un paragone che ci può far capire qualcosa di come quel primo peccato abbia potuto influenzarci, il paragone con la trasmissione della grazia. Noi riceviamo la grazia per l’amore di Cristo e per le opere di carità compiute dalla Madonna e dai santi. Ognuno, infatti, attinge al tesoro della Chiesa: se un uomo compie il bene, anche in segreto, ecco che quel bene giova a tutti, anche a coloro che non hanno alcuna conoscenza concreta di quella persona che ha operato il bene. Un santo porta e sostiene tutti, anche i peccatori, ognuno nella Chiesa porta tutti i fratelli con la sua vita di grazia e li aiuta, perché la grazia si diffonde dall’uno all’altro in maniera “misteriosa”.

Così è avvenuto – in forma contraria - con il male commesso dai progenitori: il loro peccato, la loro diffidenza verso Dio, hanno impedito che a noi venisse trasmesso tutto il bene che Dio voleva giungesse spiritualmente a noi tramite la loro mediazione

Ma c’è un ulteriore punto che Paolo pone al centro della lettera ai Romani. Lo pone al centro per parlare del “mistero” dell’uomo. Ed è il punto principale, il punto più importante. Paolo non parla solo della bontà originaria e mai persa dell’uomo, Paolo non parla solo del peccato che si è introdotto nel nostro cuore, del peccato che noi sperimentiamo oggi nella divisione del nostro cuore – il peccato originale originato – quel peccato che proviene a sua volta dal primo peccato di Adamo – il peccato originale originante. Paolo parla soprattutto di Cristo.

Per Paolo, il parlare ai romani del peccato originale è solamente un passaggio per aprire ancora di più i loro cuori alla gioia della vittoria donataci da Cristo, perché proprio la sua croce ci ha liberato da quella condizione che sembrava invincibile.

Se «tutti hanno peccato» a motivo di Adamo (Rm 5,12), ecco che ora in Cristo tutti sono liberi.

Paolo parla del peccato per parlare di Cristo, per parlare di Colui che lo sconfigge: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).

In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, bensì la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.

Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia e al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.

G.K. Chesterton ha voluto rispondere così all’irrisione che spesso veniva – e viene – gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno – ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».

Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto «usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32).

Per “questo” uomo, così come esiste nella sua concretezza, Cristo è venuto. Ed è questo uomo che ha bisogno di Cristo per trovare in lui la forza di amare: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,24-25).

Paolo raggiunse Roma per gli uomini concreti, per i romani di allora, nel cuore dei quali, come negli uomini di oggi, sapeva essere in corso una lotta, la lotta fra il bene e il male che si combattono in ogni cuore umano.

Merita soffermarsi un istante anche sul genere letterario della lettera ai Romani. Essa contiene 7.101 parole. Nessun’altra lettera antica regge al suo confronto, almeno quanto ad ampiezza. Già questo fatto dice, da solo, l’importanza di questo scritto.

Una caratteristica di Romani, che la differenzia da altre lettere pagane a lei contemporanee, è quella di essere inviata per essere letta da una comunità. Al di fuori delle lettere neotestamentarie si conoscono lettere inviate a singoli (lettere familiari, di amore o di affari) o anche trattati in forma di lettera (come, ad esempio, le lettere di Seneca a Lucilio) composti da lettere che non sono state realmente inviate l’una dopo l’altra al destinatario. Questi ultimi sono così piuttosto degli scritti nei quali ogni lettera corrisponde ad un capitolo scritto a tavolino e destinato al pubblico più ampio dei lettori del tempo.

Paolo scrive, invece, a un’intera comunità, sapendo che la sua lettera sarà letta in uno o più incontri che vedranno radunati i cristiani di Roma. La lettera è così, per lui, uno strumento ecclesiale. Manifesta che la fede è personale, ma, al contempo, ha una dimensione comunitaria che vede coinvolta l’intera chiesa.

La lettera ai Romani, per quanto sia un testo diretto dall’apostolo ad una specifica chiesa, si presenta sotto la forma di un’esposizione sintetica e sistematica. Paolo non è pressato da urgenze immediate, come in altre lettere. Conosce solo alcuni cristiani della chiesa di Roma, ma vuole rivolgersi a tutti gli altri che ancora non lo conoscono.

Romano Penna ha scritto, sottolineando la specificità della Lettera ai Romani: «Essa si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo».

Questo scritto manifesta così ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la teologia non è puramente narrativa, ma ha bisogno anche di uno sguardo sintetico che solo una riflessione sistematica può dare (così come necessita ulteriormente degli inni e delle professioni di fede, dei proverbi e delle liriche poetiche, ecc.). La teologia non nasce dopo il Nuovo Testamento, ma è presente in esso: Paolo, in Romani, vuole mettere in luce la realtà dell’uomo e della sua condizione di peccato, così come la verità di Dio e del suo disegno di misericordia realizzatosi nel Cristo.

Un passaggio del “Direttorio generale per la catechesi”, il documento di riferimento per la catechesi elaborato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, così si esprime a riguardo della necessità di quello sguardo sintetico che l’annuncio della fede deve proporre e che l’uomo stesso esige per comprendere cosa siano la vita ed il vangelo: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede» (DGC 128).

È maestro, in questo, Paolo, che avvertì l’esigenza, per sé e per gli altri, di esplicitare quale visione dell’uomo e del male, di Dio e della sua salvezza fosse presente nella fede che il Risorto sulla via di Damasco gli aveva rivelato.

Antologia per la riflessione personale

-cfr. Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo

16/ Sant’Agostino e la grandezza dell’uomo e del suo desiderio (dal panorama presso il Campidoglio su via di Monte Tarpeo)

Ambientazione

Eccoci a contemplare i Fori Romani da una diversa terrazza: questo forse è il più bel punto panoramico sui Fori. Subito al di sotto è il Portico degli Dèi Consenti, un portico dedicato alle 12 più importanti divinità a coppie, con una divinità maschile ed una femminile affiancate, ma lo sguardo spazia alla Via Sacra ed all’intero complesso di edifici pubblici. Si vede da qui chiaramente anche il tratto finale della Via Sacra che sale al Campidoglio.

Vogliamo tornare ad immaginare ancora sant’Agostino che passeggia nei Fori per meditare sulla grandezza del desiderio umano, così come lui, da cristiano, l’ha compresa. Vogliamo parlarne perché l’importanza del cuore, il narrare la storia di un cuore umano, nasce proprio dall’annunzio di Cristo che nel cuore c’è una lotta fra il bene e il male, dall’annunzio che il Figlio è stato mandato dal Padre per venire in soccorso del cuore umano e dei suoi desideri.

Catechesi

Per conoscere la vita di Agostino non mancano le fonti. Possidio ne scrisse la vita, ma, prima di questa biografia, già lo stesso Agostino, in molti dei suoi scritti, ci ha lasciato dei riferimenti autobiografici. Sono, però, soprattutto le Confessionia fornirci il racconto della sua vita dalla nascita fino alla morte di Monicaad Ostia, nel 387.

Le Confessioni sono un libro che Sant’Agostino scrisse a cavallo del secolo, in un periodo che viene posto dagli studiosi in una data oscillante fra il 397 e il 402 - la cronologia precisa è assai discussa -, comunque mentre era già vescovo di Ippona.

In filigrana è possibile rintracciarvi gli eventi esteriori della sua vita, ma ci si accorge subito che non è questa la loro finalità. A differenza di una normale autobiografia, le Confessioni non sono interessate a farci conoscere le tappe “fisiche” della sua vita, bensì l'itinerario della sua conversione e l'evoluzione del suo cuore.

Certo si viene a sapere - con l'aiuto anche delle altre fonti – che Agostino, nato nel 354 a Tagaste, l'odierna Souk-Ahras in Algeria, non venne battezzato, ma fu iscritto al catecumenato. Suoi genitori erano Patrizio, un pagano, modesto proprietario terriero, e Monica, una fervente cristiana.

Agostino studiò in diverse città fino a raggiungere Cartagine, capitale della regione - è l'odierna Tunisi - all'età di circa diciassette anni per proseguire gli studi. L'anno successivo morì il padre e Agostino prese con sé una concubina dalla quale, nel giro di un anno - Agostino aveva quindi circa 19 anni - ebbe un figlio che venne chiamato Adeodato.

Scoprì anche l'amore per la filosofia e la verità, leggendo un'opera oggi perduta di Cicerone, l'Ortensio. All'età di 21 anni circa tornò a Tagaste per insegnare. A 22 anni, alla morte di un amico carissimo, decise di tornare a Cartagine, vivendo come insegnante di retorica. A 29 anni si imbarcò per Roma per lasciarla poi a 30 anni, quando fu nominato professore di retorica a Milano, nel 384.

Questi i dati “fisici” della sua storia. Ma le Confessioni parlano di altro. Parlano della storia del suo cuore, del trasformarsi del suo modo di vedere la vita, dei suoi sentimenti, della sua ricerca del bene e della felicità. Così già il genere stesso del libro è di una novità straordinaria: si racconta la storia del cuore umano, di un solo cuore umano. Agostino ritiene meritevole di un'opera il racconto dei cambiamenti avvenuti nel suo cuore.

Nell'antichità ci sono poche opere che possono essere considerate anche solo lontanamente simili alle Confessioni, come, ad esempio, l'opera di Marco Aurelio I pensieri a se stesso. Questo è estremamente indicativo: è proprio del cristianesimo l'aver manifestato la grande dignità ed insieme l'enorme problematicità dell’interiorità umana. È proprio con Agostino che questo appare pienamente. Nelle Confessioni, al di là dei dati storici della vicenda agostiniana, si descrive la storia interiore del cuore, dei sentimenti, degli affetti, delle paure, del peccato, della ricerca di Dio, dei desideri appunto.

Questo spiega il titolo dell'opera che si richiama ad un'espressione che vi ricorre più volte: Agostino “confessa” a Dio o “confessa” ai suoi lettori i propri sentimenti, i propri pensieri.

Nell'opera confessioha un duplice significato: implica certamente la confessione del peccato, ma soprattutto la confessione della lode di Dio. Le Confessioni sono quindi un libro nel quale Agostino loda Dio per l'opera con cui lo ha trasformato interiormente. Si vede qui immediatamente come le Confessioni si possano certamente considerare un'opera di analisi esistenziale, ma, questa analisi non è autoreferenziale: la vita umana è letta e vista in profondità alla presenza di Dio. Anzi è proprio questa presenza che permette ad Agostino di scavare nel suo intimo.

Lo si vede bene fin dalle prime parole delle Confessioni: «Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti» (Confessioni I,1.1).

Le Confessioni sono, quindi, una lode a Dio da parte di un uomo che non è, di per sé, all'altezza di lodarlo, ma viene chiamato da Dio stesso ad elevare questa lode. Ed, infatti, subito dopo Agostino si domanda se viene prima il conoscere Dio o l'invocarlo, perché si ha bisogno di Lui. Cosa nasce prima: la scoperta del proprio peccato o la consapevolezza che tutta la vita non può che essere un inno di ringraziamento a Dio per i doni di cui ci ha colmato?

Il fatto è che nella fede cristiana uno scopre insieme di essere amato e di essere peccatore e se uno dei due aspetti manca, vuol dire che non si ha ancora ben chiaro né cosa sia la grazia, né cosa sia il peccato!

Agostino, a partire da questa riflessione autobiografica sul suo cambiamento interiore che gli ha fatto scoprire il peccato e la grazia, riflette sul fatto che la vita interiore dell'uomo deve destare meraviglia, deve ricevere attenzione, ancor più dell'esistenza dell'intero creato: «Gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi» (Confessioni X,8.15).

Agostino – come si è già detto - ha una comprensione dialettica del cuore umano: ha chiarissimo dinanzi a sé che il cuore umano non è unificato. Certo in esso c'è il desiderio del bene, ma in esso c'è anche la spinta a compiere il male. Non si tratta, pertanto, semplicemente di seguire il cuore, perché esso è diviso ed ha desideri contrastanti. Ed, in effetti, il cuore umano desidera mille cose che sono in contrasto profondo tra di loro, al punto che spesso la persona stessa non sa chiarire bene nemmeno cosa vuole. L'esperienza rende consapevoli che ci si può impegnare allo spasimo per raggiungere un obiettivo e poi scoprire, una volta raggiunta quella meta, che essa non ha il potere di renderci felici e sereni.

Nel cuore c’è tutto e il contrario di tutto. Agostino scopre che nel cuore umano c’è da un lato il peccato e dall’altro una sete inesauribile per la quale il cuore è sempre inquieto, sempre in ansia. Il cuore umano non è pacificato, non è sereno, le cose belle non bastano mai e Agostino si chiese come fosse possibile guarirlo. Si noti subito che, a differenza dei manichei che pensavano che il male proveniva dalla carne, dalla materia, le Confessioni mostrano che nel cuore, e non solo nella carne, è presente il bene come il male.

Questa difficoltà di capire il proprio cuore si manifesta nella sua apparente incontentabilità, che esige una spiegazione. Come è noto le prime righe delle Confessioni contengono quell'espressione famosissima che acquista significato proprio in questa chiave di lettura: «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te» (Confessioni I,1.1). Queste parole non vogliono sottolineare l'irrequietezza esistenziale dell'uomo che non si da mai pace, bensì, molto più radicalmente, vogliono indicare la scoperta che l'uomo non basta a se stesso e che neppure tutto l'universo basta all'uomo, poiché l'uomo è fatto per Dio e solo l'incontro con la misericordia di Dio pacifica l'uomo e lo conduce alla beatitudine. Possiamo dire che Agostino legge la scoperta dell'insoddisfazione perenne dell'uomo come un segno del suo essere stato creato per Dio: solo Dio sazia il cuore dell'uomo e gli permette di avere un rapporto bello con le cose e con le persone, perché le pone nella loro vera prospettiva, quella di doni suoi, pur non essendo esse stesse Dio, ma solo creature.

In questo senso, l'inquietudine di Agostino è una “santa inquietudine”, perché lo conduce alla scoperta che l'uomo non è autosufficiente, ma vive dell'amore di Dio e dell'amore dei fratelli e senza queste relazioni trova tutto inevitabilmente senza significato e non riesce a raggiungere la felicità.

Agostino non è il primo a porsi il problema della felicità, del piacere, del desiderio. Questa questione è antica quanto l'uomo, perché nasce dall'amore per la vita, dall'amore per se stessi, per gli altri, per il mondo. Più volte nei suoi scritti Agostino ricorda che non esiste uomo che non cerchi la felicità.

Agostino condivide con tanti pensatori la convinzione che non si possa essere felici semplicemente approfittando dei beni che il creato ci offre. Mi piace qui citare, in maniera provocatoria, il grande Epicuro, che spesso viene etichettato semplicemente come un bieco materialista. Se noi leggiamo i suoi testi e non ci limitiamo alle leggende che si sono costruite sulla sua figura, troviamo passaggi sorprendenti come questo: «Proprio perché il piacere è il nostro bene più importante ed innato, noi non cerchiamo qualsiasi piacere; ci sono casi in cui noi rinunciamo a molti piaceri se ce ne deriva un affanno. Inoltre consideriamo i dolori preferibili ai piaceri, quando da sofferenze a lungo sopportate ci deriva un piacere più elevato. Quando diciamo che il piacere è il nostro fine ultimo, noi non intendiamo con ciò i piaceri sfrenati, e nemmeno quelli che hanno a che fare con il godimento materiale, come dicono coloro che ignorano la nostra dottrina. La saggezza è principio di tutte le altre virtù e ci insegna che non si può essere felici, senza essere saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un’unica cosa con la vita felice e questa è inseparabile da essi» (Epicuro, Lettera a Meneceo).

Notate in questo testo straordinario come si affermi che è necessaria una fatica per raggiungere il vero piacere, la vera gioia, come il desiderio indichi vie impervie. Ed Epicuro arriva ad affermare che senza virtù, senza una vita buona, non si può veramente assaporare integralmente il piacere ed essere felici! Perché solo vivere bene, solo vivere una vita che ha un senso, che è ricca di significato, riempie il cuore.

Agostino si colloca in questa linea. Egli ha scoperto, attraverso la sua riflessione e la sua esperienza, che il piacere e la felicità appartengono non solo alla carne, ma anche al cuore e che il cuore e la carne possono - anzi debbono - andare d'accordo e non opporsi.

C'è una bellissima Colletta nella messa della XX domenica che riprende in forma liturgica la riflessione agostiniana: «O Dio che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi che superano ogni desiderio».

Io amo molto queste espressioni: amare Dio in ogni cosa, amare Dio al di sopra di ogni cosa. Per la fede cristiana non si può amare Dio e disprezzare le persone o le cose. Non potrebbe mai attecchire nella coscienza cristiana qualcosa come il terrorismo suicida, dove io, appellandomi all'amore di Dio, arrivo ad odiare altre persone e dimostro nell'odio e nel mio disprezzo per la vita proprio il mio presunto amore per Dio. Piuttosto, se io non amo te, ciò significa che io non amo nemmeno Dio. Non basta amare Dio al di sopra di ogni cosa, lo si deve - e lo si può! - amare anche in tutte le cose.

Ma, allo stesso tempo, non basta amare Dio in ogni cosa: lo si deve - e lo si può - amare anche al di sopra di tutte le cose. Agostino scoprì che solo amando Dio al di sopra di tutto era poi possibile amare pienamente ogni realtà, ogni persona. E scoprì che questo amore “di Dio” non era primariamente l'amore che lui portava per Dio, ma che il nostro amore era preceduto dall'amore che da Dio abbiamo ricevuto, a cui ci siamo abbandonati con fiducia.

Questo amore di Dio in ogni cosa e al di sopra di ogni cosa è il tesoro più prezioso, è il cuore del desiderio e della pienezza della vita. In una densissima espressione Agostino scrisse: «Desiderium sinus cordis est» (Trattati su Giovanni, 40.10), è il desiderio di Dio il “seno” del cuore, il cuore del cuore umano: cioè è solo il desiderio di Dio che rende profondo il cuore, che scava il cuore, perché Dio è al fondo del cuore umano.

Agostino era convinto che il cristianesimo non era la mortificazione del desiderio, ma anzi l'unica via per raggiungerlo ed approfondirlo. Innanzitutto, si gode delle cose, perché esse ci guidano alla relazione con gli altri, perché le utilizziamo nell'amore, ma poi la scoperta della possibilità di essere in relazione con Dio ci fa scoprire che le cose e, ancor più, le persone escono dalle sue mani come doniE noi le amiamo in Lui che ce le ha donate e amiamo Lui che ce le dona.

E possiamo rinunciarvi se questo è utile per amare più liberamente le persone e il Signore stesso, perché questo amore è il vero godimento.

Agostino vuole dire che non è sbagliato godere, ad esempio, del cibo quando si ha fame. Anzi sarebbe follia trascurare il proprio nutrimento. Ma il vero godimento sta nel nutrirsi rendendo grazie a Dio delle meraviglie del creato che sono così buone da assaporare, godendo insieme della compagnia delle persone che divengono a noi sempre più care man mano che condividiamo insieme la mensa. Se si pensasse, invece, che la vera gioia, il vero piacere, consista nell'ingozzarsi di tutto ciò che si può mangiare ecco che questo impedirebbe, invece, di giungere alla pienezza della felicità.

Nei bellissimi Trattati sul vangelo di Giovanni, Agostino spiega che esiste un piacere dello spirito che è infinitamente più grande di quello semplicemente corporale e che è così grande che anche il corpo partecipa della dolcezza che prova lo spirito:

«"Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre" (Gv 6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l’anima è attirata anche dall’amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione.
Che significa essere attratti dal piacere?
"Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore" (Sal 36,4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l’uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che proprio Cristo è tutto questo. Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?[...] Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. […] Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e te la tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall'amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva - perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere - come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre?»
(Trattati su Giovanni, 26,4-6).

Questo testo è straordinario. Agostino vuole far capire che la fede non è una nostra invenzione, bensì è un dono. È Cristo che ci attrae a sé, non siamo noi ad inventarcelo. Ma siamo veramente liberi dinanzi a lui, perché egli ci attrae con la sua bellezza, con la sua bontà, con la sua verità.

Agostino non ha paura di utilizzare qui il termine “piacere”. Vai dietro ad un cibo, perché ti piace, proprio come ha affermato Virgilio: «Ciascuno è attratto dal proprio piacere». E subito Agostino aggiunge: «Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?». Vedete come il discorso agostiniano non è assolutamente anti-edonistico, come alcuni vorrebbero, anzi è un discorso che mira alla verità del piacere. Egli contesta con forza chi nega che l'anima provi piacere, chi pensa che l'amore non sia un piacere.

Agostino vuole insistere proprio sul fatto che seguire Dio è veramente il più grande piacere dell'uomo, anche se questo dovesse costare fatica. Anzi, tutta la tradizione cristiana insiste sul fatto che non è vera sequela quella di chi, nel suo intimo, si lagna di dover essere discepolo. Insegna, ad esempio, San Tommaso d'Aquino che la virtù consiste nel fare il bene essendo contenti di farlo, nella piena convinzione che merita farlo, senza per questo arrivare all'eccesso di pretendere da noi stessi di non sentirne più la fatica. Certo il vangelo è faticoso, ma lo si vive perché è una grazia viverlo, perché non potremmo farne a meno, tanto ci attira.

In un altro passaggio, Agostino afferma che tutta la vita è un esercitarsi nel desiderio. Si noti bene ancora che si tratta, quindi, non di spegnerlo, come pretenderebbero alcune impostazioni morali pseudocristiane, bensì di esaltarlo fino alla sua pienezza:

«La nostra vita è una ginnastica del desiderio. Il santo desiderio sarà tanto più efficace quanto più strapperemo le radici della vanità ai nostri desideri. Già abbiamo detto altre volte che per essere riempiti bisogna prima svuotarsi. Tu devi essere riempito dal bene, e quindi devi liberarti dal male. Supponi che Dio voglia riempirti di miele? Bisogna liberare il vaso da quello che conteneva, anzi occorre pulirlo. Bisogna pulirlo magari con fatica e impegno, se occorre, perché sia idoneo a ricevere qualche cosa» (Trattati sulla prima lettera di Giovanni, 4,6).

Anche qui tutto ruota intorno al desiderio, perché esso è il cuore della vita, anzi è la vita stessa. Il problema è che a volte il desiderio non è “esercitato”, come era quello di Agostino prima della conversione, e si attaccava alla gloria, al successo, alla sensualità, senza mai appagarsi, perché non giungeva all'amore di Dio e dei fratelli.

Proprio questo è il grande problema del nostro tempo: la catechesi, l’educazione, la scuola aiutano ad educare i piaceri del cuore? Cosa vuol dire provare piacere nel cuore? Un teologo contemporaneo, don Pierangelo Sequeri, insiste da tempo sul fatto che dobbiamo tornare ad insegnare i sensi spirituali, i gusti del cuore, il discernimento dei “sentimenti”, in un tempo che non sa più orientarsi a comprendere cosa sia la felicità, il piacere e il desiderio.

Voglio, infine, ricordare che Agostino ritorna sulla tematica del desiderio anche quando si tratta di educare alla preghiera. Esiste un testo agostiniano giustamente famoso su questo: la Lettera a Proba. Proba era una vedova che aveva manifestato ad Agostino il desiderio di imparare a pregare. Voleva essere consigliata sulla preghiera: cos'è le preghiera, come si fa a pregare, cosa è giusto chiedere nella preghiera?

Agostino spiega nella lettera a Proba che pregare vuol dire desiderare, desiderare rivolgendosi a Dio. E che bisognava approfondire cosa sia il desiderio, cosa sia bello desiderare dinanzi a Dio.

Nella sua risposta alla vedova, Agostino spiega che non è sbagliato rivolgersi al Signore per esigenze come il cibo, il lavoro, la salute. Ma, nella nostra “dotta ignoranza” – è il termine che Agostino usa per dire che noi sappiamo che le cose non ci danno al felicità, ma non sappiamo dove attingere la felicità piena - , noi sappiamo che non è in questo che consiste la vera vita. Infatti queste realtà da sole non ci bastano e possono addirittura trasformarsi in maledizione.

Infatti, «gli uomini non diventano buoni per mezzo di tali beni, ma coloro che lo sono diventati con altri mezzi fanno si che quei beni siano buoni usandone bene. Il vero conforto non è dunque in tali beni, ma piuttosto là dov'è la vera vita […] Nel caso che sovrabbondassero le ricchezze […] ma convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e dei quali avessimo continuamente paura e timore di dover subire inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia o dolcezza proveremmo in essi? Così in tutte le cose umane nulla è caro all'uomo senza un amico» (Lettera a Proba 2,3-4).

«Nulla è caro all'uomo senza un amico»: che espressione straordinaria! Agostino insegna così alla vedova che la vera “vita” si ha solo nell'amore, solo nella carità, solo nel gusto del rapporto con le altre persone.

Ma proprio l'amore per gli altri ci apre poi alla necessità della speranza per loro, al desiderio che anche la loro vita sia vera “vita”: chi ama vuole la felicità e l'immortalità delle persone che ama, ne desidera l'incolumità e la salvezza. Vuole che anche le persone amate a loro volta scelgano il bene e la vera “vita”. Ma questo si trova solo in Dio! Ed è anche per amore di coloro che si ama, che Proba deve rivolgersi a Dio, chiedendo che ognuno viva nella volontà di Dio.

Agostino insegna così a Proba che, se essa guarda nel proprio cuore, si accorge che c’è questo desiderio della vera “vita”, che c'è un desiderio che dà senso a tutti i desideri, quello di abitare tutti i giorni nella casa di Dio. E chi abiterà nella casa di Dio, troverà un significato alla gioia come al dolore, alla sofferenza come al piacere, all'amore che chiede una “vita” vera. Lo stare nella casa di Dio è quella condizione che permette all'uomo di amare ogni frammento di vita, sapendo che tutto è destinato alla salvezza che il Signore ha promesso e che esiste una promessa più grande di quella assicurata dalle sole forze dell'uomo.

Ed è per questo - afferma ancora Agostino - che se tutti cercano la felicità, non tutti la trovano, perché essa si trova solo quando si trova la “vita” vera: «prega per ottenere la vita beata. La desiderano tutti; anche coloro che conducono una vita sregolata e pessima, non vivrebbero affatto così, se non fossero convinti di essere o di poter divenire beati in quel modo.Che altro dunque conviene chiedere nelle preghiere se non quel bene che desiderano tanto i cattivi che i buoni, ma al quale arrivano solo i buoni? Forse a questo punto potresti domandarmi in che consista precisamente la vita beata. In questo problema molti filosofi hanno consumato il loro ingegno e il loro tempo, e tuttavia tanto meno sono riusciti a risolverlo, quanto meno hanno avuto in onore la vera sorgente della vita e le hanno reso grazie» (Lettera a Proba, 4,9-5,10).

17/ Il vangelo di Marco (nella basilica di San Marco al Campidoglio)

Ambientazione

Siamo ora nella chiesa di San Marco Evangelista al Campidoglio. Lo scendere al livello originario della basilica ci riporta al tempo della Roma imperiale e neotestamentaria, quando il livello della città era più in basso dell’attuale. Qui venne edificata negli anni 336-337 dal successore di papa Silvestro, papa Marco, la primitiva chiesa di San Marco negli ultimi anni dell’impero di Costantino (che morì nel 337). Papa Marco è sepolto sotto l’altare e si vede il sarcofago con le sue reliquie sotto l’altare – il suo corpo è stato qui traslato dalla basilica circiforme che egli stesso aveva fatto costruire sulla via Ardeatina e che è stata recentemente ritrovata nella zona delle catacombe di San Callisto.

Come hanno dimostrato gli scavi degli anni ’40, la chiesa primitiva fu poi ricostruita una seconda volta, sempre sui resti degli edifici precedenti. Secondo il Liber Pontificalis fu Adriano I nel 792 a restaurare questa chiesa. Nel IX secolo, probabilmente nell’833, papa Gregorio IV (828-844) ristrutturò la chiesa rialzandola e cambiando orientamento perché era sopraggiunto un allagamento per una piena del Tevere.

Fu lui a commissionare il mosaico che ancora oggi si vede. Gregorio IV è con l’aureola quadrata (perché ancora vivente): a sinistra del Cristo sono raffigurati San Marco evangelista (è quello che tiene una mano sulla spalla del papa) e San Felicissimo (un diacono). Alla destra del Cristo sono raffigurati San Marco papa, Sant’Agapito (un altro diacono) e Sant’Agnese. Possiamo immaginare che la dedicazione di questa chiesa all’evangelista sia nata proprio a motivi del fatto che l’avesse edificata un papa con tale nome.

Nell’arco trionfale sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti: il famoso tetramorfo.
Il tetramorfo ha sempre Cristo al centro
. Nel tetramorfo non sono tanto importanti i simboli singoli di ognuno dei 4 Vangeli, bensì il fatto che i vangeli siano 4 e corrispondano così ai 4 angoli della terra, perché quel Cristo è venuto per tutti.

Similmente i 4 animali di Ezechiele appartengono al carro che porta la gloria di Dio ovunque (ed anche in esilio). Nell'Apocalisse, similmente, i 4 esseri viventi indicano l'adorazione a Dio da parte dell'universo intero.

È sbagliato insistere allora sul perché un certo animale corrisponda ad un certo vangelo, non è questo l'intento iconografico del simbolo.

L'intento iconografico è sul 4 come segno dell'universalità, come segno che quell’unico Cristo è destinato al mondo intero e al mondo intero deve essere portato. Per questo ha senso, invece, che il tetramorfo sia posto su amboni e lezionari. Dio ha mandato il suo Figlio per tutti.

Gli apocrifi verranno scritti almeno 50 anni dopo i 4 vangeli per contraffarli e il loro auto-dichiararsi apocrifi (nascosti) e il loro essere rivolti solo a pochi e non a tutti, tradiscono già l'intento differente della loro pubblicazione. La chiesa non li ha mai nascosti. Sono essi ad autodefinirsi "apocrifi", cioè tenuti apparentemente nascosti dagli stessi autori che li scrissero, per offrire una falsa motivazione a chi si domandava come mai non fossero mai stati messi in circolazione prima: dicendo che erano stati tenuti nascosti da lungo tempo gli autori che li avevano scritti volevano nascondere che erano elaborazioni successive ai 4 vangeli del Nuovo Testamento.

È importante che i 4 animali siano vivi, che si muovano (il carro di Ezechiele aveva ruote), che viaggino in tutto il mondo, che abbiano ali per spostarsi e volare. Questo è importante nel tetramorfo: che l'unico vivo Vangelo, cioè il Cristo, sia portato in maniera viva ai 4 angoli della terra e sia adorato da tutti e 4 gli angoli della terra.

Gli affreschi furono, invece, realizzati durante il periodo della guerra di Candia, la guerra che opporrà la Repubblica di Venezia all’Impero ottomano per il possesso dell’isola di Creta (Candia) e che durerà dal 1645 al 1669, e si concluderà con la conquista turca dell’isola. Ai due lati dell’abside si vedono due grandi affreschi di Guglielmo di Courtois (il Borgognone) che raffigurano la cattura e il martirio di san Marco evangelista: san Marco sta celebrando la messa ad Alessandria d’Egitto e viene catturato dai pagani, strappato dall’altare, legato al carro del governatore di Alessandria e trascinato al suolo fino alla morte.

L’affresco al centro è, invece, opera seicentesca del Romanelli, discepolo di Pietro da Cortona, e rappresenta San Marco evangelista (e con lui la repubblica di Venezia) che, a destra, sconfigge il paganesimo ed, a sinistra, esalta la vera fede, sotto la quale si intravede la città lagunare.

Ma ci interessa soprattutto che qui la tradizione vuole che tre secoli prima della primitiva chiesa eretta da papa Marco vi abbia abitato l’evangelista Marco e vi abbia scritto il suo vangelo, il più antico dei quattro.

Come sempre non staremo a discutere su quanto sia fondata questa tradizione, né ci scandalizzeremo del fatto che questa notizia tradizionale è incerta, perché a noi non interessa tanto individuare i luoghi precisi, quanto piuttosto, se questo non è possibile, renderci conto che i personaggi del Nuovo Testamento debbono essere passati comunque per le strade e le case di Roma.

Se è vera la notizia più importante che collega il vangelo di Marco alla città di Roma, confermata dai latinismi del suo vangelo che ci rimandano ad un ambiente legato alla cultura romana, l’autore del vangelo più antico deve comunque aver abitato in una casa romana, se non precisamente qui almeno in qualche altro luogo della città. E, abitando a Roma, avrà comunque passeggiato e parlato del vangelo nelle vie di questa città, forse proprio qui vicino.

Catechesi

In questo luogo così evocativo, dove possiamo immaginare la presenza dell’evangelista, vogliamo conoscere meglio il Vangelo di Marco.

Solo nel diritto ellenistico e romano erano previsti casi in cui era la donna a poter divorziare dal marito. Tale situazione non era prevista, invece, dal diritto rabbinico. Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le parole pronunciate da Gesù sul divorzio. Infatti, solo in Marco si aggiunge: «A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”» (Mc 10,10-12).

Gli esegeti pensano che queste parole Gesù non le abbia pronunciate letteralmente, ma l’evangelista abbia voluto mostrare che ciò che Gesù aveva detto dell’uomo valeva anche per la donna. È come se Marco si sia fatto eco, giustamente e ispirato dallo Spirito Santo, della volontà di Dio: anche se Gesù non aveva letteralmente pronunciato parole sulla donna, questa sarebbe stata la sua intenzione se si fosse trovato dinanzi ad una donna cui fosse concesso di divorziare come avveniva al di fuori del diritto ebraico.

Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad un ambiente ellenistico di lingua latina: se alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli (denarion, modios, kensos, krabbatos, legion, phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27), kodrantes, quadrante o spicciolo (12,42), hikanon poiein, dare soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione (15,39.44-45), praitorion, pretorio (15,16).

L’analisi interna del testo concorda in qualche modo con le parole di un frammento di Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice: «Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con esattezza, ciò che ricordava delle cose dette e fatte da Gesù. Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva seguito; più tardi seguì Pietro».

La cosa decisiva da ricordare subito sul Vangelo di Marco – ne abbiamo già parlato - è che l’evangelista è stato il primo a scrivere un Vangelo, ha inventato, per così dire, il genere letterario “vangelo”. Questo nuovo tipo di libro - il vangelo - dipende, a sua volta, dalla novità della fede cristiana: la fede cristiana non è un’idea, una lettura, un’obbedienza a un libro, bensì un incontro. La fede è l’incontro con una Persona, Gesù, e con il suo amore che si rivela essere quello stesso di Dio. La vita esce così trasformata dall’incontro con il Cristo al punto che quell’amore diviene il criterio stesso di un’esistenza nuova.

Il farsi uomo di Dio per rendere possibile questo incontro e la sua misericordia sono due aspetti della stessa realtà. Una profezia, un oracolo, un libro od un’idea non potrebbero amarci, perché non sono persone: Gesù Cristo, invece, è l’amore stesso di Dio venuto nel mondo.

Ecco perché Marco, se dedica tanto spazio alla passione ed alla resurrezione di Cristo, nondimeno vuole raccontare tutto ciò che gli è possibile del resto della sua vita, perché incontrare quella vita vuol dire incontrare l’amore di Dio. Lo abbiamo già visto, come abbiamo già visto il significato del primo versetto del Vangelo di Marco: «Inizio del vangelo che è Gesù, Cristo, Figlio di Dio».

Di Gesù non basta raccogliere le parole, come si fa con un filosofo, di Gesù non basta scrivere sommariamente una biografia come si fa con un uomo politico. Del Cristo invece bisogna raccogliere ogni sospiro, ogni sguardo, ogni abbraccio, ogni amicizia, ogni goccia di sangue, perché è Lui il Vangelo, perché Lui è la misericordia di Dio in persona, fatta carne. Per l’evangelista Marco non bastavano i detti di Gesù che già circolavano: bisognava raccontare la sua vita, la sua passione, la sua resurrezione.

Marco è molto attento a raccontarci minuscoli - ma estremamente significativi - particolari della vita di Gesù. Vale la pena soffermarsi anche solo su alcuni di essi per vederne la ricchezza.

In Mc 4,38, nell’episodio della tempesta sedata, si dice che Gesù «se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva». Il cuscino è un particolare ricordato solo da Marco. Quando qualcuno dorme non sta perdendo tempo, ma sta facendo ciò che ha fatto il Figlio di Dio! Marco insegna così che Gesù ha dormito e che, quindi, anche il dormire può essere pieno di Dio. Gesù dormiva con il suo cuscino mentre infuriava la tempesta, mentre c’era confusione ed agitazione ed addirittura la paura di morire. E Gesù dormiva. Come illumina questo fatto tante situazioni nelle quali viviamo problemi, drammi, cose da affrontare e ci si sente a torto sempre in colpa se non si riesce a fare tutto. Gesù tranquillamente, durante la tempesta, dormiva e dormiva con la testa su un cuscino.

Marco sottolinea che Gesù era tekton, cioè carpentiere (Mc 6,3 «Non è costui il carpentiere»). È l’unico vangelo ad affermare esplicitamente che Gesù ha lavorato con le proprie mani. Mentre gli altri evangelisti ci dicono che Giuseppe era tekton e che Gesù era “il figlio del carpentiere”, dal vangelo di Marco apprendiamo che Gesù stesso ha adoperato le mani per costruire delle cose. Propriamente, secondo l’evangelista, Gesù non era falegname, ma carpentiere - utilizzava cioè il legno, ma anche altri materiali, per costruzioni edili, nelle quali allora il legno era materiale indispensabile. Ritroviamo ancora oggi il termine greco nella parola “architetto”, da archi-tekton, cioè “capo-carpentiere”, “capo dei carpentieri”.

Di nuovo si vede qui la peculiarità del genere letterario “vangelo”: si tratta del racconto della storia di Gesù, fino ad alcuni particolari che sono anch’essi salvifici. Lavorare con le mani non è indegno di Dio, se Gesù lo ha fatto. Gesù ha vissuto realmente il lavoro, ha lavorato probabilmente per lunghi anni. Così il lavoro diviene ancora più nobile e il rifuggire da esso porta ad essere spiritualoidi. Qualche tempo fa ero in Puglia e una signora anziana mi raccontò una bellissima espressione popolare: “Il lavoro è il monte dell’adorazione di Dio”, cioè “Chi lavora con le sue mani sta adorando il Signore”.

Marco, ancora, racconta dei sospiri di Gesù, dei suoi sbuffi. In Mc 8,12 si dice: «Ma egli sospirò profondamente e disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno”». Gesù in questo brano è seccato, non riesce a capire perché le persone che lo ascoltano non credono; è colpito dalla loro incredulità che lo stupisce.

“Sospirò profondamente” cioè manifestò il proprio disappunto, la propria tristezza, non con odio, ma certo mostrando il suo sgomento, perché le persone percepissero il suo giudizio, il suo desiderio che la smettessero, che cambiassero atteggiamento, che si decidessero a dare una svolta. Gesù, proprio lui che è il Figlio di Dio e il Messia, è al contempo talmente uomo da esprimere la sua parola di giudizio e di salvezza, traendo profondi sospiri, sbuffando.

Marco ricorda ancora - unico fra gli evangelisti - non solo le parole dette da Gesù ad un tale che se andò triste per non aver voluto lasciare tutto per seguirlo, ma anche il suo sguardo. In Mc 10,21 leggiamo, infatti: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò». Solo Marco ricorda che il dialogo tra Gesù e quest’uomo è passato tramite lo sguardo. Gesù lo guardò negli occhi, lo fissò, mise i suoi occhi in quelli dell’altro, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Si pensi all’importanza dello sguardo quando un padre parla con un figlio, una donna con il fidanzato, quando due si guardano negli occhi. Pensate a questo dire delle cose non solo attraverso le parole, ma anche attraverso degli sguardi che si incontrano.

Ma Gesù è interessante proprio perché è l’Infinito che si è incarnato. Quei minuscoli frammenti sono importantissimi, perché in essi ormai abita qualcosa di più grande dell’uomo stesso. Non è solo il vangelo di Giovanni a dichiararlo fin dal principio, ma tutti e quattro i vangeli, in maniera complementare.

Se Giovanni si apre con il Prologo nel quale si proclama l’annunzio che il Dio che nessuno ha mai visto si è reso visibile nel Logos fatto carne, Matteo inizia con la genealogia - Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, nella quale Gesù è presentato come il Messia ed il discendente davidico - e subito prosegue presentando Gesù come l’Emmanuele, il Dio con noi. Luca, dal canto suo, inizia con il cosiddetto “vangelo dell’Infanzia” - dove la nascita di Giovanni Battista, pur miracolosa, è vista come qualitativamente diversa da quella di Gesù, “che sarà chiamato Figlio di Dio”, che è invece opera dello Spirito Santo.

Anche Marco non solo si apre con il titolo programmatico - Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio - ma ad esso subito segue la proclamazione della figliolanza divina da parte di Dio Padre nel Battesimo di Gesù: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11).

Insomma, tutti e quattro i vangeli, prima di ripercorrere la vicenda terrena di Gesù, si aprono innanzitutto fornendone uno sguardo sintetico. Nessuno di loro inizia con la predicazione del regno o con le parabole o con i miracoli o con gli insegnamenti o con la morte e resurrezione di Gesù. Perché la proclamazione del regno e le parabole e i miracoli e gli insegnamenti e la morte e la resurrezione hanno significato proprio perché appartengono a Gesù il Cristo, il Figlio di Dio.

Questa è la verità più interessante. Perché la questione che avvince il cuore e la mente dell’uomo è precisamente chi è Gesù. La questione che appassiona l’uomo è se Dio è venuto a visitare la nostra vita in Gesù.

Gesù in Marco si rivela profondamente uomo, ma, insieme, è colui che viene da Dio. È realmente il Cristo, il Figlio. Per la prima volta nella storia dell’uomo Dio e l’uomo stanno insieme.

Con continue domande ed osservazioni di tutti coloro che vengono in contatto con lui, Marco fa crescere l'interesse verso la persona di Gesù che esce da ogni schema fin lì conosciuto e crea suspence intorno alla domanda “Chi è Gesù?”, mentre, dall'altro lato, già ha dato la risposta.

Basti vedere Mc 4,41 dove sorge la domanda, dopo la tempesta sedata: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». O anche Mc 6,2 dove la domanda è sulla bocca di tutti: «Molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?”». Ma si legga la reazione che interroga su chi sia Gesù anche in Mc 1,22, in Mc 1,23-24, in Mc 1,37, in Mc 2,7, in Mc 2,12, in Mc 2,16, in Mc 2,18, in Mc 2,24, in Mc 5,7, in Mc 6,14, in Mc 7, 37.

Finalmente, in Mc 8,27 la domanda cresciuta e passata di bocca in bocca, diviene la grande questione che Gesù stesso pone. Innanzitutto: “Chi dice la gente che io sia?”, ma poi più direttamente: “E voi chi dite che io sia?” Non a caso, allora, era stata posta sin qui la domanda sull'identità del Cristo, ma tutto questo interrogarsi era il preludio, sorretto e voluto dalla divina provvidenza, finché Gesù stesso mostrasse che quella questione era l'unica necessaria!

Da tempo il pensiero umano aveva compreso che la capacità di lasciarsi interrogare è la fonte che fa nascere la filosofia, la vera maturazione del pensiero - Aristotele aveva detto che “la meraviglia è l'origine di ogni filosofia”, poiché il pensiero non si chiarifica in un'autoreferenziale interrogazione continua, ma nel rapporto alla res, alla realtà, che, per prima pone questione e interroga.

Ma qui la res è l'incarnazione stessa del Figlio. Non c'è mai stato stupore più grande che quello di trovarsi dinanzi all'opera compiuta di Dio e qui, infine, dinanzi alla pienezza dell'opera di Dio: il dono di Gesù al mondo.

Potremmo dividere il vangelo di Marco in tre grandi blocchi e, per orientarci, indicare tre grandi questioni che le tre parti affrontano. Il primo blocco affronta la domanda: “Chi è Gesù?”. Il secondo si chiede: “Come si fa a seguirlo?”. Il terzo ci porta a questo grande problema: “È impossibile in realtà seguire Cristo con le sole forze umane? O solamente la morte e la resurrezione di Gesù ci aprono la strada?”. In questa catechesi ci soffermeremo, per ragioni di tempo, solo sulla prima parte che va dall’inizio fino a Mc 8,27-30. In tutto sono otto capitoli nei quali, come abbiamo visto, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa Gesù dica, si giunge sempre ad una domanda fatta dai differenti interlocutori - i diavoli, gli uomini, gli apostoli - finché è Gesù stesso a porla: “Chi è costui?”

I primi otto capitoli ci fanno capire che questa è la grande domanda: “Chi è costui, chi è Gesù?”. Capiamo subito che qui è in gioco un primo aspetto fondamentale della fede, quello che potremmo chiamare il contenuto della fede - in latino, a partire dal medioevo, si utilizza l’espressione fides quae creditur, cioè la fede che io credo.

La fede cioè non consiste semplicemente nel dire che si crede, ma piuttosto nel dire che cosa si crede. Non è qui sufficiente dire “Io credo”, ma è necessario dire “Io credo che Gesù è il Signore”. Dopo la parola “credo”, devo mettere qualcos’altro, altrimenti non so a chi credo, sono un uomo che, pur dicendo di credere, vaga nelle tenebre perché non sa chi è colui a cui crede, sono cioè un cieco che guida altri ciechi.

Per avere la luce bisogna sapere chi si sta seguendo.

Un’immagine che mi piace utilizzare per mostrarvi cosa questo vuol dire la possiamo trarre dall’esperienza dell’amore. Quando una ragazza dice: “Io mi fido di questo ragazzo, perché lo amo”, ma questo ragazzo è inaffidabile, sbaglia a fidarsi di lui! Ci sono donne che amano solo uomini inaffidabili. Più sono traditori, meno hanno voglia di lavorare e più piacciono. Poi, deluse, concludono che “tutti gli uomini sono mentitori e scansafatiche”. In realtà il problema è loro. Prima di fidarsi di qualcuno lo si deve conoscere, non ci si può sposare con qualcuno che è inaffidabile. Mettere la propria vita nelle mani dell’altro dipende necessariamente dal fatto che quell’uomo sia affidabile. Io mi fido, ti conosco, so chi sei, per questo dico che ti amo e mi metto nelle tue braccia.

Questo è ancora più vero per Dio. Io non posso dire: “Io credo, sia fatta la sua volontà”, se io non so che Dio è affidabile. Per questo noi dobbiamo sapere chi è Dio per fidarci di Lui. Come l’amore, la fede sarebbe altrimenti cieca, pazza, sarebbe follia. L’amore di Dio passa dal fatto che Dio si è rivelato, ci ha amato.

Ma, dinanzi a Gesù, non si è dinanzi ad una verità fredda o teoretica o astratta: si è dinanzi ad una persona. Non si crede più in qualcosa, bensì in qualcuno, poiché lo si è conosciuto nella sua affidabilità, nel suo amore. Perché si è incontrato in Lui l’amore stesso di Dio.

Per questo, in realtà, la fede in Gesù non può essere separata da quell’altro aspetto che i medioevali chiamavano la fides qua creditur, cioè la fede con la quale si crede: la fede è un abbandono alla volontà del Signore perché lo si ama, perché ci si fida di Lui, non è un’enunciazione astratta di verità. Credere è, allora, anche seguirlo e camminare con Lui.

Quando è Gesù stesso a porre la domanda emergono tre risposte enormi, che racchiudono la risposta di Gesù e del Vangelo alla domanda sulla sua identità.

La prima risposta alla domanda chi sia Gesù è questa: “Tu sei il Cristo”. Viene pronunciata da Pietro in Mc 8,27-30 - ma già l’abbiamo vista nel primo versetto del vangelo. Cosa vuol dire “il Cristo”? Gesù Cristo non sono nome e cognome di questa persona, ma Cristo - dal greco χριστ?ς, christòs, che significa letteralmente "unto" - è la traduzione greca della parola ebraica mashìach, messia. Pietro riconosce che quel Gesù, quell’uomo che gli sta dinanzi, è realmente l’“atteso” di Israele. Israele ha atteso un Salvatore e ora costui è presente, è finalmente giunto.

In Israele ci sono delle comunità ebraiche cristiane nelle quali si celebra la messa in ebraico. Sono composte da ebrei che hanno riconosciuto che in Gesù è arrivato il Messia di Israele, si sono battezzati e sono divenuti cattolici. Quando ho abitato in Israele per studi, ogni tanto celebravo la messa per loro ed in ogni liturgia mi colpiva quell’espressione a noi così abituale ed invece così parlante in quel contesto: “Te lo chiediamo per mezzo di Gesù Cristo”. Nella messa in ebraico questa espressione suona precisamente “derek yeshuah hammashiach”, cioè “per mezzo di Gesù che è il Messia”. Pensate cosa vuol dire per un ebreo che attende da secoli il Messia - da secoli lo hanno atteso suo padre, i suoi nonni, i suoi bisnonni e così via - arrivare a dire: “È lui, è arrivato!”

Ma la fede ci fa capire che questa attesa non è stata solo l’attesa di Israele, è stata anche l’attesa del mondo. Gesù è veramente Colui che l’umanità attende. Dire che Gesù è il Messia è proprio dire la scoperta che questa attesa, che fin lì si era sempre arrestata come di fronte ad un muro senza spiragli, si è ora conclusa. Noi sappiamo che l’uomo attende sempre qualcosa, poiché niente di ciò che esiste lo soddisfa pienamente, fino a quando arriva a comprendere che è il Cristo quello che cerca, è Lui lo sposo che manca, è Lui l’atteso, il Messia, colui che manca al suo cuore. E questo atteso è Gesù. Questa è la professione di fede di Pietro.

Se io sono sempre in ansia, se non ho speranza, non ho pace, sono depresso, quello che mi manca è Lui. Mi manca il senso della vita. Io non sono depresso perché mi hanno criticato, perché mi è andato male il lavoro - certo queste cose mi fanno male e sono problemi che devo affrontare - ma quello che radicalmente mi manca è il senso di quello che faccio, il perché della mia fatica, della mia vita. Marco ci ricorda che quel senso della vita si trova in quella persona. Pietro, dicendo “Tu sei il Cristo”, afferma questo.

La seconda grande risposta del vangelo di Marco alla domanda chi sia Gesù viene solo un versetto dopo, in Mc 8, 31. Questa volta è Gesù stesso a pronunciarla ed a dire di sé che è “il Figlio dell’Uomo”. Questa è l’espressione che Gesù userà continuamente nel vangelo, spesso alla terza persona singolare: “Il Figlio dell’uomo dovrà soffrire”, “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà”, ecc. Il Figlio dell’Uomo è Lui stesso.

Questa espressione Gesù la riprende dal profeta Daniele. Tutti i moderni studi storici riconoscono, fra l’altro, come indubitabile che qui si sia dinanzi ad una espressione che Gesù sicuramente ha utilizzato, uno di quei punti certi del modo con cui Gesù amava auto-definirsi. Daniele aveva raccontato che sarebbe venuto dall’Antico di giorni, cioè da Dio stesso, un Figlio dell’Uomo, che sarebbe disceso sulle nubi del cielo (Dn 7,13). Gesù comincia allora a dire che colui che viene dal cielo, da Dio, da queste nubi, dalla presenza stessa di Dio, dovrà soffrire e morire e offrirà la sua vita per il perdono dei peccati. La seconda grande realtà che il vangelo di Marco annunzia è che veramente Gesù è colui che viene da Dio, proprio come aveva profetizzato Daniele. Gesù si riconosce in quelle parole, afferma che la sua venuta è il compimento di quell’annunzio. Ma vi inserisce subito una grandissima novità. Mentre in Daniele questo Figlio dell’Uomo sarebbe disceso da Dio come trionfatore, Gesù comincia subito a spiegare che egli viene da Dio per perdere se stesso, per morire sulla croce. È il mistero del crocifisso. Colui che viene da Dio, colui che realmente viene da queste nubi, colui che realmente è il Signore glorioso, è anche colui che paga soffrendo per tutti gli uomini sulla croce. E gli apostoli, da subito, cominciano ad aver paura di questo. Gesù parla di se stesso come di colui che realizza la profezia di Daniele ed, insieme, quelle dei canti del servo sofferente del profeta Isaia.

Marius Reiser ha scritto che quei canti erano “senza padrone”, cioè non si sapeva nell’antico Israele a chi andassero riferiti. La stessa esegesi storico-critica, lasciata a se stessa, non sapeva cosa dire di quei testi, poiché non potevano essere riferiti completamente né all’intero popolo di Israele, né ad un personaggio del tempo in cui quegli oracoli vennero scritti. Ora Gesù si rivela il “padrone” di quei testi, cioè la figura alla quale si adattano a pennello. Egli è il Figlio dell’uomo, ma un Figlio dell’uomo che dovrà soffrire come il servo di YHWH.

Pochi versetti dopo troviamo la terza risposta alla domanda sull’identità di Gesù. Questa volta è il Padre stesso a pronunciarla, nel contesto della Trasfigurazione: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Gesù è il Figlio: questa è la terza grande affermazione del vangelo, già presente in Mc 1,1 ed anche nell’episodio del battesimo.

Non è, però, solo il Padre ad indicarlo come Figlio. È Gesù stesso che continuamente parla di se stesso come colui che conosce il Padre e che nel nome del Padre opera e parla e compie tutto ciò che viene raccontato nel vangelo.

In Marco tante volte emerge il rapporto peculiare fra il Padre e il Figlio. Vale la pena ricordarne uno, chiarissimo, nel contesto della predicazione di Gesù a Gerusalemme, quando Gesù, entrato nel Tempio, racconta la parabola degli inviati della vigna (Mc 12,1-12). Parla della vigna amata da Dio, che è Israele, che è il suo popolo. Dio aveva affidata tutto ai vignaioli, perché fosse una vigna carica di buoni frutti. Dio desidera che la vigna fruttifichi, perché non l’ha voluta per se stessa, ma perché da essa tutti potessero ricavare il vino, potessero gioirne, potessero trovarvi la vita. Gesù racconta che tante volte Dio mandò operai a chiedere tali frutti, ma uno venne bastonato, un altro picchiato, altri uccisi. Nella parabola Gesù allora annunzia una svolta (Mc 12,6-8): «Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna».

È evidente che Gesù non sta raccontando una storiella. Gli ascoltatori ascoltano dalla sua bocca che quel “padrone” aveva ancora un’ultima possibilità, aveva ancora un “unico” che gli era rimasto, aveva ancora il suo figlio prediletto. Egli è l’ultimo inviato per convincere il cuore di quelli che abitavano nella vigna: mandò allora il figlio. Non è una fiaba che inizia con “C’era una volta”! Gesù sta dicendo che questo figlio è lui, che lui è veramente l’ultimo l’inviato di Dio, che è il figlio del padrone della vigna, che è veramente il figlio prediletto.
Nella Bibbia l’espressione “il figlio prediletto” viene usata anche per Isacco: il figlio prediletto è quel figlio che Abramo ha ricevuto dopo averlo atteso per infiniti giorni e che gli viene chiesto di sacrificare. Dio gli dice: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,2).

Gesù è questo figlio, è l’unico figlio di Dio, il figlio che Dio ama, il figlio prediletto. Non è uno dei tanti servi, dei tanti profeti, che Dio ha inviato. Egli è di una qualità diversa. E Gesù nel vangelo di Marco è chiaramente “il Figlio”, colui che è stato mandato dal Padre, che dice le parole del Padre, che porta il perdono del Padre al mondo.

Quando Pietro e gli altri apostoli avranno riconosciuto che Gesù è il Cristo, il Figlio dell’uomo mandato dal padre per soffrire per i peccati del mondo, il Figlio di Dio amato dal Padre come il suo unico prediletto, allora, nella seconda parte del Vangelo, Gesù comincerà a spiegare qual è la sua sequela e le condizioni del portare la croce con lui e, nella terza, mostrerà che solo la sua grazia e la sua resurrezione possono rendere i discepoli capaci di fare ciò, poiché tutti fuggiranno, dagli apostoli fino al giovinetto che lasciò nel Getsemani anche il lenzuolo di cui era coperto.

In conclusione, vorrei dire una parola sull’origine dei vangeli. La Chiesa quando afferma la sua convinzione sull’affidabilità storica dei vangeli, si serve di una espressione semplicissima, che è stata indicata dal Concilio Vaticano II: “l’origine apostolica dei vangeli”. Cosa si vuol dire con questa espressione? Affermando l’origine apostolica dei vangeli non si vuole dire che i singoli autori dei vangeli sono gli apostoli e, quindi, che Matteo e Giovanni sono necessariamente due degli apostoli e così via. Le domande sulla paternità degli scritti neotestamentari, infatti, restano aperte, come ci insegna la critica storica sui vangeli. Noi non possiamo dire con certezza chi ha scritto i quattro vangeli e le singole parti di essi. La finale di Marco l’ha scritta lui o un discepolo? E chi è questo discepolo? Il vangelo di Giovanni da chi è stato veramente scritto? Chi è l’autore dell’ultima redazione e quali sono i passaggi che hanno portato a questa? Ci sono posizioni diverse tra gli studiosi e ognuno è libero di aderire alla versione che gli sembra più credibile.

La Chiesa chiede però di credere che i vangeli hanno origine dagli apostoli. Forse Marco è scritto poco prima del 70, quando Pietro era già morto. Ma quello che Marco ha scritto è veramente quello che gli apostoli hanno detto ed il suo vangelo è comunque stato scritto quando la comunità cristiana, che si ricordava quello che gli apostoli avevano detto, avrebbe subito corretto un racconto dissonante dal Gesù predicato dagli apostoli. La Chiesa ha subito riconosciuto che le parole scritte nel vangelo erano in piena consonanza con quelle che gli apostoli avevano pronunciato oralmente e che la sostanza del racconto marciano, così come del racconto degli altri evangelisti, coincideva con ciò che da sempre avevano conosciuto della storia di Gesù, tramite la predicazione apostolica.

I vangeli, insomma, derivavano da quella predicazione in maniera fedele e questo è estremamente significativo prima di discutere chi sia precisamente l’autore di un particolare racconto sulla vita di Gesù.

I vangeli sono affidabili perché la loro origine è nella predicazione apostolica.

Certamente la Dei Verbum racconta dei tre stadi della formazione dei vangeli: prima Cristo, poi gli apostoli ed infine la redazione dei vangeli ad opera degli apostoli o dei discepoli o di uomini della loro cerchia. Qui il Concilio accetta tutta la riflessione storica che vede questi passaggi fra Gesù ed i testi evangelici. Ma è importantissimo notare che, anche qui, il Concilio non vede questo triplice passaggio come una possibile ombra sulla affidabilità storica dei vangeli.

Fu Paolo VI in persona a volere, attraverso una lettera che scrisse il 17 ottobre 1965, l’inserimento di una frase che affermasse esplicitamente la fiducia che la Chiesa ha nella serietà storica dei vangeli. I Padri conciliari accolsero la sua richiesta e si giunse alla formulazione di Dei Verbum 19 dove si dice che la Chiesa «ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2)».

Di modo che il Concilio Vaticano II, all’unanimità, afferma che il triplice passaggio attraversato dai Vangeli nella loro formazione non ci fa perdere, nella sostanza, la realtà certa degli eventi e delle parole fondamentali della vita di Gesù.

18/ La fondazione della laicità (dinanzi al tempio di Marte Ultore)

Ambientazione

Gesù nacque negli anni in cui veniva edificato in Roma nei Fori il Tempio di Marte Ultore, del quale abbiamo già parlato. In questo tempio Ponzio Pilato giurò fedeltà all’imperatore prima di partire per la sua missione in Giudea. Passeggiando per via dei Fori imperiali lo si distingue chiaramente, fra i Mercati Traianei ed i resti del Foro di Nerva con le famose Colonnacce. Del Tempio di Marte Ultore è rimasto l’alto podio con la sua scalinata in marmo ed alcune colonne sul fianco di destra, per chi guarda. Il suo stato di relativa conservazione dipende dal fatto che venne trasformato in chiesa, la Santissima Annunziata, che venne poi demolita in età fascista per realizzare gli scavi dei Fori. Quando avvenne il giuramento di Pilato era ormai imperatore Tiberio che vi aveva eretto gli archi di Druso e Germanico.

Gesù stesso fu almeno una volta interrogato sulle malefatte del suo futuro giudice, quando «si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”» (Lc 13,1-3).

Il governatore romano balza però prepotentemente sulla scena della vicenda evangelica in occasione del processo di Gesù. Matteo ricorda che egli «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla» (Mt 27,24), e certamente quel gesto esprime bene la sua arrendevolezza colpevole dinanzi al sinedrio che vuole la morte di Gesù, poiché il Cristo si è fatto «simile a Dio». Pilato comprende bene che Gesù non è assolutamente pericoloso, né lo sono i suoi discepoli: ne decide però la crocifissione per paura che i sommi sacerdoti inneschino una rivolta contro il potere romano se egli non avesse decretato la soppressione del “bestemmiatore” Gesù.

Gli Atti degli Apostoli vedono in questo evento non solo un fatto storico, ma anche la realizzazione della profezia del Salmo 2 che preannunciava una misteriosa alleanza del popolo d’Israele e delle nazioni pagane contro il Signore ed il suo Messia: «davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato» (At 4,27). Nell’ottica lucana questo testo indica già che il Cristo è venuto per tutti e che insieme ebrei e pagani si stringono intorno a lui, per decretarne la morte, ma anche perché da quella morte tutti ricevano la vita.

L’ingresso dei pagani nella storia del cristianesimo ha qui Pilato come capofila. Non un greco, ma un romano. A compimento delle Scritture. A compimento di quel disegno di salvezza che Dio aveva nel suo desiderio fin dall’eternità. Per questo Pilato già scivola sullo sfondo nel ruolo di comparsa, per lasciar posto a colui che è il vero protagonista. Come dirà l’autore della prima Lettera a Timoteo, a Gesù Cristo, colui «che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato» (1 Tim 6,13). Ecco Pilato, un romano di cui si parla per raccontare di un altro, del Cristo Signore.

Ma al di sopra Pilato stava Tiberio. Cosicché quando Gesù fu interrogato sul tributo da dare o non dare a Cesare, le monete che gli vennero mostrate portavano l’immagine di Tiberio.

Catechesi

«Sotto Ponzio Pilato». Il nome di un alto ufficiale romano è entrato nel Credo. Già questo solo nome proprio testimonia della realtà storica delle fede cristiana. Non si trova alcun riferimento storico nei culti mitraici o nei miti gnostici. Le storie lì raccontate non sono reali, ma mitiche: si ripetono eternamente, sono cicliche, come i ritmi della natura. Non avrebbe senso, dinanzi ad esse, porsi la domanda: «quando sono avvenute?». Questa domanda, invece, caratterizza il cristianesimo.

«Patì sotto Ponzio Pilato», «fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato». Così recitano il Simbolo degli Apostoli ed il Credo niceno-costantinopolitano. E non finisce di stupire che uno dei tanti funzionari romani dell’imperatore Tiberio sia entrato in uno dei testi più importanti della storia del mondo, il Credo della chiesa. Certamente Cristo è morto «per noi» - ricordo sempre la straordinaria espressione di un giovane che ripeteva: «se credi che Gesù è morto per te, allora sei salvo»! Ma è morto per noi, proprio sub Pontio Pilato. Né prima, né dopo. Proprio in quell’anno. In quel giorno. Proprio mentre la Giudea era governata da Ponzio Pilato.

E proprio durante il mandato di Pilato in Giudea avvenne un dialogo fra Gesù ed alcuni giudei che cambiò il corso della storia del mondo, dando origine alla laicità. Così raccontano i vangeli: «Mandarono da Gesù alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”» (Mc 12,13-14).

Gli uomini di potere sanno che, da sempre, la politica è un terreno scivoloso. Scelgono questo tema per cercare di cogliere in fallo Gesù. Ed, ancora una volta, la situazione più difficile diventa per il Signore non una realtà da rifiutare e da fuggire, bensì un’occasione per amare e per testimoniare la verità del Padre e dell’uomo. L’affermazione «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12,17) - una dichiarazione che cambierà il volto della storia tutta dell’umanità e che fonderà per sempre la laicità vera del potere - viene espressa in un momento di esplicita persecuzione nei confronti del Cristo, mentre cioè si sta tramando la sua morte. Anche qui nessun istante della vita del Signore va perduto. Egli è “la Parola”!

La domanda sembra senza possibilità di scampo: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Se Gesù rispondesse che è lecito, ecco che sarebbe facile accusarlo di essere un uomo compromesso con il potere romano, uno che non prende le distanze dal nemico che toglie la piena libertà al paese, uno che è connivente con una situazione di ingiustizia nella quale tanti sono costretti.

Ma se rispondesse che non è bene pagare le tasse, ecco che egli potrebbe essere facilmente fatto passare per uno dei tanti rivoluzionari ostili all’autorità dei quali pullulava allora la Giudea, uno di quelli dai quali è bene guardarsi perché non si sa dove possono condurre gli animi eccitati del popolo, uno di quelli che di fatto porteranno Gerusalemme alla rovina attraverso le due guerre giudaiche.

Solo uno sguardo superficiale potrebbe etichettare la risposta di Gesù come furba, come prudente, come un escamotage per sfuggire al dilemma. In realtà essa scava nel profondo, segnando il passo di ogni futura discussione su Dio e sull’uomo.

Gesù, domandando che gli sia mostrata la moneta del tributo, obbliga, innanzitutto, i suoi ascoltatori ad ammettere che essi fanno uso del denaro, che essi utilizzano proprio quelle monete con le quali vorrebbero incastrarlo.

È una straordinaria lezione di realismo. L’uomo, ovunque si trovi, intrattiene relazioni con altri uomini tramite costituzioni, leggi, pesi e misure, quantificazioni economiche, equilibri di potere: è un “animale sociale” ed ha bisogno della società per vivere.

A partire dall’insegnamento del Signore il cristianesimo ha imparato a rigettare l’anarchia e l’utopia di abolire le istituzioni, perché lo Stato è necessario nel tempo transitorio della storia. L’uomo che è debole, a motivo del peccato e del peccato originale, non saprebbe governare se stesso senza una strutturazione istituzionale della società. Paolo trarrà le giuste conseguenze da questo rifiuto dell’anarchia dichiarando nella lettera ai Romani che l’autorità è da Dio, non nel senso che i governanti sono scelti di volta in volta dall’Onnipotente e nemmeno nel senso che le loro decisioni esprimono il volere divino, ma, molto più essenzialmente, nel senso che Dio vuole che esistano strutture politiche, in quanto necessarie all’ordinata convivenza degli uomini.

In questo modo Gesù annuncia che il regno di Dio non è realizzabile in pienezza in terra e che un tentativo di schierarsi dalla parte dell’utopia equivarrebbe alla più grande delle ingiustizie e delle prevaricazioni, come la storia dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo passato ha dimostrato. La politica è il luogo delle mediazioni possibili, ma necessarie. I farisei e gli erodiani interrogano Gesù sul tributo, ma non mettono minimamente in questione l’utilizzo di quelle monete che proprio l’imperatore ha coniato, con la propria iscrizione ed immagine, e senza le quali non sarebbe loro possibile alcuno scambio economico. Su quelle monete figurava l’immagine di Tiberio e quelle monete erano garantite dall’autorità di Ponzio Pilato.

Ma è la finale della risposta a creare la sorpresa più significativa: «E rendetelo quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12, 17). Ancora una volta Gesù senza il Padre sarebbe incomprensibile. Sempre a Lui egli riconduce i suoi ascoltatori. Essi, con grande disinvoltura - ed, in fondo, a ragione - fanno uso delle monete di Cesare, riconoscendo di fatto che senza qualcuno che governi non si può vivere. E, di fatto, essi danno a Cesare ciò che è suo. Avviene lo stesso con Dio? Essi lo riconoscono come uno che deve essere preso in considerazione, come colui che è Signore delle cose sue?

I farisei e gli erodiani hanno dinanzi a sé non solo le monete con le immagini dell’imperatore, ma hanno soprattutto davanti il Figlio che porta l’immagine del Padre. Cosa faranno di lui? Cosa faranno di Colui che appartiene come cosa propria a Dio stesso? Una esigenza diversa da quella politica si manifesta qui: quella di riconoscere Dio ed il suo inviato come tali. Dio è Signore ben più importante di Cesare, eppure di Cesare accettano la presenza, di Dio essi rifiutano il Figlio!

Non solo il Cristo stesso, ma anche l’uomo è segnato dall’immagine divina, come già Israele aveva da sempre saputo. Quell’immagine impressa che segna la differenza fra l’uomo e l’animale, quell’icona visibile dell’invisibile che esprime la possibilità che solo l’uomo ha di essere in relazione libera, e quindi amorevole, con i suoi simili e con Dio stesso: «A immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27).

Ecco il limite della politica ed ecco anche il suo fine. Essa non fonda i diritti dell’uomo, ma deve ad essi inchinarsi e servirli. Il compito dell’agire politico è quello di riconoscere la dignità dell’uomo e servirla. Perché i diritti umani hanno origine dalla dignità dell’uomo stesso che gli deriva dalla sua origine divina.

È in vista di questo servizio che il potere ha la sua necessità ed il suo senso nella storia umana. Di quell’immagine non si può fare “negozio”, perché non può essere comprata o venduta, perché non appartiene al novero delle cose materiali ed economiche: essa è, invece, senza prezzo, è di un valore inestimabile, è cosa di Dio stesso. È la dignità inalienabile dell’uomo che Gesù fa apparire.

La politica è così accolta, ma insieme demitizzata. Il dialogo con i farisei e gli erodiani indica da quel momento e per sempre la laicità della politica, la sua bontà e necessità, ma anche fornisce gli strumenti per opporsi al potere politico ogni volta che questo chiederà l’obbedienza assoluta, mettendosi al posto di Dio e negando la dignità dell’uomo.

19/ L’origine della libertà religiosa (dinanzi all’Arco di Costantino)

Ambientazione

Costantino si rifiutò di salire al Campidoglio per venerare le divinità pagane di Roma, dopo la sua vittoria su Massenzio. È un fatto che viene di rado sottolineato, ma che è storicamente molto importante: egli andò direttamente, al Palatino, salendo al Palazzo di cui abbiamo da poco visitato i resti. Sebbene non fosse ancora diventato cristiano, questo fatto segna un cambiamento decisivo nella storia dell’impero romano.

Tre anni dopo la vittoria di Ponte Milvio – che era avvenuta il 28 ottobre 312 – e precisamente nell’anno 315 venne terminato l’Arco che porta il suo nome. Un elemento ci riporta a questo cambiamento epocale. L’iscrizione dedicatoria recita:

IMPERATORI CAESARI FLAVIO COSTANTINO MAXIMO PIO FELICI AUGUSTO SENATUS POPULUSQUE ROMANUS QUOD INSTINCTU DIVINITATIS MENTIS MAGNITUDINE CUM EXERCITU SUO TAM DE TYRANNO QUAM DE OMNI EIUS FACTIONE UNO TEMPORE IUSTIS REM PUBLICAM ULTUS EST ARMIS ARCUM TRIUNPHIS INSIGNEM DICAVIT,

che tradotto significa: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato sul tiranno [Massenzio] e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi».

Importantissima è l’espressione che si reca alla terza riga: instinctu divinitatis, cioè “per ispirazione della divinità”. L’Arco, cioè, non parla di Cristo, ma nemmeno delle divinità del politeismo latino. Ormai Costantino afferma di avere un’unica divinità e che per ispirazione di una sola divinità egli ha condotto a buon compimento l’opera di unificazione dell’impero. Ovviamente l’intento è pubblicitario, ma nondimeno questo doveva essere l’atteggiamento di fondo dell’imperatore – e nella catechesi ne vedremo meglio il significato.

Prima di approfondire questo vale la pena sottolineare che l’Arco è costituito con opere prelevate da diverse opere pre-esistenti, fra cui anche archi oggi scomparsi, in particolare da quello che era stato dedicato da Commodo al padre Marco Aurelio, mentre altre opere sono riferibili all’età di Adriano.

Scolpiti ex-novo sono, invece, i 6 bassorilievi che raccontano la vittoria di Costantino. Iniziando dal lato corto che è rivolto alla Via Sacra che sale verso l’Arco di Tito e continuando poi in senso anti-orario, si vedono:   

I fregio: Costantino esce da Milano. In alto tondo costantiniano con Diana/Luna su biga
II fregio costantiniano: assedio di Verona.
III fregio costantiniano: battaglia di Ponte Milvio.
IV fregio costantiniano: Costantino entra in Roma. In alto tondo con Apollo/Sole che esce dal mare
V fregio costantiniano: Costantino parla dai rostra.
VI fregio costantiniano: distribuzione di donativi.

All’interno del fornice i bassorilievi sono di Traiano, riutilizzati per celebrare Costantino inneggiando al fondatore della pace (fundatori quietis: si rappresenta l’imperatore che entra in Roma) e al liberatore dell’urbe (liberatori urbis: si rappresenta l’imperatore dopo una sua vittoria in battaglia).

Di fronte al Colosseo si può vedere il Tempio di Venere e Roma eretto da Adriano, l’imperatore che combatté la II guerra giudaica, distruggendo definitivamente il Tempio di Gerusalemme e ricostruendo la città con il nome di Aelia Capitolina. Il Tempio duplice celebra Roma e l’imperatore come eterni ed, insieme, Venere, divina genitrice di Enea e con lui degli Iulii e della stirpe imperiale. Dall’altura del Tempio di Venere e Roma il papa conclude la via crucis il Venerdì Santo di ogni anno.

Catechesi

Abbiamo già visto come la Donazione di Costantino non sia una prova per legittimare il potere temporale del papa, bensì sia, invece, il segno di una autocoscienza acquisita da Roma nell’VIII secolo: il pontefice era ormai consapevole di non poter più contare sull’aiuto dell’imperatore nella lotta contro i longobardi per l’indipendenza di Roma e la conservazione della trasmissione della cultura latina, bensì doveva cavarsela da solo, perché l’imperatore era ormai impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro gli arabi musulmani che cercavano di conquistare l’impero bizantino e di cingere d’assedio Costantinopoli.

Ma quale fu, allora, il reale rapporto di Costantino con la Chiesa? In primo luogo vale la pena soffermarsi su quell’incontro personale con la fede cristiana che la dedicazione dell’arco ci pone sotto gli occhi. Costantino agì instinctu divinitatis, “per sollecitazione della divinità” e non “per sollecitazione delle divinità romane”.

Quando Costantino, che, alla morte del padre che era Augusto d’occidente, sconfisse prima Massimiano a Marsiglia nel 310 e scese poi verso Roma per combattere l’usurpatore Massenzio si accampò sulla via Flaminia prima della famosa battaglia di Ponte Milvio – sul luogo si erge ancora un antico arco che è detto Arco di Costantino a Malborghetto.

Massenzio commise l’errore di uscire dall’urbe, di attraversare Ponte Milvio e di attaccare battaglia in campo aperto. I suoi soldati furono respinti indietro come in un imbuto, nella rotta per riattraversare il Tevere e rientrare nelle mura. Nella ritirata, Massenzio annegò nel fiume, ma il suo corpo venne ritrovato e Costantino, nel corso del corteo trionfale con il quale attraversò la città da vincitore, lo fece esporre con la testa tagliata, perché i romani con lazzi e offese disonorassero il tiranno di Roma che era stato sconfitto.

Se questi fatti sono storicamente certi, dibattuta è la famosa visione che l’imperatore ebbe nel suo accampamento con la quale le fonti vogliono che gli venisse rivelata la certezza della vittoria “nel nome della croce”.

Gli studi moderni hanno, da un lato, provato che il racconto di quell’episodio è stato via via colorito ed accresciuto di particolari - la battaglia si svolse il 29 ottobre 312 - ma, d’altra parte, hanno confermato che in quella campagna Costantino dovette prendere decisioni che saranno decisive nello svolgimento degli eventi e che egli attribuì ad una ispirazione divina.

Lattanzio, che fu a Treviri precettore del figlio di Costantino, Crispo, scrive negli anni 318-321 che Costantino fu avvertito in sogno di incidere sugli scudi il segno delle lettere greche chi e rho (le prime due lettere della parola Christòs) che da allora fu chiamato “monogramma costantiniano” – monogramma che certamente Costantino poi utilizzò come simbolo, ad esempio nella monetazione. Lattanzio lo chiama il caeleste signum Dei.

Prima di lui, Eusebio, nella Storia ecclesiastica (composta negli anni 312-317, anche se poi ritoccata nel 323/324), aveva invece riferito più semplicemente di una preghiera fatta da Costantino, prima della battaglia, “a Dio ed al suo Verbo, che è Gesù Cristo, il Salvatore di tutti”.

Nelle opere di Eusebio il riferimento alla croce era poi divenuto sempre più evidente. Nel Panegirico per Costantino del 335 aveva affermato che mentre i nemici di Costatino combattevano “confidando nella moltitudine dei loro dèi” e portando “davanti a loro gli idoli, in simulacri senz’anima, quali cadaveri in vita”, l’imperatore aveva loro contrapposto “il segno che dà la salvezza e la vita”.

Nella Vita di Costantino, poi, pubblicata postuma poco dopo la morte di Eusebio avvenuta tra il 337 ed il 340, il racconto della visione di Costantino aveva assunto la forma definitiva che conosciamo: in una prima visione, al tramonto del sole, apparve a Costantino una croce con la famosa iscrizione “in hoc signo vinces” (naturalmente in greco), successivamente, nella notte, l’imperatore aveva visto Cristo stesso che gli era apparso, chiedendogli di erigere un labaro con l’insegna che aveva visto nella precedente visione.

Nei testi fin qui analizzati è evidente il crescere leggendario della conversione di Costantino, ma anche la costanza del riferimento a Cristo come figura importante nella vita dell’imperatore. La presenza di questo riferimento è confermata dalle fonti pagane, pur differenti da questi racconti, che sottolineano che un cambiamento era avvenuto nell’imperatore che, fino a quel momento, aveva venerato il dio solare, secondo la fede che era stata già di suo padre Costanzo Cloro.

Infatti, nel Panegirico per Costantino, scritto a Treviri da un anonimo panegirista pagano (scritto quindi alcuni anni prima dei testi di Lattanzio ed Eusebio) si legge così (dal Panegirico di anonimo per Costantino, figlio di Costanzo, Treviri, 313 d.C.; da Panegirici latini, D. Lassandro – G. Micunco, a cura di, UTET, Torino, 2000, pp. 288-293; 313-315; 323-325):

«Quale dio mai, quale divina potenza a te tanto vicina ti mosse, sicché, mentre quasi tutti i tuoi compagni e generali non solo borbottavano sotto voce, ma anche apertamente mostravano timore, mentre i consigli degli uomini ti erano contro, e ti erano contro i moniti degli aruspici, tu solo invece, da te stesso, sentivi che era venuto il tempo di liberare Roma? Tu hai, certo, o Costantino, qualche misterioso rapporto con quella mente divina che delega a divinità minori il compito di prendersi cura di noi, e a te solo si degna di mostrarsi direttamente. D'altra parte, o fortissimo imperatore, anche così, dopo che, cioè, hai vinto, ci devi una spiegazione... Chi ti ha dato consiglio se non la potenza di un dio? […] Per quanto quello [Massenzio] potesse mettere innanzi a sé truppe senza numero, tu avevi, però, dalla tua la Giustizia».

Nella lode sperticata e chiaramente espressa in chiave pubblicitaria che il panegirista pagano fa dell’imperatore egli viene messo in rapporto ad una divinità superiore che lo portò alla vittoria.

Un secondo elemento è ricordato in ambito pagano: Costantino viene criticato per non essere salito al Campidoglio per venerare, secondo la tradizione, gli dèi di Roma, la triade capitolina, il cui Tempio si ergeva appunto sul Campidoglio. Egli si ritirò, invece, rapidamente, dopo il trionfo, nel palazzo imperiale del Palatino.

La rapidità del corteo è attestata dal Panegirista del 313 che afferma: «Alcuni ebbero l'ardire di chiederti di fermarti ancora e di lamentarsi che così rapidamente tu fossi giunto al palazzo e, una volta entrato, di seguirti non solo con gli occhi, ma di fare quasi irruzione oltre la sacra soglia».

Infine un ulteriore elemento viene da una fonte pagana a confermare come i contemporanei di Costantino avessero colto in lui un mutamento di orientamento religioso. Lo storico Zosimo, che scrive alla metà del IV secolo al tempo di Giuliano l’Apostata, sposta successivamente, senza però contestare le fonti precedenti, la “conversione” di Costantino, e precisamente dopo il 326, dopo che l’imperatore aveva fatto uccidere la moglie Fausta ed il figlio Crispo, accusandoli di preparare una rivolta contro di lui e di una relazione amorosa. Precedentemente, per Zosimo, Costantino «seguiva ancora i riti patri, non per ossequio ma per convenienza» (Zosimo, Storia nuova II,29). Zosimo è uno storico pagano e, sulla scia di Giuliano, scrive contro Costantino e contro la sua politica di favore verso i cristiani.

Insomma, come ha scritto Marilena Amerise, grande storica dell’imperatore, «sia la versione cristiana sia quella pagana confutano alcune ipotesi moderne secondo cui la conversione non sarebbe rinvenibile nelle fonti; in secondo luogo dimostrano che, in positivo e in negativo, era stato avvertito nella società dell'epoca un cambiamento nell'orientamento religioso dell'imperatore». I contemporanei, insomma, e non solo i cristiani, avvertirono un forte mutamento nella vita dell’imperatore e, di conseguenza, nel tenore della sua politica.

Gli studi moderni, ormai pienamente consapevoli di questo, si orientano a vedere l’adesione dell’imperatore al cristianesimo come un evento graduale. Costantino dovette divenire progressivamente consapevole che la nuova fede era in continuità con ciò che già aveva professato ed, anzi, portava a compimento le aspirazioni religiose nelle quali era cresciuto.

L’adesione piena di Costantino alla fede cristiana avvenne solamente in punto di morte, quando egli ricevette il battesimo da Eusebio di Nicomedia, nel 337. Nel periodo precedente, se egli sostenne apertamente la chiesa ed i cristiani, come subito vedremo, non si schierò mai, però, apertamente contro il paganesimo. Sappiamo, ad esempio, che a Costantinopoli fece erigere anche due templi pagani, che a Spello fece erigere un Tempio alla gens Flavia, cioè alla propria famiglia divinizzata, come risulta da un’iscrizione, che volle sempre tenere in onore i senatori che erano in massima parte ancora di tendenze paganeggianti. Insomma l’iscrizione dell’Arco ci dice di un avvicinamento progressivo al cristianesimo convinto, ma prudente.

Questo progredire delle sue convinzioni in campo religioso appare evidente dalle concrete scelte che fece in materia religiosa a livello legislativo. Il documento più importante in materia che si è conservato è il cosiddetto Editto di Milano, firmato congiuntamente da Costantino e Licinio nel 313 (Licinio era, in quel momento, l’Augusto d’oriente). Ne è rimasta la versione inviata al governatore della Bitinia, nell’odierna Turchia che recita così:

«Essendo felicemente convenuti a Milano noi, Costantino e Licinio Augusti, e trattando tutto ciò che riguarda il bene e la sicurezza dello Stato, tra le cose che pensavamo avrebbero giovato alla maggioranza degli uomini, abbiamo deciso di stabilire prima di tutto quelle che riguardano la religione, in modo di dare ai cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione preferita, affinché la Divinità che risiede nei cieli – qualunque essa sia – possa concedere pace e prosperità a Noi e a tutti i nostri sudditi. Abbiamo pensato che con giusto e ragionevolissimo principio si dovesse decidere di non negare a nessuno, che segua la religione cristiana o un’altra per lui migliore, tale libertà, così che la Suprema Divinità, che liberamente veneriamo, in tutto possa accordarci il Suo consueto favore e benevolenza. Conviene dunque che la tua Eccellenza sappia che abbiamo deciso di abolire ogni restrizione, che ti sia stata affidata per iscritto sui cristiani, ed ogni provvedimento ostile e contrario alla Nostra clemenza e che d’ora in poi tutti quelli che vogliono osservare la medesima religione cristiana possano farlo con perfetta tranquillità e serenità» (dalla Lettera degli imperatori Costantino e Licinio al governatore della Bitinia, in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, X,5,4-14 e in Lattanzio, Sulla morte dei persecutori, XLVIII,2-12).

Si noti subito che il testo non si limita a dichiarare la libertà dei cristiani, ma afferma la libertà di coscienza nel seguire la religione che si crede. Anche da questo punto di vista il documento rappresenta una novità assoluta nella storia dell’impero romano e nella storia della civiltà più in generale.

Si deve notare anche che i cristiani sono nominati per primi. Tutti sono liberi di seguire le divinità che preferiscono, ma i cristiani vengono posti al primo posto e sono gli unici dei quali appare esplicitamente il nome. A differenza di quello che comunemente si afferma, Costantino non perseguitò assolutamente i pagani né fece del cristianesimo la religione di stato. L’unica legge emanata da Costantino nei confronti di altri culti fu il divieto di praticare l’aruspicina e la magia.

Si può immaginare la gioia che dovettero provare i cristiani, che uscivano dalla terribile persecuzione di Diocleziano. L’Editto di Milano continua affermando: «Abbiamo deciso di abolire ogni restrizione… Ordiniamo ancora che chi ha acquistato tempo addietro dal fisco o da qualche privato i luoghi medesimi, nei quali i cristiani usavano adunarsi – per i quali si diede specifica procedura in precedenti documenti -, li restituisca ai cristiani senza indugio e senza equivoco… e poiché si sa che i cristiani non possedevano soltanto i luoghi di convegno, ma anche altri spettanti alle autorità, non proprietà privata, ma delle chiese, tutto ciò comprendiamo sia ridato».

Si noti qui che si parla della restituzione di luoghi di culto confiscati. Vuol dire che già i cristiani possedevano luoghi di culto. In realtà già l’editto di Gallieno del 262, detto “editto di restituzione”, prevedeva la stessa cosa al termine delle persecuzioni di Decio e Valeriano.

Questo è importante perché mostra che la costruzione di edifici cristiani non è una concessione del potere, ma un’esigenza interna della Chiesa che aveva bisogno di luoghi di riunione, di preghiera e di servizio per i poveri e li edificò ben prima della svolta costantiniana. Sappiamo che le catacombe di Callisto erano di proprietà della comunità di Roma già nell’anno 200, che all’avvento al potere di Costantino in Roma si era già passati dalla preghiera nelle case private - le cosiddette domus ecclesiae - alla preghiera in vere e proprie chiese: Ottato di Milevi afferma che ne esistevano già 40 prima di Costantino. In Africa le chiese erano già chiamate basiliche, come ricordano gli atti dei martiri di Africa. Di tali edifici così antichi, oltre alla catacombe con l’iconografia già sviluppata nei sarcofagi decorati prima della pace costantiniana, è stato ritrovato un esemplare superstite, la famosa chiesa di Dura Europos, oggi in Siria, edificata e affrescata prima dell’anno 256 quando la città venne abbandonata all’arrivo dei persiani, con la presenza a fianco dell’aula di una sala battesimale con affreschi di tema neotestamentario.

Insomma, il cristianesimo aveva la necessità di esprimersi con edifici e con opere d’arte, con sculture ed affreschi non per concessione del potere imperale, bensì perché aveva qualcosa da dire: la sua capacità espressiva è innata, è coessenziale all’esigenza dell’annunzio del vangelo, e si manifestò pertanto anche quando la chiesa era ancora perseguitata. Con Costantino si ebbe solo una maggiore libertà nel farlo ed, anzi, fu l’imperatore stesso a finanziare la costruzione non solo della basilica di San Giovanni in Laterano e del suo battistero, ma anche di altre 8 basiliche in Roma, fra le quali Santa Croce in Gerusalemme (anche se il completamento di alcune di esse dovette avvenire con i suoi successori), e di chiese in diverse luoghi dell’impero, in particolare a Gerusalemme – basti qui ricordare l’Anastasis - e a Costantinopoli.

Gli studi moderni hanno dimostrato che la decisione con la quale Costantino dette la libertà ai cristiani e il sostegno con cui li appoggiò anche tramite la promozione degli edifici liturgici non fu per niente, a quel tempo, una scelta ovvia.

Il cristianesimo, infatti, a differenza di quello che comunemente si pensa, non era ancora maggioranza in tutto l’impero. Probabilmente il cristianesimo era già maggioritario in Siria ed Egitto (così afferma il Mazzarino), probabilmente anche in Africa, ma non lo era certamente in occidente ed, in particolare, a Roma. Il senato, in particolare, era saldamente ancorato alle antiche tradizioni romane che erano chiaramente di stampo pagano.

Qualcuno arriva ad ipotizzare che i cristiani fossero, al tempo della svolta costantiniana, il 40% circa del totale della popolazione dell’impero. Questa enorme crescita numerica era avvenuta in maniera assolutamente pacifica, solo per la testimonianza e la predicazione. L’aumento numerico dei cristiani era stato costante, nonostante le persecuzioni.

Come ha affermato Benedetto XVI il diffondersi del messaggio cristiano si era basato solo sul Logos e sull’Agape che lo caratterizzava:

«La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione».

Tanti cittadini dell’impero di allora erano stati attratti dalla serietà intellettuale della fede cristiana e dall’amore che la contraddistingueva. Nella mente e nel cuore di tanti, la fede aveva fatto breccia. La testimonianza dei martiri aveva portato tanti frutti.

Ma l’avvicinarsi dell’imperatore al cristianesimo e poi la sua piena adesione ad esso ebbero delle grandi conseguenze non solo perché permisero la nuova libertà dei cristiani, ma anche perché li obbligarono a nuovi vincoli – è un altro aspetto che viene abitualmente dimenticato nella presentazione di Costantino, che, come stiamo vedendo, è di solito molto imprecisa.

Questo appare immediatamente evidente se si considera il ruolo che l’imperatore volle subito giocare nella crisi ariana, così come, precedentemente, nella questione donatista.

La crisi ariana prende il nome da un prete di Alessandria d’Egitto (l’odierna al-Iskandariyya in Egitto sul delta del Nilo) che si chiamava Ario, nato intorno al 260. Intorno al 320, egli cominciò ad affermare che Cristo era una creatura e non era coeterno con Dio Padre. Egli interpretava l’espressione “figlio di Dio”, riferita a Gesù, nel senso che il Cristo era certamente la più grande delle creature, ma era pur sempre semplicemente una creatura; solo il Padre era perciò Dio. Probabilmente la teologia di Ario voleva salvaguardare l’unicità assoluta di Dio e, per raggiungere questo risultato, gli sembrava necessario sminuire il posto del Figlio di Dio che egli doveva vedere come una minaccia al monoteismo. Ario riprendeva la terminologia origeniana delle tre “ipostasi” (in latino “ipostasi” sarà poi tradotto con “persona”), ma affermava a differenza di Origene, che il Figlio, pur creato prima dei tempi e prima della creazione del mondo, era lo stesso creatura (ktisma e poiema). Il Figlio era, per Ario, l’unica creatura creata direttamente dal Padre, mentre tutto il resto era poi stato creato con la mediazione del Figlio; il Figlio era, comunque, “cronologicamente” posteriore al Padre.

Ario affermava: «Conosciamo un solo Dio, un solo ingenerato, un solo eterno, un solo senza principio, un solo vero, un solo che possiede l’immortalità, un solo sapiente, un solo buono, un solo potente» (Ario, Epistole 2,1.3;1,5; frag.2; cfr. M. Simonetti, La crisi ariana, p. 46).

Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto, la stessa città di Ario, gli si oppose. Atanasio spiegò che se Gesù non era coeterno con il Padre, neppure il Padre era Padre dall’eternità:

«Essi [gli ariani dopo Nicea] tengono lo stesso linguaggio temerario dei loro maestri e dicono: “Non da sempre vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infatti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma è stato creato anch’egli dal nulla. Perciò Dio non da sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre suo» (da Atanasio, Il Credo di Nicea, 6, 1, p. 67 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

Atanasio difese la novità della fede cristiana, la verità della rivelazione neotestamentaria che afferma che, nel Figlio, Dio si è finalmente rivelato. Se Gesù fosse stato solo una creatura, Dio non si sarebbe ancora rivelato all’uomo e l’uomo non avrebbe potuto vedere il vero volto di Dio, perché Dio non avrebbe abitato in mezzo a noi. Tutto il Prologo di Giovanni non avrebbe alcun senso, ma non avrebbe alcun senso tutta la fede cristiana, che afferma che Dio si è infine rivelato e che nell’amore del Figlio ci ha amato personalmente.

Costantino, preoccupato della divisione che serpeggiava nell’impero, decise di convocare un concilio nel 325 a Nicea (oggi ?znik in Turchia) per dirimere la questione. I padri conciliari si espressero con una Professione di fede, il Credo niceno appunto, che affermava che il Figlio era omoousios, cioè “della stessa sostanza del Padre” (“ousia”, in greco, vuol dire “sostanza”), cioè coeterno con il Padre e Dio come il Padre stesso.

Quella parola omoousisos serviva a custodire la novità evangelica di Gesù Figlio di Dio. Gesù era Figlio di Dio non secondo quell’idea di figliolanza adottiva che era stata utilizzata dagli imperatori o dai faraoni – che avevano affermato di essere stati scelti come figli adottivi di Dio per il governo della terra – e nemmeno nel senso che ha l’espressione “siamo tutti figli di Dio” e nemmeno se si connota la figliolanza come espressione di una santità speciale che rende individui di un’altissima moralità particolarmente vari e vicini a Dio.

Gesù era l’unico Figlio del Padre, perché in Dio c’è l’amore del Padre e del Figlio e se non c’è l’uno non c’è neanche l’altro. La figliolanza del Figlio non ha paragoni che possano sussistere.

In un meraviglioso testo moderno, il grande scrittore inglese G.K. Chesterton, così presenta il vero nucleo della questione ariana (da L’uomo eterno, Rubbettino 2008, pp. 281-282):

«Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? […] La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici».

In questo divampare di discussioni, proprio Costantino non riuscì però a capire perché per i cristiani la teologia fosse così importante. Infatti, dopo aver appoggiato il Credi di Nicea, pretese poi che i vescovi non facessero distinzione con chi manteneva le tesi di Ario. È famosa una sua lettera che dice:

«Dico queste cose non per costringervi ad essere completamente d’accordo su una questione fin troppo sciocca, quale che possa essere. Infatti voi potete conservare integra la dignità dell’assemblea e mantenere l’accordo fra tutti, anche se fra voi c’è disaccordo su questioni di minimo conto: infatti non vogliamo tutti le stesse cose né abbiamo una sola indole e una sola idea» (da una Lettera di Costantino, in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, LXXI, 6).

Nella stessa lettera, Costantino ripete più volte espressioni simili: «il pretesto da cui sono scaturiti [i conflitti] mi è apparso assai insignificante e niente affatto degno di una simile contesa» (LXVIII, 2) ed invita a valutare «se sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie» (LXXI, 3).

A lui interessava solo che ci fosse pace nell’impero, mentre una discordia lo avrebbe indebolito. L’imperatore affermava di comprendere una divisione che poteva nascere dall’interpretazione delle “leggi” religiose, ma non una che avesse a che fare con il dogma. Invitava, pertanto, a tacere le discordie dogmatiche ed a tenerle per sé, senza turbare gli animi: «la vostra contesa non entra nei meriti dei principali precetti della Legge» (LXX) e ciascuno, dinanzi a queste questioni dogmatiche è invitato «a tenerle chiuse nella [...] mente e a non esternarle temerariamente nelle riunioni ufficiali, né ad affidarle sconsideratamente alle orecchie del popolo» (LXIX, 2).

Costantino ragionava insomma come gli imperatori suoi predecessori: nel paganesimo non c’era questione di “verità”, di una adesione interiore che andava definita e precisata. Contava piuttosto l’ossequio esteriore, l’osservanza del culto e dei precetti. Per questo Costantino trattava il cristianesimo come i suoi predecessori trattavano le altre religioni antiche: “Che ognuno compia gli atti di culto ed obbedisca alle leggi religiose e si tenga per sé le convinzioni personali sulla verità”. Costantino, insomma, non capì che non poteva essere così nel cristianesimo: se, infatti, Gesù non è Figlio di Dio, tutto cambia! Se Gesù non ha rivelato Dio all’uomo, allora il cristianesimo non ha alcun senso.

Costantino scelse, insomma, il cristianesimo, ma non ne capì fino in fondo l’originalità e si comportò come se si trovasse ancora dinanzi a sacerdoti pagani, invitando i cristiani a soprassedere su questioni che non riguardassero il comportamento, la morale o le leggi.

Ha scritto in maniera splendida sulla questione il prof. Simonetti: «Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare. Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso».

Anche oggi chi contesta il ruolo del dogma nella chiesa, non si rende conto che la questione della verità è decisiva nella fede cristiana. In fondo, non capisce affatto cosa sia il cristianesimo!

Questa sua incomprensione della vera natura della fede cristiana portò Costantino ad essere, in qualche modo, il primo rappresentante di un nuovo rapporto fra potere e religione che sarà chiamata cesaropapismo, cioè una visione del mondo dove Cesare cercherà di utilizzare al religione a suo uso e consumo. Questo tentativo del potere di controllare la fede cristiana avrà grandi conseguenze nei secoli successivi, basti pensare, ad esempio, alla crisi iconoclasta.

Eppure, proprio la decisione di spostare la capitale dell’impero da Roma a Costantinopoli fu una scelta che, nel tempo, si rivelò contraria alle intenzioni “cesaropapiste” che sempre più cresceranno nell’impero. Infatti, la lontananza dell’imperatore dal papa, la lontananza di Costantinopoli da Roma, genererà alla fine, l’indipendenza del potere spirituale, non più succube del potere statale.

Costantino, infatti, prese la decisione di edificare una nuova capitale cui dette il proprio nome: Costantinopoli. L’inaugurazione della nuova capitale avvenne l’11 maggio 330. Costantino volle che lì sorgesse un nuovo palazzo imperiale, che vi fosse un Senato, che tutta la popolazione ricevesse gratis dall’annona il grano, che vi sorgesse un circo per le corse con le stesse squadre del Circo Massimo di Roma, ecc. Insomma, la volle come una nuova Roma, dotata di tutti i privilegi della prima Roma.

Da quel momento in poi l’imperatore cessò di risiedere a Roma, per abitare sul Bosforo. I secoli successivi dettero ragione alla scelta di Costantino, che probabilmente aveva intuito che il futuro dell’impero si giocava in oriente e che i popoli barbari avrebbero prima o poi fatto irruzione all’interno dei confini dello stato, soprattutto in occidente.

Come è noto il nome odierno della città è ?stanbul che viene dal greco “eis ten polin”, cioè “verso la città”, proprio perché Costantinopoli divenne la “città” per eccellenza, l’urbe nuova appunto.

Da quella scelta di abitare lontano nacque il potere temporale del vescovo di Roma, ma soprattutto divenne più evidente la libertà del papa.

Antologia per la riflessione personale

- Cfr. Il Museo Pio Cristiano (Musei Vaticani): l'iconografia paleocristiana, di Andrea Lonardo

- La bellezza salverà la catechesi? Alcuni presupposti della via pulchritudinis nell'annunzio del Vangelo, di Andrea Lonardo

20/ La vergogna di Roma, i giochi gladiatori (dinanzi al Colosseo)

Ambientazione

Al primo piano del Colosseo, dove vengono presentati diversi reperti introduttori alla sua storia, è collocato un grande blocco di marmo grigio, che venne trovato nel 1813 sull’arena del monumento. Potrebbe essere appartenuto all’architrave della porta interna posteriore del Colosseo.

Sul lato frontale è un’iscrizione appartenente al V secolo d.C. che si riferisce a un restauro dell’anfiteatro avvenuto per cura del senatore Rufius Coecina Felix Lampadius, prefetto di Roma durante il regno degli imperatori Teodosio II e Valentiniano III, probabilmente negli anni 443-444.

La lastra conserva i fori che vi erano stati praticati per apporvi le lettere in bronzo di un’iscrizione antecedente, che venne poi distrutta.

Grazie alla distribuzione dei fori (che dovevano venir occupati dalle lettere in modo adeguato), alla conoscenza del formulario dei testi di questo genere e alla testimonianza letteraria e archeologica sulla storia del monumento è stato possibile ricostruire l’antica iscrizione con lettere bronzee.

Il testo, secondo la versione proposta da Géza Alföldy, «sarebbe stato redatto nel modo seguente (nelle parentesi quadre sono indicate le lettere i cui fori di fissaggio sono andati perduti, in quelle rotonde è presentato lo scioglimento delle abbreviazioni): I[mp(erator)] Caes(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)] / amphitheatru[m novum?] / [ex] manubis [fieri iussit (?)]; tradotto, significa: “L’imperatore Cesare Vespasiano Augusto fece erigere il nuovo anfiteatro con il provento del bottino”.
Grazie a un’analisi più attenta si può invece osservare che nella prima riga, mediante l’addizione di nuovi fori, le lettere CAE furono addensate tra loro e che prima di queste venne inserita una lettera aggiuntiva. La nuova versione risulta essere: I[mp(erator)] / T(itus) Cæs(ar) Vespasi[anus Aug(ustus)]; e cioè: “L’imperatore Tito Vespasiano Cesare Augusto”.
Si tratta di Tito, il figlio di Vespasiano. I fori di fissaggio della versione originaria non più utilizzati furono coperti quasi perfettamente dalle nuove lettere. Tutto ciò concorda con ciò che è ben noto della storia del Colosseo. Come dice Svetonio, fu Vespasiano a far erigere il Colosseo e, in base a una fonte d’epoca posteriore, fu già questo imperatore ad aprire al pubblico il nuovo anfiteatro, pur se i lavori di costruzione non erano ancora stati terminati.
Si sa, però, da altre fonti, che fu Tito a inaugurare nell’anno 80 l’edificio con grandiose manifestazioni; per questo motivo, Tito veniva considerato come l’edificatore del Colosseo. Le due versioni dell’iscrizione si spiegano con chiarezza: la versione originaria fu redatta poco prima della morte di Vespasiano, avvenuta il 23 giugno del 79; quella modificata fu creata in occasione della solenne inaugurazione nell’anno 80, al fine di glorificare l’imperatore al potere e, cioè, Tito.
L’iscrizione presenta, però, una grande novità: il finanziamento dei lavori veniva fornito
ex manubis. La costruzione di edifici pubblici, grazie ai proventi del bottino, rispettava la tradizione della repubblica romana.
Qui si tratta dell’immenso bottino fatto da Tito nella guerra contro gli ebrei. Flavio Giuseppe riferisce del tesoro del Tempio di Gerusalemme e, in particolare, dell’arredamento aureo dell’edificio sacro, che fu depredato dai romani
. In questo modo si può affermare che non soltanto l’arco di Tito con i suoi rilievi, raffiguranti l’arrivo a Roma dei vincitori carichi del bottino fatto nella Guerra Giudaica, ma che anche il Colosseo sia un monumento alla vittoria dei romani e, al contempo, alla tragedia delle sue vittime».

L’iscrizione fornisce così un particolare estremamente interessante che lo collega alla storia neotestamentaria ed alla Guerra Giudaica.

L’edificio ha una storia che merita ricostruire a grandi linee[1]. Dopo l’incendio che nel 64 d.C. distrusse gran parte degli edifici posti nella valle tra le alture del Palatino, Fagutale, Celio, Oppio e Velia, l’imperatore Nerone intraprese sulle rovine la costruzione di una reggia di dimensioni grandiose, la Domus Aurea. Tra i portici della villa era stato progettato un lago artificiale. Alla morte di Nerone però, il suo successore Vespasiano decise di donare al popolo romano delle opere pubbliche che prendessero il posto della Domus Aurea.

Al posto del lago venne così costruito l’Anfiteatro Flavio. I lavori iniziarono nel 72 d.C. L’inaugurazione ufficiale, avvenuta come si è già detto nell’anno 80, durò 100 giorni, durante i quali, secondo la narrazione di Dione Cassio, morirono 2.000 gladiatori e circa 9.000 animali. Il Circo venne completato solamente sotto Domiziano. Tutti e tre gli imperatori appartenevano alla dinastia dei Flavi, da cui il nome. Il nome Colosseo compare per la prima volta intorno all’anno 1000 e si riferisce all’enorme statua raffigurante Nerone (alta circa 36 metri) e poi trasformata con la sostituzione della testa nel Dio Sole, ispirata al Colosso di Rodi che fu fatta spostare da Adriano vicino all’Anfiteatro, dopo essere stata tolta dalla sua originaria collocazione nell’atrio della Domus Aurea. Tale statua fu posta su un piedistallo che le faceva raggiungere la stessa altezza del Colosseo.

L’Anfiteatro Flavio ha una pianta ellittica di 187,77 x 165,64 metri e un’altezza di 49 metri, l' arena misura 77 x 46,50 metri. È costituito da tre piani composti ciascuno da 80 arcate ornate con colonne in stile rispettivamente dorico, ionico e corinzio e da un quarto piano con finestre rettangolari e mensole alle quali erano fissati dei pali di legno necessari per distendere con un complicato e ingegnoso sistema di funi e carrucole il velarium, una tenda che copriva completamente l’anfiteatro per proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia. La manutenzione del velarium era affidata a marinai, esperti nel manovrare le vele, che provenivano dalla flotta di Miseno ed alloggiavano in una caserma vicina.

Nell’Anfiteatro Flavio si tenevano diversi tipi di spettacoli, che si susseguivano in base ai diversi orari della giornata e quindi alla maggiore o minore affluenza di pubblico.

La mattina si svolgevano le venationes, rappresentazioni di caccia alle belve, incorniciate da scenografie molto curate. Da elevatori meccanici distribuiti lungo il perimetro dell’arena comparivano improvvisamente boschetti, ruscelli e animali di ogni specie provenienti dai territori imperiali dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente.

Si eseguivano nel Colosseo anche condanne a morte di persone che venivano portate inermi nell’arena e giustiziate da uomini armati o sbranate da animali feroci.

Nel pomeriggio si svolgevano le lotte tra gladiatori (da gladio, il nome della spada che alcuni di loro portavano), i munera, lo spettacolo più popolare e più apprezzato in assoluto dai romani, nato anticamente in occasione di funerali di persone importanti, ma via via sempre più praticato e diffuso a fini spettacolari. I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra o uomini senza mezzi economici che speravano di guadagnare fama e denaro seppure con una professione estremamente crudele e rischiosa. Non esistono prove precise del fatto che i cristiani abbiano subito il martirio nell’anfiteatro Flavio, ma è probabile che molti dei condannati giustiziati durante i crudeli spettacoli che lì si tenevano appartenessero alla nuova religione.

Nel Colosseo si sono tenute, almeno nei primi tempi, anche delle naumachie o battaglie navali, per le quali si poteva in breve tempo riempire d’acqua l’arena, regolandone poi il deflusso grazie a due canali anulari sotterranei. La capienza dell’anfiteatro era di circa 50.000 persone che accedevano alle gradinate tramite i vomitoria (gli ingressi), tutti numerati, poiché numerosi spettatori erano in possesso di una tessera, e si sistemavano nei vari ordini di posti in base al loro ceto sociale. I palchi collocati alle estremità dell’asse minore erano i “pulvinari”, quello a sud-ovest riservato agli imperatori (in marmo), quello di fronte ai dignitari e alle Vestali. I posti meno prestigiosi erano gli ultimi in alto, costituiti da panche di legno e destinati alle donne della plebe.

L’arena aveva il pavimento di legno ricoperto di sabbia e l’area sottostante era occupata dai sotterranei, nei quali si trovavano le celle per gli animali e tutti i materiali necessari per gli spettacoli. Il materiale impiegato per il rivestimento del Colosseo era in larga parte il travertino, si calcola che ne siano stati usati 100.000 metri cubi, che avrebbero richiesto almeno cinquantamila carri per il trasporto dalle cave di Tivoli durante gli anni necessari per il completamento dell’edificio. I massi venivano tenuti insieme da perni di metallo (l’asportazione di questi perni metallici è la causa dei fori visibili oggi).

Nel 442 e nel 508 due terremoti di grande intensità danneggiarono il Colosseo. Nel periodo delle invasioni barbariche Roma conobbe un periodo di forte decremento demografico (secondo gli studi più accreditati si passo dal milione di abitanti dei tempi di Augusto ai centomila del tempo di Gregorio Magno) e via via gran parte dei quartieri e dei monumenti restarono abbandonati. Il Colosseo venne così utilizzato dalla popolazione come cava di pietre e come luogo di produzione di calce. Nei fornici vennero costruite abitazioni private. In alcune zone addirittura gli archeologi hanno rinvenuto tombe.

Infine fu papa Benedetto XIV a consacrare l’arena ai martiri, salvando così l’edificio dalla totale distruzione. Pio VII nel 1805 e Pio IX nel 1852 fecero costruire degli speroni per consolidare l’anello esterno delle mura.

Nell’800, il Colosseo, completamente abbandonato, era invaso da piante e fiori. Esiste uno studio di Deakin, “Flora of the Coliseum”, del 1855, che enumera ben 420 specie di piante presenti. La difesa del monumento dall’aggressione della popolazione proseguì dopo l’unità d’Italia quando l’archeologo P. Rosa, per procedere a dei lavori di restauro e a degli scavi nell’area, fece ripulire completamente l’arena.

Catechesi

Il Colosseo è un luogo demoniaco. Inorridisco quando lo vedo esaltare come un simbolo di Roma. Del Colosseo i romani si debbono vergognare come di uno dei punti più bassi che siano mai stati raggiunti nella storia della città. Non ho difficoltà a dire che il Colosseo è un luogo che ci deve fare schifo. Ne parliamo per dirne tutto il male possibile, per comprendere l’abisso di orrore che vi si è consumato.

Certo i giochi giunsero a Roma alla metà del II secolo a.C. con origini tuttora discusse – forse etrusche o campane. Ma è a Roma che ebbero il massimo sviluppo. Divenne famosa l’espressione panem et circenses. Il potere politico, per tenere sotto controllo la popolazione, offriva gratuitamente il pane – a Roma i cittadini avevano diritto alla distribuzione gratuita del grano – e i giochi circensi. Bastava offrire, oltre al grano, lo svago del c irco per essere sicuri che la popolazione non si sarebbe ribellata, presa come era dai suoi “divertimenti”. Agostino, nei suoi scritti, si pone la domanda serissima: perché i giochi erano più amati di Cristo? Perché i gladiatori interessavano più del Vangelo? Si noti che tale domanda serissima era aggravata dal fatto che allora tali “divertimenti” comprendevano la morte fisica e cruenta di tante persone, ma una domanda simile deve essere posta anche dinanzi ai moderni divertimenti che prolungano il Circo. Si pensi alla corrida spagnola – ultimo resto dei giochi gladiatori, dove l’uomo non lotta con altri uomini e bestie, ma solo con una bestia particolare, il toro – ma anche al calcio, dove uomini lottano fra di loro, senza doversi più uccidere per vincere. Perché il popolo ama più il calcio del Vangelo? Perché osanna più i calciatori di Cristo?

Certo è che gli imperatori sapevano bene che il pane non era sufficiente per tenere quieta la popolazione: alla popolazione non basta il pane, anche i pagani sapevano che “non di solo pane vive l’uomo”. Ciò che essi offrivano oltre al pane era il “divertimento”, il tifo nella lotta per la sopravvivenza del gladiatore amato.

Ebbene non ci fu una vera opposizione ai giochi gladiatori fino all’avvento del cristianesimo che per primo li criticò. Si trova qualche voce critica, ma mai in maniera radicale.

Cicerone, ad esempio, apprezzava il coraggio di persone per lui abiette come i gladiatori perché esso poteva insegnare ai virtuosi a non avere paura: per lui, però, i giochi erano uno spettacolo infimo. Seneca affermava di ritornare peggiore dopo essere stato in mezzo agli spettatori dei giochi, ma anche per lui il rifiuto non era morale: la sua critica si appuntava essenzialmente sull’essere i giochi un fenomeno di massa e quindi, non adatto a personalità più intellettualmente elevate.

I cristiani, invece, furono contrari fin dall’inizio. Non solo perché, come ricorda Clemente Alessandrino, la tribuna dell’arena inselvatichisce, ma soprattutto per l’assurdità di accettare l’uccisione di essere umani, spettacolarizzandola. Non fu solo il ricordo dei martiri cristiani a determinare l’opposizione più netta, ma una critica radicale tout court. I cristiani criticarono anche i giochi come falso mezzo per una ascesa sociale (quando il popolo o l’imperatore concedevano la vita ad un gladiatore). Eppure ci vollero secoli perché la critica dei cristiani venisse accettata.

Cominciò nel 325 Costantino, di cui è nota una direttiva a Massimo governatore di una parte delle province in Oriente: lo invitava a punire non tramite i giochi, bensì con lavori forzati nelle miniere. Eppure lui stesso previde nel 328, giochi ad Antiochia. Sappiamo dal calendario di Filocalo che nel 354 ci furono 10 giorni riservati ai giochi gladiatori. Nel 367 Valentiniano I proibì la condanna dei cristiani all’arena, ma la conservò ancora per i non cristiani. Nel 393 Simmaco – il senatore di cui si è già parlato per il conflitto con Ambrogio vescovo - fece organizzare solenni giochi gladiatori. Nel 399 Onorio, figlio di Teodosio, proibì le scuole di gladiatori. Nel 402 Onorio proibì del tutto i giochi, ma Valentiniano II li riprese e poi nel 439 li sospende di nuovo. Una leggenda vuole che Onorio li avesse vietati dopo che il monaco Telemaco, venuto dall’Oriente a protestare contro i giochi, era stato linciato dalla folla nel Colosseo. In realtà la scomparsa è graduale e forse con Onorio si ebbero provvedimenti temporanei legati soprattutto a Roma. Sembra che, comunque, nel primo quarto del V secolo gli spettacoli comprendessero ormai solo venationes.

Nel 440 il vescovo Salviano si scagliò contro la caccia agli animali selvaggi, contro il teatro e contro le corse dei carri. Nel 519 il re dei Goti permise ancora al genero Cillica di organizzare caccie agli animali feroci fatti venire dall’Africa - lo racconta Cassiodoro, suo ministro.

Nel 523 si ha notizia di nuovi spettacoli sotto Teodorico, che però li avrebbe biasimati. Infine, nel 536, sotto Giustiniano si hanno le ultime notizie di spettacoli venatori.

Il tempo che ci volle per giungere alla definiva cessazione dei giochi – e contribuirono anche le mutate condizioni politiche con l’urbe sempre più povera – fanno ben capire quanto era radicata l’usanza dei giochi e quanto le proteste cristiane cozzarono contro il muro delle autorità civili.

Il rapporto con i Giochi gladiatori ci permette di chiarire una questione interessantissima e con conseguenze enormi per il futuro della storia della Chiesa. Qual è l’atteggiamento della Chiesa dinanzi alle culture che incontra? Le anatematizza e le distrugge? Oppure le accoglie? Riprendiamo qui una questione che già abbiamo visto trattando dell’altare al Dio ignoto.

Potremmo rispondere in prima battuta che l’atteggiamento della Chiesa non è né quello dell’accoglienza, né quello del rifiuto, bensì quello del discernimento, secondo l’insegnamento neotestamentario: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1 Tes 5,21-22). Ce lo mostra proprio l’atteggiamento dei cristiani dei primi secoli con la cultura romano-pagana. Essi vagliarono la cultura degli uomini con cui vivevano e si resero conto che la filosofia, la ricerca scientifica e il diritto erano cosa molto buona. Tennero queste cose che erano molto buone. Si pensi alla nascita della teologia, alla terminologia tratta anche dai filosofi che venne accettata perché buona. Si pensi al diritto romano che si è conservato grazie alle compilazioni che ne fece fare l’imperatore Giustiniano. Il cristianesimo disse: Non dobbiamo fare a meno del diritto romano, anzi esso è globalmente saggio. Un filosofo della Sorbona, Rémi Brague, ha scritto che il cristianesimo si caratterizza per lo spirito “di secondarietà”: esso cioè accetta di essere “secondo”, di venire dopo altre esperienze culturali che sono buone e belle e, quindi, non intende distruggerle, bensì le studia e le valorizza.

Ma, insieme, in questo discernimento emerge anche il male di una cultura e il cristianesimo lo denuncia e lo combatte. Ad esempio, se il cristianesimo apprezzò la filosofia greca e romana, non avvenne lo stesso della mitologia: il politeismo pagano, per i primi cristiani, era giustamente idolatra. Per questo i padri, prolungando la critica veterotestamentaria agli idoli, mostrarono che la vera rivelazione di Dio era ben diversa dai miti relativi agli dèi che andavano abbandonati. Gli dèi lottavano fra loro, avevano sentimenti di gelosia, di lussuria o di rivalità: tutto questo era una mistificazione del vero volto di Dio che andava smascherata. Ma la critica feroce riguardò anche aspetti morali, come la disumanità dei giochi gladiatori. Questo aspetto della cultura latina venne rifiutato. I cristiani fuggirono con orrore da questa specie di male. Combatterono perché i Giochi venissero vietati.

È già evidente, così, il peculiare atteggiamento dei cristiani: né rifiuto, né accondiscendenza, bensì saper vedere l’opera dello Spirito in una cultura e saper cogliere altresì l’opera del male. Discernere, insomma. Si pensi come questo illumina l’atteggiamento attuale dei cristiani quando incontrano le nuove culture. Incontrando le diverse culture africane, i missionari diranno sì al senso della famiglia, al gusto per la danza e la festa, al rispetto per gli anziani, alla solidarietà che si instaura in una tribù, ma diranno no alla poligamia o al tribalismo, con il suo preferire gli appartenenti al gruppo e il mettere da parte chi appartiene ad un altro gruppo tribale: anche qui il discernimento. La denuncia del male può essere anche durissima, come avvenne con i Giochi, fino alla completa eliminazione di quella pratica.

Ma c’è un terzo elemento che bisogna considerare per comprendere tutta la ricchezza dell’atteggiamento cristiano dinanzi alle culture. La fede cristiana sa che se una cultura è viva è anche aperta: ecco dove si può inserire la fede cristiana come qualcosa che è atteso. Ogni cultura attende qualcosa che non ha e che solo il cristianesimo, che porta a compimento l’umano, può darle. I romani sapevano interiormente, in qualche modo, che il paganesimo non rispondeva alle attese del cuore e che i Giochi erano un abominio e quando il cristianesimo annunciò tutto questo, tanti ne furono conquistati. Sentivano che tutto il bene della loro cultura era in cammino ed aveva bisogno di Cristo per fiorire in pienezza.

Ecco i tre elementi che vediamo in gioco qui, così come nell’incontro fra il cristianesimo ed ogni cultura: apprezzamento del bene già esistente, rifiuto del male esistente, compimento delle attese presenti che emergono proprio a contatto con l’annunzio del Vangelo. Solo per dare un ulteriore esempio di questa dinamica del “compimento” si pensi alla valorizzazione di alcuni simboli pagani che i primi cristiani operarono. Il mondo pagano era interessatissimo, a ragione, alla figura di Apollo, alla bellezza che egli rappresentava – non si può vivere senza bellezza. Il cristianesimo affermò che il vero Apollo era Cristo, che in Gesù la bellezza si realizzava pienamente, una bellezza non più solo estetica e “platonica”, bensì una bellezza che accettava di essere sfigurata sulla croce per manifestarsi come la bellezza suprema del dono divino di amore.

La testimonianza dei martiri fu decisiva nel processo che portò al rigetto dei Giochi Gladiatori. Fra i tanti che vennero uccisi nell’arena, infatti, colpirono l’immaginazione degli spettatori proprio le morti di persone totalmente innocenti che offrivano la loro vita pregando per i loro assassini e rifiutandosi di combattere per salvare la propria vita. Fra questi una delle figure certamente più importanti è sant’Ignazio di Antiochia, un vescovo della Siria-Palestina di allora – vescovo di Antiochia di Siria, appunto, oggi in Turchia – che scrisse lettere alle comunità di diverse città, mentre veniva condotto prigioniero a Roma per il martirio. Il suo viaggio a Roma ed il suo martirio vengono datati intorno all’anno 110/111. Fra gli altri, si rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma – alcuni di essi erano già probabilmente vicini alla casa imperiale -, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo:

«Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla» (IV,1-3).

Ignazio - è evidente - si aspetta di morire sbranato dalle belve, probabilmente al Colosseo.

Un aspetto interessantissimo della lettera ai Romani scritta da Ignazio in vista del martirio è l’attestazione chiara del ruolo particolare che Roma aveva già nel cristianesimo delle origini:

«Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, alla Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il nome del Padre» (I,1ss.).

Di questo indirizzo della lettera ai Romani, l’espressione più caratteristica è - ovviamente nell’originale greco che era la lingua che si utilizzava allora anche a Roma - προκαθημηνη της αγαπης, che traduciamo in italiano con “chiesa che presiede nella carità”. Si noti bene che qui ‘carità’ non indica l’atteggiamento caritatevole del cuore, ma è l’espressione tecnica con la quale si designa la ‘comunione dei cristiani’. La chiesa intera è chiamata ‘agape’, ‘carità’; i cristiani sono l’agape e la chiesa di Roma presiede a tutta la chiesa cattolica sparsa nel mondo, designata come carità. Questa ‘agape’, questo amore che unisce i cristiani nella comunione, ha una chiesa che presiede: la Chiesa di Roma ha un ruolo paterno particolare di presidenza nei confronti di tutti. Ignazio, che viene da Antiochia a morire a Roma, nel Colosseo, scrive mentre è in viaggio verso l’urbe, salutando la Chiesa di Roma con questo titolo.

Antologia per la riflessione personale

1 Tes 5,21-22 Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.

Note al testo

[1] Da qui in poi il testo sul Colosseo è stato redatto da Giulia Balzerani.