Alcune riflessioni sul maschile e femminile nella psicologia dello sviluppo, di Giampaolo Nicolais
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Riprendiamo da Qualità dell’esperienza mentale e qualità della vita. Intersoggettività, contesti e valori, (a cura di) G. Accursio e F. Lucchese, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 237-256, un articolo del prof. Giampaolo Nicolais, La Sapienza, Università di Roma. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/1/2016)
Introduzione
La psicologia dello sviluppo studia le continuità ed i cambiamenti sistematici che avvengono in un individuo tra il concepimento e la morte.
Arnold Sameroff è un esponente di spicco della psicologia contemporanea, noto per aver elaborato un "modello transazionale dello sviluppo" che descrive le interazioni reciproche tra il bambino ed il suo ambiente affettivo. In un suo recente articolo di importanza seminale (2010) l'autore indica come sia giunto il momento per la psicologia di costruire una teoria unificata dello sviluppo che renda possibile comprendere appieno le caratteristiche, i bisogni e le necessità dei bambini nelle diverse fasi evolutive. Per far ciò, è indispensabile partire da un'operazione di "decostruzione" della psicologia dello sviluppo.
Tale operazione consente di riconoscere come questa disciplina abbia, nel secolo scorso, oscillato ripetutamente tra il paradigma "natura" e quello "ambiente" nel tentativo di individuare le forze determinati dello sviluppo infantile. Dal suo esordio attorno alla metà dell'800, la psicologia scientifica riteneva che le caratteristiche ereditate fossero a fondamento della natura umana; attorno agli anni '30/'40 del nuovo secolo, il comportamentismo americano segnò una decisa inversione di rotta verso l'influenza delle forze ambientali; l'etologia, la rivoluzione cognitiva e la nascita della genetica comportamentale portarono negli anni '60 ad una riabilitazione della centralità dei processi maturazionali intrinseci, assieme all'uso di tecniche statistiche che consentivano di "pesare" separatamente gli effetti dei geni e quelli dell'ambiente; a partire dagli anni '80, una più ampia visione dell'ecologia sociale come contesto umano e l'emergere di studi cross-culturali sullo sviluppo determinarono una nuova oscillazione verso la matrice fondamentalmente ambientale dello sviluppo umano; più recentemente, il progressivo affermarsi della biologia molecolare e delle neuroscienze a cavallo dei due millenni ha riaffermato il primato del dato genetico.
Quelli che Kuhn (1962) definisce "cambiamenti di paradigma" - trasformazioni nella modellizzazione fondamentale degli eventi - hanno quindi indotto la psicologia dello sviluppo del '900 a dare via via diverso rilievo a fattori di maturazione versus esperienziali come determinanti fondamentali dello sviluppo umano. Laddove la psicologia dello sviluppo descrive le caratteristiche ed i bisogni fondamentali di un bambino in riferimento al suo contesto di accudimento precoce (dal periodo prenatale alla prima infanzia), è difficile non osservare come l'enfasi si collochi sempre più sulle determinanti esperienziali. Sulla scorta della "rivoluzione relazionale" della seconda metà del secolo scorso (che ha chiarito come, diversamente dalla classica impostazione psicoanalitica, fin dai primi istanti di vita non siamo esseri pulsionali, bensì relazionali)è andata affermandosi una lettura secondo la quale saremmo primariamente il risultato delle nostre relazioni.
Ciò porta con sé due notevoli implicazioni: da un lato, le forze ambientali che modellano il nostro sviluppo sono sostanzialmente ricondotte al contributo delle relazioni interpersonali;
dall'altro, se solo tali relazioni saranno - o potranno essere modificate in modo tale da essere - "buone", ne conseguirà una traiettoria di crescita armoniosa.
Non solo all'interno della psicologia, ma ancor più nel comune sentire, l'esigenza sovraordinata di un bambino viene fatta coincidere con il diritto ad un'esistenza accanto ad adulti amorevoli ed emotivamente sintonizzati che si prendano cura di lui e lo proteggano dalle difficoltà dell'esistenza.
La radice conflittuale dello sviluppo
Nonostante gli uomini abbiano da sempre circonfuso il periodo della gravidanza di un'aura sentimentale, ciò che accade nel grembo materno a partire dagli stadi iniziali dello sviluppo embrionale evoca, piuttosto, scenari altamente conflittuali. Ciò è così vero - e reso evidente dal semplice riconoscimento che la metà delle gravidanze non giungono a termine, con la maggior parte di questi arresti che si collocano nei primissimi momenti senza che la donna stessa ne abbia sentore - da far ipotizzare che sia proprio la spietatezza di tali fenomeni ad aver determinato la necessità di compensazione espressasi nel corso della storia umana sotto forma di idealizzazione del periodo gestazionale.
La biologia evoluzionistica (Trivers, 2002) spiega questo conflitto alla luce dei principi darwiniani di selezione e trasmissione della specie. Noi e inostri parenti più prossimi non siamo geneticamente identici e quindi, per quanto ciò possa apparire contro intuitivo, il grembo materno ci mette alla prova. Soprattutto nelle sue fasi iniziali, la gravidanza costituisce un severissimo stress testper il nascituro, che ha il compito di convincere la parte uterina della sua adeguatezza allo sviluppo successivo - solo i migliori dovranno sopravvivere. L'embrione deve convincere la propria madre di essere forte e in salute. Da un punto di vista evoluzionistico, ciò avrebbe determinato uno scontro aperto tra le caratteristiche e la relativa ostilità dell'ambiente uterino - con le cellule endometriali strettamente allineate tra loro a formare un ambiente di impianto relativamente ostile - ed il vigore della progressione cellulare embrionale. Superato lo stress test,nel prosieguo di un normale periodo gestazionale tale assetto conflittuale muta nella forma, ma non nella sostanza. Si pensi, ad esempio, alla "dialettica ormonale" feto-madre: il feto innalza la sua produzione ormonale con l'obiettivo di aumentare la pressione sanguigna materna così da far giungere alla placenta maggiori quantità di elementi nutritivi, mentre la madre risponde con un aumento della sua propria produzione ormonale volto a ridurre pressione e livello glicemico sanguigni.
A partire dall'ostilità tra il trofoderma e l'assetto difensivo delle cellule endometriali, passando per le dinamiche ormonali appena esemplificate, tale conflitto caratterizza lo sviluppo embrionale e fetale normali come un insieme di processi volti ad un corretto bilanciamento tra il genotipo materno e quello paterno.Entrambi spinti dalle esigenze di fitness riproduttiva ad affermare i propri geni, i genomi paterno e materno entrano in una competizione che tuttavia non si configura come un gioco a somma zero, quanto piuttosto come una continua e delicata transazione. A valle di tale processo, con la sua teoria dell'imprinting genomico Haig (1993) ha mostrato come l'espressione di diversi geni dipenda dal sesso del genitore da cui sono stati ereditati.
L'invasività delle cellule fetali è testimoniata dal fatto che colonie di queste cellule vengono normalmente rinvenute nei tessuti e negli organi materni. La conseguenza è che, a partire dall'avvio di una gravidanza e per il resto della sua vita, una madre diviene un vero e proprio "ibrido genetico" - non sarà mai più ciò che era prima non solo da un punto di vista psicologico, ma ancor prima genetico. Il grande pediatra e psicoanalista inglese Winnicott (1965), descrivendo le trasformazioni di una madre nel rapporto con il proprio bambino, affermava che questa è sufficientemente buona quando "si arrende al proprio bambino". Possiamo utilizzare questa felice immagine per ricapitolare le vicissitudini fin qui descritte e che hanno determinato tale ibridazione genetica della madre, usando l'accortezza di intendere la "bontà" materna come la capacità di portare a termine la gravidanza. Come precedentemente notato, però, la nascita è il compimento di un processo che nel corpo della madre vede all'opera un doppio livello conflittuale: non solo quello tra il bambino e l'ambiente materno, ma anche quello tra il genoma materno e quello paterno.
Avendo fin qui ribadito la radice conflittuale di uno sviluppo che per compiersi necessita dell'integrazione tra il maschile-paterno ed il femminile-materno, rivolgiamo ora la nostra attenzione alle differenze tra maschi e femmine presenti fin dalla nascita.
Queste differenze non si limitano ai cromosomi sessuali e agli evidenti caratteri sessuali primari. Ciò che risulta facilmente osservabile e comprensibile da ciascuno in maniera intuitiva - la presenza di differenze biologicamente determinate nel comportamento maschile e femminile - ha ricevuto nel corso degli ultimi 20 anni il sostegno di robuste evidenze empiriche. In una serie di studi mai sufficientemente ricordati e citati, Simon Baron-Cohen (per una rassegna di ampio respiro, si veda: 2003) ha rotto un vero e proprio tabù presente nelle scienze sociali e non solo, confermando la presenza di differenze anatomo-funzionali tra il cervello maschile e quello femminile. In una sintesi necessariamente approssimativa, tra queste vanno annoverate: la maggiore presenza media di sostanza grigia (corpi cellulari) e bianca (connessioni tra le diverse aree) nel cervello maschile; maggiore ampiezza media dell'amigdala (area implicata nella gestione delle emozioni, in particolare della paura) nel cervello maschile; maggiore ampiezza media del planum temporale (area implicata nel linguaggio) nel cervello femminile; sviluppo dell'empatia più rapido nelle femmine; maggiore propensione a sistematizzare (comprendere il meccanismo di funzionamento degli oggetti e in particolare dei "sistemi" - da quelli meccanici a quelli naturali, fino a quelli astratti come nel caso della matematica).
Le ricerche di Baron-Cohen mostrano come tali differenze sarebbero principalmente ascrivibili all'azione del testosterone, l'ormone sessuale maschile responsabile nella fase prenatale dello sviluppo del pene e dello scroto, e in assenza del quale si formeranno gli organi genitali femminili.
Nell'elegante studio che ha dato il via alle ricerche dell'equipe di Baron-Cohen sulle precoci differenze comportamentali legate al sesso (Connellan et al., 2000), il campione era costituito da più di un centinaio di bambini nati da circa 24 ore. L'obiettivo era stabilire se fossero riscontrabili nel comportamento differenze legate al sesso in una fase della vita evidentemente ancora non condizionata dall'impatto ambientale-relazionale. Ai neonati vennero mostrati due oggetti sospesi sopra la loro culla: un volto umano e un oggetto meccanico inanimato. Usando il metodo dello studio del tempo di fissazione, l'equipe di Baron-Cohen trovò che i maschi guardavano più a lungo l'oggetto meccanico, mentre le femmine fissavano più intensamente il volto umano. Al fine di verificare l'eventuale correlazione tra i livelli di testosterone fetale e il comportamento sessualmente differenziato tra maschi e femmine nel corso dello sviluppo (Auyeung et al., 2009) Baron-Cohen ha in seguito studiato longitudinalmente una coorte di circa 500 bambini a partire dal loro sviluppo gestazionale - rilevando il dato del livello di testosterone presente nella placenta attraverso l'amniocentesi - fino ai 12 anni. In breve, lo studio ha mostrato come il testosterone fetale fosse predittivo, a diversi anni di distanza, di giochi tipicamente maschili tanto nei maschi quanto nelle femmine.
Questi riscontri indicano come le psicologie maschili e femminili siano precocemente influenzate, tra gli altri fattori, anche dai livelli ormonali del testosterone presenti fin dal periodo di gestazione. Conseguentemente, non è possibile riferirsi ad uno sviluppo infantile precoce senza distinguere tra sviluppo maschile e sviluppo femminile.
Ricapitolando: quella dello sviluppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio o una femmina alla vita.
Maschi o femmine in relazione speciale con la propria madre genetica
Quanto accade nel grembo materno nell'arco di quei 9 mesi di "dialogo conflittuale" pone in una relazione già molto stretta la madre e il proprio bambino. A buon diritto, è quindi possibile oggi includere nelle discipline psicologiche una "psicologia fetale". Sono oramai noti veri e propri processi di apprendimento che hanno luogo durante la gravidanza. Molti di questi sono essenzialmente di natura biochimica - ad esempio, dopo una reazione iniziale di allarme dovuta ad un forte rumore esterno, il feto impara a non riattivare quella reazione grazie al meccanismo dell'abituazione. Allo stesso tempo, però, il feto impara anche a riconoscere una serie di elementi sensoriali distintivi materni che vanno considerati come prerequisiti fondamentali per lo stabilirsi di un legame privilegiato madre-bambino. Sappiamo, ad esempio, da studi entrati oramai a far parte dei "classici" della psicologia moderna, come a poche ore dalla nascita il neonato sia in grado di discriminare e preferire l'odore del latte materno rispetto a quello di altre neomamme (MacFarlane, 1975); come l'ascolto della voce registrata della propria madre lo induca a succhiare più velocemente da una tettarella rispetto a quanto non accada quando la voce è quella di un'altra neomamma (DeCasper & Fifer, 1980); come la percezione amodale (Stern, 1985) - capacità percettiva innata che implica l'attivazione contemporanea di sfere sensoriali diverse - lo metta in grado di costruire progressivamente un'unità sensoriale integrata riferibile alle diverse caratteristiche della propria mamma ("questa è la mia mamma, che ha quel tono di voce che è allo stesso tempo quel modo di carezzarmi la schiena quando piango").
Queste ed altre competenze precoci, alcune delle quali con ogni evidenza acquisite mediante processi di apprendimento intrauterino, testimoniano della qualità unica, necessaria e insostituibile del legame gestazionale madre-bambino.
Le tecniche di procreazione assistita (in particolare, ci riferiamo in questa sede alla fecondazione eterologa e alla pratica della maternità surrogata) rendono possibile l'evenienza in cui un bambino abbia una madre genetica diversa dalla madre gestante. Susan Golombok dirige il Centre for Family Research dell'Università di Cambridge, e le sue ricerche da molti anni sono volte ad indagare l'impatto delle nuove forme di aggregazione familiare (dalla fertilizzazione in vitro alle famiglie omogenitoriali, passando per la surrogazione) sullo sviluppo dei bambini. Un suo lavoro del 2011 ha riportato i dati di uno studio longitudinale sullo sviluppo e qualità del rapporto con la propria madre di bambini dalla nascita ai 7 anni di vita, confrontando tra loro tre diversi campioni: 54 bambini nati da concepimento naturale, 32 da maternità surrogata e 32 da donazione di ovuli. Nei primissimi anni di vita, le valutazioni dei bambini e del loro rapporto con la madre ad 1, 2 e 3 anni hanno indicato positive traiettorie di sviluppo nei bambini dei tre gruppi, con livelli di calore e qualità dell'interazione percepita superiori nei casi di bambini nati da madri surrogate. Nel follow-up ai 7 anni dei bambini, però, i dati non hanno confermato il trend osservato anni prima. In particolare, il dato più sorprendente ha riguardato la qualità dell'interazione madre-bambino, che in questo follow-up è stata videoregistrata e valutata da osservatori indipendenti (laddove, nelle valutazioni precedenti, questo dato era riferito alla sola autovalutazione delle madri, e perciò meno oggettivo).
Sorprendentemente, il livello di reciprocità nell'interazione madre-bambino - in altre parole la misura di elementi nucleari di una ottimale relazione di caregiving quali la responsività, la reciprocità e la cooperazione diadiche - è risultato essere significativamente maggiore nelle diadi con bambini nati da concepimento naturale tanto rispetto a quelli nati da madri surrogate quanto a quelli nati da donazione di ovuli.
Commentando questo dato inatteso, Golombok ipotizza che "...la mancanza di differenze tra le famiglie formate da surrogazione in cui le madri non hanno partorito il loro bambino e le famiglie formate da donazione di ovuli in cui le madri hanno partorito il loro bambino, induce a ritenere che la mancanza del legame genetico, e non di quello gestazionale, potrebbe essere associata con quelle interazioni madre-bambino meno positive (...) l'assenza di una relazione genetica eserciterebbe un impatto maggiore sull'interazione meno positiva madre-bambino rispetto a fattori associati con la mancanza di un legame gestazionale" (p. 10, traduzione e corsivo di chi scrive). Pur non avendo ancora chiarito i motivi per i quali ciò accadrebbe, la scienza pare quindi confermare attraverso l'osservazione controllata e indipendente della qualità del rapporto tra una madre e il suo bambino la natura privilegiata e superiore del legame tra il bambino e la propria madre genetica rispetto a legami madre-bambino di natura diversa, compreso quello gestazionale.
Con la sua teoria dell'attaccamento, John Bowlby (1988) ha portato a definitivo compimento una serie di progressive revisioni della teoria pulsionale freudiana sulla natura del comportamento umano. Come ricordato in precedenza, oggi non è più possibile fare riferimento ad un bambino che sarebbe inizialmente caratterizzato dalla preminente e sovraordinata urgenza di soddisfacimento dei propri bisogni pulsionali. Per dirla con le parole di Fairbairn (1952), studioso a cui va riconosciuta la primogenitura della svolta del cosiddetto modello delle relazioni oggettuali in psicoanalisi, il bisogno più grande di un bambino è quello di essere amato dai propri genitori, al contempo vedendo accettato senza riserve il suo amore per loro. Già da neonati, dunque, siamo esseri in relazione che hanno bisogno di relazioni amorevoli per crescere e svilupparsi.
Il merito di Bowlby è stato quello di delineare un sistema motivazionale di base per il comportamento umano - quello rappresentato, per l'appunto, dalla dinamica del legame di attaccamento - che descrive "plasticamente" la progressione del primato della relazione oggettuale nel corso dei primi anni di vita. Il legame specifico che viene a formarsi tra due persone si avvia, nel linguaggio dell'attaccamento, a partire dall'incontro tra l'esigenza di protezione in condizioni di paura, stress e difficoltà (esigenza filo ed ontogeneticamente ereditata dal piccolo della specie umana) e la capacità da parte dell'adulto che se ne prende cura - caregiver - di rispondervi in maniera adeguatamente sintonizzata.
Spinto dal programma innato "attaccamento", quando si trova in difficoltà il piccolo attiva comportamenti di ricerca di prossimità fisica alla "base sicura": il modo in cui il caregiver risponderà alla richiesta del bambino eserciterà un notevole impatto - nel qui ed ora come pure nel corso del tempo, attraverso la progressiva mentalizzazione di questo tipo di esperienze da parte del bambino - sulla qualità del mondo relazionale del bambino e del futuro adulto.
Dall'iniziale formulazione di Bowlby - il quale espresse fino alla sua scomparsa la profonda convinzione che le madri dovessero stare vicine ai loro bambini per accudirli continuativamente e stabilmente almeno nei primissimi anni di vita, pena la crescita di "una gran quantità di persone disturbate" - i teorici dell'attaccamento hanno ampliato quello che è parso ai più un riferimento troppo angusto alla figura di attaccamento materna, non rispondente peraltro alla sempre più comune molteplicità di relazioni significative solitamente intessute dal bambino già nella prima fase della sua vita. Il costrutto di attaccamenti multipli ha perciò più recentemente integrato quello di attaccamento al caregiver primario. Oggi viene riconosciuto come normalmente il bambino sviluppi già nel primo anno alcune relazioni di attaccamento privilegiate - basti pensare non solo, ovviamente, a quella con il padre, ma anche a quella con i nonni, con le educatrici del nido, eccetera - che modellano la dimensione relazionale della sua crescita.
Cionondimeno, pur all'interno di questo allargamento del costrutto, permane un generale consenso sul concetto di monotropia:la madre biologica viene considerata la figura principale di attaccamento alla luce di un legame gerarchico reciproco, laddove viene a realizzarsi una corrispondenza tra le gerarchie di accudimento (con a capo, solitamente, la madre biologica) e di attaccamento (del bambino alla stessa).
Ricapitolando: a partire dal concepimento, quella dello sviluppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio o una femmina alla vita, legandoli per sempre in modo speciale alla propria madre genetica.
Da 2 a 3, verso la costruzione di un sé morale
Abbiamo visto come, specialmente nelle prime fasi della sua vita, per svilupparsi il bambino abbia bisogno di cure amorevoli e ben sintonizzate che soddisfino la sua "pulsione" relazionale. Tale condizione è necessaria per il suo stesso mantenimento in vita - come testimoniato dalla cosiddetta "depressione anaclitica" in cui la deprivazione prolungata della presenza materna nei primi mesi può comportare depressioni gravi con rifiuto dell'alimentazione ad esito persino fatale. La teoria dell'attaccamento, indicando la validità di diverse figure di caregiving nel garantire al bambino un simile nutrimento relazionale, conferma quanto questi rapporti diadici siano fondanti nel corso del primo anno.
Fin dall'inizio, comunque, il bambino è generalmente inserito all'interno di matrici relazionali molteplici, in cui fa progressivamente esperienza di rapporti non esclusivamente diadici. Più precisamente, a partire dal secondo anno di vita il bambino vive con sempre maggiore consapevolezza la realtà del rapporto con il proprio padre come una realtà a sua volta inserita nella cornice del rapporto tra i suoi due genitori.
Come è noto, Freud (1924-1929) ha descritto la centralità del complesso edipico e del suo tramonto nei termini di un potente processo di organizzazione psichica che fa transitare il bambino verso l'acquisizione di una capacità adulta di tollerare la frustrazione e la ferita narcisistica derivanti dall'impossibilità di possedere l'altro solo per sé. Ad un secolo di distanza, la teorizzazione del complesso di Edipo rimane un architrave della psicologia dei processi intrapsichici e relazionali. Descrivendo con esattezza come, assieme a cure materne amorevoli e continuative, sia parimenti necessario che il bambino faccia esperienze psichicamente dolorose derivanti dall'accettazione del principio di realtà e dalla rinuncia alla pretesa di onnipotenza, il costrutto edipico pone al centro della prima fase prescolare la centralità della dialettica padre-madre (e con il padre e la madre) quale riferimento insostituibile per lo sviluppo dell'identità personale del bambino.
Il "superamento dell'Edipo", quindi, è in Freud reso possibile dalla rinuncia alla pretesa di esclusività nel rapporto con il genitore del proprio sesso attraverso il riconoscimento di limiti necessari alla propria acquisizione desiderante. L'identificazione con il genitore del sesso opposto è il punto di non ritorno del superamento dell'Edipo. Identificazione che costituisce - nei termini freudiani - "il nucleo del Super-io". Non è questa la sede per occuparci degli aspetti controversi del costrutto nel tempo oggetto di critiche e sottoposti a revisione - ad esempio, declinandosi attraverso il noto mito greco, Freud descriveva in modo convincente la dinamica edipica nei maschi lasciando in una maggiore vaghezza la descrizione dell'analogo processo nelle femmine.
Qui interessa ribadire un punto euristicamente centrale della teorizzazione edipica: l'acquisizione della piena competenza relazionale nell'apertura dal diadico al triadico (e quindi al molteplice) passa per la costruzione di un sé morale.Riconoscere ciò che può o non può essere fatto; assumere, dunque, in sé il limite che possa arginare la propria pretesa di onnipotenza, e agire in accordo con i propri standard morali interni; costruire in questo modo una coscienza morale: tutto ciò passa per il processo dell'identificazione con un altro da sé, processo che comporta un notevole costo psichico.
Scriveva Winnicott (1965) che il codice morale degli adulti è necessario, perché umanizza ciò che per il bambino è subumano. Il meccanismo dell'identificazione che rende possibile questa acquisizione è un processo che George Klein (1976) ha efficacemente descritto come "un'inversione di ruolo nel rapporto interpersonale, in cui i valori, le caratteristiche e le modalità dell'altro sono messi in rapporto con il proprio sé, che li fa propri" (p. 276).
Il dolore della rinuncia insito nella trama del conflitto edipico trova sbocco fecondo in quella che potremmo chiamare un'operazione di "antropofagia psichica". Parti dell'altro vengono assimilate nel proprio sé: valori, come pure "caratteristiche e modalità" - non si tratta, cioè, di acquisire indicazioni e norme di comportamento in maniera disincarnata, ma di farlo assumendo in sé elementi identitari dell'altro cedendo parzialmente (e dolorosamente) sovranità psichica. Analogamente alla progressione delle cellule fetali nel corpo materno che trasforma irrevocabilmente la madre facendola divenire altra da sé, il processo di identificazione implica un'alterazione definitiva dell'identità del bambino che assume in parte quella genitoriale. La genitorialità ha due modi di esprimersi: quello materno e quello paterno. Nonostante la crescente enfasi posta dalla psicologia sul costrutto delle "funzioni genitoriali interiorizzate" - con la conseguente implicazione secondo la quale tali funzioni "materne" e "paterne" potrebbero essere assunte e agite in modo indipendente dall'identità biologica del genitore - un figlio maschio o una figlia femmina attraverseranno in modo necessariamente diverso e specifico i passaggi di identificazione con le proprie figure genitoriali, anche in ragione delle specificità legate al funzionamento di personalità maschile e femminile di tutti gli attori coinvolti nel nucleo familiare.
Ricapitolando: a partire dal concepimento, quella dello sviluppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio o una femmina alla vita legandoli per sempre in modo speciale alla propria madre genetica. Il passaggio precoce e necessario verso l'acquisizione della triangolarità relazionale e dello sviluppo del sé morale è caratterizzato dal dolore psichico dell'identificazione.
Il paradosso del bambino di cristallo
Introducendo queste riflessioni sul maschile e il femminile nella psicologia dello sviluppo, facevo notare che lo "spirito del tempo" sembra promuovere tanto a partire da un'ottica specialistica quanto nel comune sentire una lettura del bambino come essenzialmente bisognoso di cure amorevoli e sintonizzate. Se siamo il frutto delle nostre esperienze ambientali di relazione, sembra essere il pensiero, ciò che va garantito al bambino per un sano sviluppo è l'insieme di quelle condizioni che abbiamo descritto in precedenza come caratterizzanti i primi mesi di vita - un caregiver affettuoso e presente, e il pronto soddisfacimento delle sue esigenze. La genitorialità di cui ha bisogno un simile bambino coincide di fatto tout court con quella materna, ancor meglio con la genitorialità soffice, accogliente e sempre disponibile che la mamma esprime con il suo neonato (il neologismo "mammo", imperante da oramai quasi un ventennio, descrive perfettamente la tendenza a schiacciare il ruolo paterno su quello materno così da mettere al riparo il bambino da eventuali ruvidezze maschili traumatizzanti).
La nostra epoca, quindi, ritiene il bambino troppo fragile perché possa affrontare esperienze conflittuali e psichicamente dolorose senza andare in pezzi.
Come siamo arrivati a questa distorsione?
Da almeno tre secoli la società occidentale appare attraversata da una vera e propria "sindrome del bambino di cristallo". A partire da quella che comunemente viene indicata come rivoluzione borghese del XVIII secolo, i ruoli familiari - in particolare quello materno - sono stati profondamente ridisegnati. Riferendosi alla società europea di allora, Kagan (1998) sottolinea come "l'idea diffusa che alcuni comportamenti genitoriali garantissero lo sviluppo di tratti del carattere necessari per il successo futuro, e dunque proteggessero la famiglia dalla discesa nella scala sociale, fu tradotta razionalmente in procedure rituali che allontanavano la preoccupazione. Ma questo significava che anche l'ipotesi complementare doveva essere vera: se le madri non accudivano i bambini piccoli in modo adeguato, questi sarebbero potuti diventare deboli di mente e di animo selvaggio" (p. 115).
L'autore rintraccia all'interno di questo passaggio storico la nascita di un diffuso "fascino del determinismo della prima infanzia": una fede profonda nella continuità tra presente e passato (si veda il costrutto equivalente di "periodi critici nello sviluppo" in psicologia) che genera una convinzione radicata circa il potere assoluto dei primi anni di vita nello sviluppo psicologico. In questi primi anni diverrebbe cruciale che il genitore fornisca stimolazioni ed opportunità appropriate, pena la perdita definitiva della possibilità di crescita ed arricchimento del bambino, se non addirittura la presenza di danni irreversibili. Basta semplicemente richiamare il dato del crollo dell'indice di natalità nella società occidentale - nel 1946 in Italia una donna aveva mediamente 3 figli, a fronte dell'1,4 odierno - per comprendere come l'investimento "ossessivo" sul (prevalente) unico figlio sia divenuto sempre più caratterizzante la vita delle famiglie. Nella nostra società è in costante crescita il numero di madri che hanno trascorso una parte cospicua della loro gravidanza leggendo fiabe o ascoltando musica classica con il proprio nascituro; di padri che si preparano - con malcelata serenità - ad assistere al parto della propria compagna, certi degli effetti benefici che questa ne deriverà, e con lei il bambino; di genitori preoccupati perché il proprio piccolo non sembra ancora lallare ai 6 mesi o gattonare ben prima dell'anno. "Se la futura felicità, le doti naturali e il successo si formano nei primi anni di vita, e se l'attenzione premurosa a questo stadio garantisce gioie future, allora i genitori che compiono coscienziosamente i loro doveri nell'educazione dei figli hanno meno motivi per essere apprensivi" (Kagan, 1998, p. 116): fare tutto, farlo al più presto, e farlo al meglio per il proprio bambino alimenta e al contempo tenta di placare un'ansia dilagante.
Nonostante la psicologia e la psicopatologia dello sviluppo descrivano oramai da decenni le caratteristiche di un bambino competente e resiliente,il modello di bambino che sembra ancora largamente prevalente nelle aspettative dei neogenitori è perciò quello "fragile". Il destino di un simile bambino si giocherebbe nell'arco di pochissimi anni e parrebbe necessitare, ai fini di un sano sviluppo, non più del winnicottiano genitore sufficientemente buono, bensì di un irrealistico genitore caldo e protettivo.
Un bambino che ha solo bisogno di mamme è un bambino che non necessita di un codice morale umanizzante - per lui non è neanche necessario amore materno, essendo bastevole "un amore di tipo materno". Questo bambino buono e fragile può essere cresciuto, in ultima analisi, da chiunque se ne prenda cura fornendogli vicinanza e calore umano.
Concludendo: a partire dal concepimento, quella dello sviluppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio o una femmina alla vita legandoli per sempre in modo speciale alla propria madre genetica. Il passaggio precoce e necessario verso l'acquisizione della triangolarità relazionale e dello sviluppo del sé morale è caratterizzato dal dolore psichico dell'identificazione. La nostra società tende a negare tale cornice di riferimento dello sviluppo infantile, in favore di un modello dello sviluppo al cui centro è il "bambino di cristallo" e la conseguente necessità di proteggerlo amorevolmente.
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