Un'introduzione al mondo islamico sciita, di Pejman Abdolmohammadi
Riprendiamo dal sito della rivista Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, http://www.juragentium.org/topics/islam/it/iran.htm un articolo di Pejman Abdolmohammadi pubblicato nel 2008. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2015)
Una serie di avvenimenti e di circostanze verificatesi negli ultimi tempi, come la caduta del governo iracheno di Saddam Hossein, e il conseguente innescarsi di una logorante guerra civile all'interno del paese, unitamente all'influenza esercitata da Hezbollah nel Libano, e all'aggravarsi della crisi iraniana, concernente la questione nucleare, hanno conferito al mondo islamico sciita un ruolo di primo piano nello scacchiere mediorientale. Pare pertanto essenziale, nella prospettiva della configurazione di nuovi scenari in questa tormentata area del globo, la comprensione di questa parte di mondo islamico, per conseguire la quale si pone la necessità di uno studio accurato dei diversi mondi culturali che si agitano all'interno del mondo sciita.
I sunniti e gli sciiti
I sunniti e gli sciiti sono le due più grandi ramificazioni della comunità islamica; nel corso di tredici secoli di storia musulmana i sunniti sono sempre stati in maggioranza, mentre gli sciiti hanno avuto un ruolo minoritario sia religiosamente che politicamente[1]. Ancora oggi nel mondo islamico circa il novanta per cento dei musulmani sono sunniti, mentre gli sciiti sono circa il dieci per cento e si trovano per la maggior parte in Iran, Iraq e nel sud del Libano. E pur considerando l'alto numero di sciiti arabi e indo-pakistani è da rilevare come i persiani formino sempre il gruppo più imponente dell'Islam sciita[2]. "Per capire i rispettivi punti di vista è necessario dedicare una certa attenzione alla storia religiosa dell'Islam, allo sviluppo di queste sue due dimensioni, alla loro matrice comune e agli sviluppi della loro storia. Da un punto di vista esteriore, la differenza fra Sunnah e Sci'a riguarda il problema del successore del Profeta come capo della comunità dopo la sua morte. Si può dire, quindi, che le due scuole hanno avuto inizio, come entità separate, quando Mohammad (nel 632 d.C.) concluse la sua vita terrena, poiché fu proprio in quel momento che sorse una divergenza d'opinione circa il suo successore"[3].
Subito dopo la morte del Profeta la maggior parte dei credenti riteneva che egli non avesse designato alcun successore e che fosse compito della comunità islamica eleggerlo, mentre una minoranza sosteneva che Mohammad avesse già designato il suo successore nella persona di Alì, suo cugino e genero. Il primo gruppo, seguendo le regole dei costumi tribali, affidò l'elezione ad un'assemblea dei saggi, che designò Abu Bakr[4], con il titolo di "primo califfo" (Khalifah). Mentre questo avveniva, il secondo gruppo, minoritario, continuava a sostenere Alì, ritenendo illegittima l'elezione del nuovo Califfo e considerando Abu-Bakr un usurpatore del diritto di Alì[5].
Questo momento segna l'inizio della scissione nell'Islam, una scissione che persiste fino ai giorni nostri. Coloro che avevano considerato giusta e corretta l'elezione del primo califfo vennero chiamati "sunniti" per la grande importanza da loro attribuita alla Sunna, la Tradizione del profeta. Gli oppositori dei sunniti, avversi alle elezioni del califfo e seguaci invece del genero del Profeta, Alì, furono conosciuti come "Sciiti": la parola sci'a significa "fazione", "partito" e fu impiegata per connotare questo gruppo in quanto coloro che sostenevano e spalleggiavano Alì venivano chiamati Shi'atul Ali che significa "il partito di Alì"[6].
La differenza basilare del mondo sunnita da quello sciita risiede nella definizione dei poteri attribuiti al successore del profeta: secondo l'Islam sunnita il califfo (in arabo khalifah) è il successore del profeta ed il capo della comunità e suo difensore; egli viene considerato come il guardiano della shari'ah, ma il suo compito non è quello di interpretare la legge divina e definire le questioni religiose in generale, bensì di amministrare la legge ed esercitare funzioni di giudice. Di conseguenza il califfo non ha uno status di autorità religiosa per la comunità; egli gode soltanto del potere temporale e non di quello spirituale; non è considerato né impeccabile né infallibile e la sua parola non è dogma di fede. Per gli sciiti, invece, il successore del profeta e come tale il capo della comunità islamica non è il califfo, ma l'Imam[7].
La figura dell'Imam e l'Imamato
Il governo fondato sulla religione è tenuto, secondo la tradizione sciita, a preservare nell'ambito della comunità il vero ordine islamico, in modo che l'uomo non adori altri che Allah, fruisca di libertà individuale e sociale nell'ambito delle sue possibilità e goda della giustizia, sia individuale che sociale. Sempre nella dottrina sciita, tali finalità possono essere conseguite solamente da un individuo infallibile e protetto da Allah contro la possibilità di errare; questo individuo è chiamato dagli sciiti "l'Imam". Proprio per questo la sci'a ritenne che dopo il profeta la comunità necessitasse della figura impeccabile dell'Imam e che questa figura fosse stata designata dallo stesso Mohammad prima della sua morte, durante il suo ultimo pellegrinaggio[8].
Generalmente con il termine Imam s'intende la persona che "sta davanti", ossia chi dirige la preghiera pubblica e collettiva del venerdì, ma il termine viene usato anche per il caposcuola di un indirizzo giuridico. È in questo senso che il vocabolo è normalmente usato nel linguaggio comune della Sunnah e anche della Sci'a. Esso ha poi anche un significato onorifico, qualificando la persona che è a capo della comunità religiosa[9]. Scrive Nasr: "Nella Sci'a, l'Imam assume valori specifici, infatti per Imam s'intende quella persona che è il vero capo della comunità, e più particolarmente l'erede degli insegnamenti esoterici del Profeta. Egli è il difensore e l'interprete per eccellenza della rivelazione; il suo compito è triplice: a) deve governare la comunità musulmana come rappresentante del Profeta, b) deve interpretare i testi religiosi e la legge, cogliere soprattutto il loro significato interiore, e, infine, c) deve guidare gli uomini nella vita spirituale"[10].
In altri termini, "l'Imam è colui che guida la comunità islamica negli affari sociali, politici, materiali e spirituali secondo l'ordine divino e tutti i musulmani lo seguono come una guida saggia e suprema"[11]; per questo l'Imam deve godere dell'Isma (in arabo "immunità dall'errore") che gli viene concessa soltanto per volontà divina. L'imamato viene ad essere considerato un'istituzione d'origine divina, in quanto continuazione della missione del profeta. Tale istituzione, dopo la morte di Mohammad, inizia con la figura di Alì considerato il primo Imam dagli sciiti. Il suo diritto sarebbe comprovato dal fatto di essere consanguineo del Profeta e da quello di avere come sposa la figlia prediletta di Mohammad, Fatemeh. L'imamato viene trasmesso per via ereditaria, di padre in figlio, e contiene il diritto alla guida non solo temporale ma anche spirituale di tutto l'Islam. Secondo la dottrina sciita gli Imam si succedono come portatori della luce eterna di Dio (nur-oll-Allah), in una catena ininterrotta che sostiene il mondo, il quale crollerebbe se uno soltanto degli Imam venisse a mancare senza aver trasferito la funzione di guida al suo successore; per questo la terra non può mai restare priva della presenza di un Imam, sia pure nascosto o ignoto; di conseguenza, una volta che il Profeta dell'Islam ebbe lasciato il mondo, era l'Imam che, con la sua continua presenza, sosteneva e difendeva la religione nel corso del tempo[12].
Un accenno alla storia della Sci'a
Com'è stato in parte già rilevato, fin dalla morte del Profeta gli sciiti hanno iniziato la loro storia in una condizione di minoranza rispetto ai sunniti. La loro ideologia poté trovare attuazione soltanto dopo i primi tre califfi, con il califfato di Alì (il primo Imam), che riuscì a governare, malgrado numerose difficoltà causate dalle guerre civili, per circa quattro anni e nove mesi. La forma di Stato realizzata da Alì ed il suo modo di amministrare sono tuttora percepiti come grandi ideali da realizzare per i credenti sciiti[13]. Dopo la morte di Alì, il periodo più arduo per l'esistenza della sci'a si identifica con i vent'anni del califfato di Muawiya[14]. In quel periodo, gli sciiti (conosciuti al tempo come gli alidi) erano privi d'ogni minima protezione ed un semplice sospetto era sufficiente a farli condannare all'esilio. La guida degli alidi del tempo, l'Imam Hossein (terzo Imam e secondogenito di Alì), sebbene nipote del Profeta, non fu in alcun modo in grado di mutare le avverse circostanze né di evitare le persecuzioni contro la sci'a[15].
Il terzo Imam della sci'a (Hossein) riaprì il conflitto con il potere omayyade. Egli risiedeva a Medina ma la base della sua sci'a era situata a Kufa[16] e proprio da Kufa provenivano sollecitazioni e profferte di appoggio perché l'Imam scendesse in armi e si ribellasse contro il califfato di Yazid (figlio di Muawiya) ritenuto usurpatore e addirittura traditore della sharia da parte degli sciiti. Ciò avverrà ma, nel momento dell'azione, i kufioti non saranno a fianco del loro paladino, nel timore di compromettersi senza garanzia di risultati; di conseguenza a Karbala[17] si svolgerà lo scontro fra l'Imam Hossein e Yazid, che porterà alla definitiva vittoria omayade e al massacro di Hossein con la sua famiglia e i suoi compagni[18]. Il significato assunto da questa tragedia sul piano simbolico e culturale va oltre il mero fatto e le sue immediate conseguenze storiche: lo scontro fu considerato un atto eroico dell'Imam che, essendo stato tradito dai suoi sostenitori, si era battuto contro l'ingiustizia di Yazid con un esercito ridotto a sole settantadue persone tra cui la sua stessa famiglia, e proprio per questa dimensione sacrificale alcuni autori considerano che lo sciismo trovi nel caso di Hossein un momento paragonabile per certi aspetti alla via crucis[19].
Il ricordo della tragedia di Karbala è rimasto nella letteratura e nelle feste popolari celebrate in terra sciita. Sul piano religioso, l'impatto della morte di Hossein è superiore a quello della morte di suo padre Alì. "La tragedia viene rivissuta da tutto il corpo sciita e l'anniversario celebrato per dieci giorni (la prima decade di muharram); con differenziazioni secondo i paesi, durante queste celebrazioni si danno vere e proprie rappresentazioni sacre (sembra potersi far risalire alla fine del XVIII secolo l'introduzione dei drammi sacri), letture di commemorazione e un complesso di cerimonie di lutto e di pianto funebre. La riflessione e l'elaborazione dei fatti di Karbala ha così dato origine a un filone di pensiero che rivaluta il dolore, la sofferenza e la sconfitta, considerati come elementi religiosamente positivi"[20].
La vicenda di Hossein introdusse due importanti dimensioni etiche nel mondo sciita: Il culto del martirio (shahadat) e la disponibilità al sacrificio della propria vita per il bene collettivo; il dovere di opporsi al tiranno e all'ingiustizia, non per interesse personale ma per il bene della collettività[21].
Dopo quest'episodio la sci'a rimase in minoranza e fu oggetto di persecuzioni fino all'XI e XII sec. d.C., finché, con l'avvento della dinastia ismailita dei Fatimidi in Egitto, si crearono condizioni che facilitarono e incrementarono la sci'a. Durante questo periodo, la sci'a si espanse in modo costante e in diverse località esponenti sciiti assunsero cariche di governo, che consentirono loro di propagarla e diffonderla. Con la caduta dei Fatimidi, però, la scena politica fu di nuovo rivoluzionata a svantaggio degli sciiti fino al XVI sec. d.C.[22]
Fu in quel momento che in Persia salì al potere una dinastia, chiamata safavida, che fondava un governo unitario adottando la sci'a quale confessione ufficiale. Da quel momento in poi e per la prima volta nella sua storia, la sci'a veniva rappresentata da uno stato sovrano, cioè la Persia, che si poneva in competizione con l'Impero ottomano, allora rappresentante dei sunniti. Negli ultimi tre secoli, la sci'a ha continuato a crescere soprattutto in Iran, Iraq e Yemen, aree dove ancora oggi giorno si trova la maggior parte degli sciiti. Il culmine della sua influenza nel mondo musulmano si è manifestato con la rivoluzione iraniana del 1979, sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini che ha creato in Iran la prima "Repubblica Islamica", la cui Costituzione è basata sulla sharia islamica secondo la scuola giuridica duodecimana.
Le principali divisioni della sci'a
Il mondo sciita è oggi articolato in tre grandi filoni: zaydita, ismaìlita, duodecimano, o imamita. Il nucleo fondamentale della sci'a, sia per numero dei fedeli sia per la posizione centrale che occupa nella gamma religiosa tradizionale e sulla scena politica attuale, è quello duodecimano, o imamita; vi è poi la sci'a dei Sette Imam, o Ismaìlita, e la sci'a dei CinqueImam, o zaydita[23].
La sci'a zaydita
"Gli zayditi sono seguaci di Zayd Ibn 'Alì, figlio del quarto Imam degli sciiti. Egli insorse nel 737 d.C. contro il Califfo ommiade Hisham ben Abdu'l Malik ed una fazione degli sciiti gli giurò alleanza. Ne nacque una guerra a Kufa fra gli zayditi e il califfo, nel corso della quale Zayd fu martirizzato. In seguito a lui anche suo figlio Yahya continuò la rivolta contro la dinastia ommiade ma dopo tre anni di insurrezione fu ucciso in uno degli scontri"[24]. Secondo il punto di vista zaydita qualsiasi discendente di Fatemeh (la figlia del profeta e moglie del primoImam Alì) che sollevi una rivolta in nome della difesa della giustizia e della verità può divenire legittimo Imam, se conoscitore delle scienze religiose, coraggioso e generoso[25]. In altri termini, circa la questione dei requisiti dell'Imam, secondo l'orientamento zaydita la discendenza di Alì è considerata non solo importante, bensì
indispensabile, ma la regola rigida della trasmissione di padre in figlio è valida solo fino al quinto Imam (Zayd), dopodiché la designazione dell'Imam spetta alla comunità, che può scegliere l'Imam da designare alla propria guida, sia pure nel rispetto della regola della discendenza[26].
Gli zayditi sono considerati come l'ala moderata degli sciiti, in quanto concedono ben poco alla sacralizzazione della figura dell'Imam. Secondo il pensiero zaydita, l'Imam deve essere presente fisicamente nella comunità e difendere i diritti del popolo, se necessario ricorrendo alla spada, e non possono essere prese in considerazione figure come un Imam occulto che un giorno tornerà a salvare la terra, quali sono invece accolte da altri orientamenti dello sciismo. Le aree islamiche in cui il movimento raggiunse maggiori successi furono le aree del Caspio e lo Yemen, che ancor oggi viene considerato la base principale degli zayditi[27].
La sci'a ismailita
L'origine dell'ismailismo è un fatto squisitamente religioso che risale all'VIII secolo d.C., quando la scena sciita viene occupata da uno dei personaggi più significativi della sua storia, Jafar al-Sadiq. Egli è considerato dai sunniti soltanto un mistico, mentre nel mondo sciita, eccetto che per gli zayditi, Jafar al-Sadiq riveste il ruolo di sesto Imam: egli fu un giurista originale e può essere considerato il fondatore della scuola giuridica sciita. La disputa che diede origine all'ismailismo si fondò appunto sul riconoscimento del successore del sesto Imam Jafar al-Sadiq. Gli ismailiti sostenevano che il primogenito del sesto Imam, di nome Ismail, fosse il successore legittimo di Jafar al-Sadiq mentre il principale gruppo degli sciiti (gli imamiti) sosteneva un altro suo figlio, di nome Musa[28].
Gli Ismailiti ritengono che la terra non possa sussistere senza un garante di Allah, conosciuto in arabo come hujjah. Il garante può essere di due specie: parlante (in arabo: natiq) o silente (in arabo: samit). Il garante parlante è il profeta, mentre quello silente è l'Imam o l'erede o l'esecutore testamentario di un profeta. Il garante è considerato in perfetta epifania divina e la sua figura viene vista quasi all'altezza di Dio[29].
Il principio del garante di Dio ruota attorno al numero sette (per questo gli ismailiti vengono denominati anche come gli sciiti dei sette Imam). Il Profeta, l'inviato da Dio, riveste la funzione del magistero (in arabo: nubuwwah) in quanto apportatore della legislazione (la Sharia). Dopo di lui sorgono sette esecutori testamentari (in arabo: wasi) che adempiono l'esecuzione del suo lascito. Il ciclo dei sette esecutori viene ripetuto ed inizia daccapo con la profezia dell'erede: infatti, il settimo dei successori ricopre sia la funzione dell'Imam sia quella della profezia. Secondo la dottrina ismailita, ai primi sette Imam succedono i sette Califfi fatimidi[30] d'Egitto, considerando il fondatore della dinastia fatimida come il Mahdi scomparso che ritornò per la gloria del mondo[31].
L'ismailismo costruisce una concezione ciclica, imperniata sull'alternarsi di momenti di manifestazione e momenti d'occultamento, superando così l'impasse della continuità temporale[32]. Come si noterà, anche nella concezione degli sciiti imamiti il concetto della "scomparsa" (in arabo ghayba) collegato, come premessa necessaria, a quello del "ritorno" (in arabo rig'a), è diventato una parte fondamentale del patrimonio teologico della sci'a, manifestandosi in modo particolare presso gli ismailiti e gli imamiti (o duodecimani). Oggigiorno gli ismailiti sono costituti da numerose piccole comunità e non superano nel complesso la cifra di alcune centinaia di migliaia di persone.
La sci'a duodecimana (o imamita)
La Sci'a duodecimana (in arabo: ithna ashari) detta anche imamita, costituisce oggi la maggioranza del mondo sciita, e si concentra in Iraq, Iran e in parte anche in Libano. Gli imamiti affermano che la guida del mondo islamico, dal punto di vista sia spirituale, sia temporale, è prerogativa di Alì e dei suoi discendenti. Essi credono altresì che, in base all'esplicita designazione del Profeta, gli Imam della Casa Mohammadiana (in arabo: ahl al bait[33]) siano in numero di dodici[34]. La Sci'a duodecimana ritiene che il dodicesimo Imam, conosciuto come il Mahdi ("l'atteso" o "il ben guidato") sia entrato in occultamento, ossia scomparso (in arabo ghayba), nel 941 d.C. e che in un futuro egli comparirà nuovamente sulla terra restaurando la religione e la giustizia, che rigenererà prima della fine del mondo[35].
"L'atteso" è inoltre considerato dall'ortodossia sciita non semplicemente "presente in spirito", ma vivo e vegeto, solo nascosto, sulla terra, miracolosamente longevo e si ritiene che tornerà ad apparire, senza esser mai morto, alla fine dei tempi. L'Imam occulto viene definito "l'Imam del Tempo" o il "signore dell'èra presente" (in arabo sahibu'z-zaman). È convinzione sciita che la comunità musulmana e il mondo stesso non potrebbero sussistere senza un sempre vivo e attivo Imam. Solo che, in occultamento (salvo, a volte, per qualche misteriosa manifestazione dei suoi voleri), l'Imam fa conoscere la sua volontà con altri mezzi e, di fatto, la direzione spirituale e temporale della comunità è in mano ai dotti mojtahed e alle autorità politiche"[36].
Fig. 1 [37]. L'albero genealogico della famiglia del Profeta, Mohammad[38]
La vita intellettuale della Sci'a duodecimana
Per quanto riguarda la vita intellettuale della Sci'a dei Dodici Imam, essa viene divisa per praticità in tre periodi:
1) Il periodo dei dodici Imam
Il primo periodo, quello del Profeta e degli Imam, si estende dal tempo della vita del Profeta al "grande occultamento" (al-ghaybat al-kubra) del dodicesimo Imam, il Mahdi, nell'anno 329 dell'era islamica (941 d.C.). Durante questo periodo, unico nella storia della Sci'a, il Profeta e i successivi Imam vivevano tra gli uomini, istruendoli circa il significato della legge divina e nelle scienze esoteriche. Sulla sapienza e sull'esperienza di questo periodo poggia tutta la vita spirituale e religiosa della Sci'a. In altri termini, il primo periodo consiste nella rivelazione della legge divina tramite il Profeta e gli Imam[39]. "È in questo periodo che venne fondata la scuola giuridica duodecimana dal sesto Imam Jafar- al-Sadeq (705-770 d.C.). Egli è considerato, nel mondo islamico, l'iniziatore delle scienze occulte, in particolare dell'alchimia. Alcuni storici dello sciismo, quali Hussain Jafri[40] e Wilferd Madelung, ritengono che Jafar-al-Sadeq[41] abbia elaborato una dottrina fondamentale dello sciismo duodecimano. Tale dottrina dà fondamento alla designazione formale ed esplicita dell'Imam da parte del suo predecessore, designazione che proviene dalla volontà divina. Infine, fu all'epoca di Jafar-al-Sadeq, che, nei circoli sciiti, fu sviluppato il concetto di taqiyya, che autorizza il credente a dissimulare la propria vera fede quando si trova in pericolo"[42].
2) Il periodo della fioritura intellettuale
Il secondo periodo si estende dall'epoca dell'occultamento del Mahdi fino alla fondazione del Impero safavide nel 1501 d.C. Esso fu caratterizzato dalla redazione di autorevoli collezioni di hadith[43] e di dottrina religiosa, che costituiscono la sostanza della corrente filosofica sciita imamita. Le prime grandi opere di quest'epoca iniziano con il volume Usul al-kafi (I princípi di Kafi), scritto da Kulaini (939 d.C.), che rappresenta la più notevole compilazione delle tradizioni degli Imam sciiti. In seguito Sayyid Sharif al-Radi (1082 d. C.), un altro studioso, raccolse i detti del primo Imam Alì in un volume conosciuto come Nahj al-balaghah, che dopo il Corano e gli hadith profetici è il più importante testo della Sci'a e fonte del figh islamico[44]. Inoltre, con la figura di Khajeh Nasir al-Din Tusi (1201-1274), considerato un formidabile genio, eccezionale matematico, astronomo, filosofo, la dottrina sciita raggiunge il suo apogeo. Egli scrisse due volumi, aventi ad oggetto lo studio del figh e dell'ijtihad[45], che furono considerati di fondamentale importanza da parte degli olama sciiti per almeno un secolo dopo la sua morte[46]. Oltre alle personalità sopraccitate, il teologo Sheikhe Mofid (960 - 1022 d. C.) e il filosofo Allameh Helli (1325) hanno svolto un ruolo importante nell'elaborazione della tradizione della sci'a duodecimana.
3) Il periodo dell'Impero Safavide
"L'elemento caratterizzante dell'era safavide va piuttosto ricercato nel risorgimento nazionale del concetto di Iran, e quindi nella formazione di uno Stato che grosso modo corrisponde ancor oggi alla "moderna" nazione persiana, connotato fin dal principio da una sua caratterizzazione religiosa specifica - quella sciita duodecimana - e in netta contrapposizione con altri grandi Stati che caratterizzeranno il mondo islamico orientale sino ad epoche molto recenti, a iniziare a Occidente con l'impero ottomano, sino a Oriente, dove gli Uzbechi in Transoxiana e i Moghul in India produssero anch'essi questa "definitiva" delimitazione del proprio ambito "nazionale"[47].
Questo periodo è considerato fondamentale nella storia della sci'a e i modelli politici da esso ricavabili influenzarono grandemente il pensiero politico dell'Ayatollah Khomeini e il suo progetto di Repubblica Islamica dell'Iran. Il Cinquecento segna un mutamento sostanziale per l'Iran. Si impose nei primi anni del secolo una dinastia turca dell'Azarbaigian (una regione allora appartenente alla Persia), i cui capi appartenevano a una confraternita di tendenze mistiche da loro stessi creata, la "Safawiyye", la cui ideologia religiosa deve molto a una forma di sci'ismo estremizzante diffuso nelle regioni al confine con la Siria e intorno al lago di Van. Nel 1501 uno dei capi safawi, turco ma di probabile origine curda[48], Esmaìl (sedicenne) prende il potere in Persia, fondando la dinastia Safavide. La presa del potere da parte di Esmaìl (il primo Shah safavide) segna una svolta storica sia per la Sci'a sia per l'Iran[49].
I safavidi proclamarono la Sci'a come religione ufficiale della Persia, obbligando i numerosi sunniti persiani a farla propria: questi vennero infatti costretti a maledire i nomi dei primi tre califfi e ad accettare Alì come unica e vera guida dell'Islam dopo il Profeta. La loro intransigenza religiosa fu coronata da un tale successo che in Persia la corrente sunnita passò dal costituire la maggioranza ad una condizione di ristrettissima minoranza[50]. La Persia, con la sua completa "sci'itizzazione", separava i sunniti dell'Asia Centrale, dell'India e dell'Afghanistan da quelli della Turchia, dell'Iraq e dell'Egitto (in quel tempo sotto la sovranità dell'Impero Ottomano). Ciò irritava gli ottomani, che vedevano nella Persia sciita safavide un nuovo rivale politico ed ideologico[51].
Tutto ciò rappresentò una grande novità nella storia dell'Islam e particolarmente nella storia della sci'a. Prima dell'avvento al potere della dinastia safavide, infatti, la Sci'a era stata portatrice di un messaggio mistico e sofisticato, basato sulla teoria quietista, in contraddizione con l'idea di uno stato islamico (din va daula), in quanto solo il dodicesimo Imam (il Mahdi) avrebbe potuto detenere legittimamente il potere sovrano. I fedeli avrebbero dovuto semplicemente attendere il momento in cui il dodicesimo Imam sarebbe tornato a portare pace e giustizia su tutta la terra[52].
Le innovazioni religiose sciite
Con Esmail nasceva un regno in cui lo sciismo veniva utilizzato come ideologia politica in contrapposizione all'impero ottomano sunnita. In altri termini lo sci'ismo, che era sempre stato un movimento di opposizione, si era trasformato in istituzione politica: questo fu l'inizio di una nuova sci'a, talmente diversa dalla precedente che in seguito venne anche denominata "la sci'a safavide", per differenziarla dalla fase anteriore, la "sci'a alavide"[53]. Il potere si concentrò soprattutto nella figura del capo dello stato (lo Shah), considerato al tempo stesso discendente dei primi Imam e "l'ombra di Dio sulla terra". Lo Shah acquisiva una posizione di gran rilievo e, attraverso la dottrina sciita, si giunse a giustificarne l'onnipotenza e l'infallibilità, al punto che Esmaìl, autore di poesie religiose, si autoproclamava "Dio" nelle sue composizioni.
I safavidi dovettero affrontare il problema di organizzare una classe di scienziati religiosi sciiti dato che in Persia - paese fino ad allora di tradizione sunnita - non esistevano ulama sci'iti in possesso della preparazione e della competenza necessarie a consolidare il nuovo sistema della "Sci'a Safavide". Per questo Esmaìl chiamò degli ulama arabi, provenienti soprattutto dalla Siria meridionale e dal Bahrein, per completare l'opera di sci'itizzazione del Paese. Si formò così una categoria di specialisti sciiti del Corano, che nelle loro madrasa (scuole religiose) divennero i protagonisti dell'insegnamento e dell'amministrazione della giustizia in tutto l'Iran. Anche se essi non si fecero coinvolgere direttamente nell'azione di governo, la loro posizione era di assoluto rilievo: secondo l'ideologia sciita imamita, infatti, gli ulama (e non lo shah) sono i legittimi detentori dell'autorità religiosa[54]. Tuttavia, durante i duecento anni di dominio safavide questa sorta di clero non riuscì a diventare l'autorità religiosa più importante dell'Iran. La forma di governo dei safavidi era, infatti di tipo "cesaropapista" poiché il sovrano deteneva sia il potere temporale sia quello religioso. I monarchi safavidi si consideravano discendenti degli Imam e quindi rappresentanti legittimi dell'Imam "nascosto". Essi avevano il pieno controllo economico e politico del clero, in modo tale che i mollah non avevano un'autonomia finanziaria per le attività socio-religiose. L'ostacolo maggiore all'ascesa al potere del clero erano, dunque, gli stessi Shah safavidi, i quali avevano creato il clero al solo scopo di legittimare il proprio potere attraverso lo sciismo duodecimano, considerato in primo luogo come un'ideologia politica[55].
Col passare del tempo questa posizione rese gli ulama iraniani sempre più autorevoli e all'inizio del Settecento, quando la dinastia safavide iniziò a declinare, essi poterono diventare l'autorità religiosa suprema del Paese, approfittando del vuoto di potere venutosi a determinare. Gli ulama sciiti imposero una nuova linea dottrinale e ideologica che, mentre svalutava l'importanza del ragionamento indipendente e dell'innovazione nel campo dell'interpretazione della shari'a, introduceva nuovi riti e dogmi religiosi, dando vita ad una religione basata sul rispetto dell'autorità degli specialisti del Corano, considerati persone circondate da un'aura di sacralità, da rispettare ed imitare.
La teoria della Sci'a safavide e della Sci'a alavide
A metà del ventesimo secolo, un islamologo e sociologo iraniano, considerato uno dei maggiori promotori della rivoluzione islamica iraniana del 1979, il dott. Ali Shariati[56], pubblicò un volume intitolato La Sci'a Safavide e la Sci'a Alavide. In questo libro egli suddivide la Sci'a imamita in due momenti storici, corrispondenti a due correnti di pensiero opposte. Il primo filone (la Sci'a Alavide) avrebbe avuto inizio con la figura di Alì e sarebbe continuato per sette secoli fino all'apparizione dell'Impero Safavide, mentre il secondo (la Sci'a Safavide), sarebbe cominciato con i safavidi nel 1501, proseguendo fino ai giorni nostri. Secondo Shariati, la Sci'a alavide sarebbe stata un movimento puro e autentico, basato su uno spirito rivoluzionario e liberale, tendente alla giustizia e a sradicare la tirannide, l'ignoranza e la povertà. Proprio per questo essa viene definita come la Sci'a rossa, i cui pilastri sono il martirio, la riflessione sul Corano, sulla Sunna e sull'esempio degli Imam[57].
D'altro lato Shariati considera l'avvento della dinastia safavide come la fine della Sci'a da lui considerata autentica e pura e l'inizio di un sistema del tutto divergente dai principi espressi da Alì e dai suoi discendenti. Secondo l'autore, la Sci'a safavide fu espressione di opportunismo teologico e politico, poiché divenne un'istituzione conservatrice col solo obiettivo di consolidare il potere dei regnanti. Per questo essa è da lui presentata come "Sci'a nera", basata sul lutto (in quanto valorizzava in forme estreme le commemorazioni funebri, in modo tale da far divenire il pianto e la tristezza valori positivi nella comunità) e su una cultura di adorazione cieca degli Imam, senza permettere ai credenti di conoscere direttamente il loro pensiero e i loro insegnamenti. Sempre secondo Shariati, gli ulama della Sci'a safavide per opportunismo e brama di potere, sarebbero riusciti a manipolare addirittura la legge islamica; fu proprio in tale periodo che per la prima volta gli ulama safavidi diedero origine ad una sorta di clero nel mondo islamico, istituendo così nella struttura sociale iraniana una nuova classe di potere[58]. Shariati, infine, definisce così le differenze essenziali tra la Sci'a alavide e quella safavide:
La sci'a alavide è quella dell'unità
La sci'a safavide è quella della divisione
La sci'a alavide è quella della tradizione
La sci'a safavide è quella dell'apparenza
La sci'a alavide è quella della libertà
La sci'a safavide è quella dell'obbedienza
La sci'a alavide è quella dell'unità
La sci'a safavide è quella dell'ateismo[59].
La nuova vita politica e religiosa della Sci'a
Nel corso dei tre secoli successivi il clero iraniano mantenne il suo potere sociale e culturale, accrescendolo gradualmente fino ad assumere direttamente il potere politico nella Repubblica islamica dell'Iran. Per la seconda volta dopo l'Impero Safavide, si è instaurato in Iran uno stato basato sulla sci'a duodecimana. L'introduzione del corpo dei dotti e dei giurisperiti imamiti in Persia e la devozione dell'Impero Safavide verso la sci'a duodecimana davano il via ad un processo che portava il jafarismo[60] a proporsi come la quinta scuola dell'Islam, accanto alle quattro scuole sunnite già esistenti[61].
Tuttavia avrà presto inizio all'interno del sistema (madhhab) jafarita una suddivisione tra un gruppo conosciuto come "Akhbari" (tradizionalisti) ed un secondo gruppo denominato "Usuli" (razionalisti). Sul piano dottrinale, la disputa tra akhbari e usuli impegna per circa un secolo (1810-1910) le nuove élites religiose sciite dell'Iraq (concentrate soprattutto nella città santa di Najaf) e dell'Iran (concentrate soprattutto nella città santa di Qom[62]). L'usulismo, che poneva il razionalismo come strumento prioritario nell'interpretazione della legge, uscì vincitore e divenne la scuola di pensiero imperante in Iraq, mentre l'akhbarismo, che si basava sulla concezione tradizionalista dell'interpretazione della legge affidata all'Imam o, in sua assenza, almojtahed, acquistò potere e stabilità in Iran[63]. Con l'akhbarismo si formò una scuola di pensiero che considerava il credente un imitatore perfetto dell'Imam e dei mojtahed, in altri termini colui che segue la sua guida spirituale imitandola in tutti i dettagli riguardanti la shari'ah[64]. Gli ulama sciiti iraniani nel corso del ventesimo secolo riuscirono ad avere una maggiore influenza politica rispetto a quelli iracheni, soprattutto dopo l'avvento dell'Ayatollah Khomeini, che rivendicava l'inoppugnabile diritto di essere interprete privilegiato della legge islamica, considerandosi quel mojtahed vivente e irreprensibile che solo lo sciismo duodecimano prevede, basandosi sul concetto della velayat.
Il concetto di velayat
Uno dei cardini caratterizzanti la teoria sciita duodecimana è la distinzione tra l'aspetto essoterico (in arabo: zahir) e quello esoterico (in arabo: batin) della religione. Secondo il pensiero filosofico imamita, ogni realtà oggettiva comporta un aspetto esteriore e uno interiore, poiché questa realtà non include soltanto il mondo della natura ma anche la rivelazione, considerata la divina origine di tutte le cose. Dal punto di vista della sci'a, un profeta porta sulla terra la legge del cielo per guidare la vita degli uomini. Dopo di lui la rivelazione cessa e agli uomini rimane una legge che corrisponde all'aspetto essoterico della rivelazione. A questo punto devono intervenire coloro che hanno la funzione di interpretare i più riposti significati della legge e il contenuto esoterico della rivelazione: nella sci'a tale funzione è affidata alla figura degli Imam che intervengono dopo Mohammad[65].
Generalmente il termine velayat viene tradotto in arabo, persiano e altre lingue d'uso nel mondo islamico, in più significati (santità, amicizia, patronato e guida) mentre nel contesto specifico della Sci'a duodecimana il termine velayat ricomprende "gli ampi poteri spirituali, religiosi e politici che vengono attributi soltanto ai dodici Imam per guidare la comunità islamica verso la perfezione". Questi poteri sono riconosciuti come una responsabilità e come un diritto divino dell'Imam e si articolano nel campo politico, giuridico, sociale e spirituale. Il primo Imam, Alì, chiamato dagli sciiti valiyallah (amico di Dio) è la persona che ha iniziato il ciclo del velayat, destinato a chiudersi con il Mahdi o 'l'atteso'. Quest'ultimo, secondo la tradizione imamita (v. sopra) si è allontanato nel 941 d.C. e con il suo ritorno (in un futuro imprecisato) stabilirà la pace e la giustizia, istituendo lo stato islamico perfetto[66].
I concetti qui sviluppati si prefiggono, con duplice azione, di offrire gli strumenti necessari ad intraprendere uno studio rivolto allo sciismo politico contemporaneo, e di proporre altresì nuove chiavi di lettura per eventi cruciali della Storia contemporanea, quali la rivoluzione iraniana del 1979 e la conseguente istituzione della Repubblica Islamica sotto la leadership dello scienziato religioso sciita, l'Ayatollah Khomeini, assieme a rilevanti fenomeni politici come l'organizzazione degli Hezbollah in Libano, e la complessa situazione degli ultimi trent'anni dello sciismo iracheno.
Note al testo
[1] Sulla storia dell'Islam si vedano W. M. WATT, Islamic Political Thought, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1980; W. M. WATT, A. T. WELCH, Islam, Maometto e il Corano, Milano, Jaca Book,1981; M. TABARI, Vita di Maometto, a cura di S. Noja, Milano, Rizzoli, 1985; F. ROBINSON, Islamic World, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; P. H. DELAPORTE, Vita di Maometto Profeta dell'Islam, Milano, Luni 1998; A. BLACK, The History of Islamic Political Thought, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2001; H. LAOUST, Gli scismi nell'Islam: un percorso nella pluralità del mondo musulmano, Genova, ECIG, II edizione, 2002; M. BERNARDINI, Storia del mondo islamico, Torino, Einaudi, vol. II, 2003; C. LO JACONO, Storia del mondo islamico, Einaudi, vol. I, 2003.
[2] S.H. NASR, Ideali e Realtà dell'Islam, Milano, Rusconi, 1974, p. 169.
[3] Ibid., p. 169; si veda anche H. LAOUST. op. cit., p. 23.
[4] Abu Bakr (573-634) fu uno dei primi convertiti all'Islam e nel 622 accompagnò Mohammad nel higra (emigrazione) da Mecca a Yathrib (Medina). Egli è il primo dei quattro califfi ben guidati (Khalifat-ol-rashedun). I sunniti ne hanno fatto un modello di sapienza e santità e lo chiamano Siddiq (il sincero). Su Abu Bakr si veda: W. MADELUNG, The Succession to Mohammad: A Study of the Early Caliphate, Cambridge, Cambridge University Press, 1980.
[5] Cfr. C. LO JACONO, op. cit., pp. 39-42; si vedano anche R. RUSSO, Islam, Storie e Dottrine, Firenze, Edizione Giunti, 2001, p. 162; S. MERVIN, L'Islam: fondamenti e dottrine, Milano, Mondatori, 2001, p. 69: " L'origine della divisione risale alla morte del profeta. Non avendo lasciato figli maschi né redatto alcun testamento, egli lasciò la comunità senza direttive riguardo alla sua successione. [...] un buon numero di compagni (del profeta) nel padiglione dei Banu Saida, designarono come successore del profeta Abu Bakr, seguace della prima ora e padre di A'isha, la moglie preferita di Maometto."; P. CRONE, Islamic World (edited by Francio Robinson), Cambridge, Cambridge University Press, 2nd edition, 2002, p. 2: "The story continues that Muhammad's death left the community leaderless. He had no surviving sons and had not designated a successor or even indicated what type of leadership should replace him: kings, priests, judges, conciliar government? The muslims chose monarchy, though not kingship, by accepting Abu Bakr, a member of the Quraysh who had emigrated with Muhammad to Medina, as leader of the community with the title Khalifa (caliph), meaning 'successor' (of the Messenger of God) or 'deputy' (of God)".
[6] Cfr. A. BAUSANI, L'Islam, Milano, Aldo Garzanti,1980, p. 101; si vedano anche S.H. NASR, op. cit., p. 170: " [In seguito alla morte del profeta] Un piccolo gruppo fu del parere che simile incarico [la guida della comunità islamica] dovesse rimanere nella famiglia del Profeta e spalleggiò Alì, ritenuto destinato a questa funzione per designazione diretta (ta'yin) e testamento (nass). Si cominciò a considerare questi come partigiani di Alì, mentre la maggioranza si trovò d'accordo sulla designazione di Abu Bakr, nella presunzione che il Profeta non avesse lasciato istruzioni al riguardo."; si vedano anche H.M. JAFRI.S, The Origins and Early Development of Shi'a Islam, London, New York, Longman, 1979; P. CRONE, op. cit., p. 18: "The Shiites, or members of the party (shia) of Ali, held that the prophet designated Ali his successor, meaning that the first three caliphs were usurpers and that Ali's descendants were the only rightful claimants to the caliphate".
[7] Sul califfato si vedano S.H. NASR, op. cit., p. 170: "Nel problema di chi fosse destinato a succedere al Profeta quale capo della comunità erano implicite due differenti concezioni, circa la qualifica di successore e circa il significato dell'autorità religiosa. L'Islam sunnita considera il Khalifah come un guardiano della Shari' ah nella comunità mentre la Shi'ah scorge nel 'successore' una funzione spirituale connessa all'interpretazione della rivelazione e all'eredità degli insegnamenti esoterici del Profeta"; J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Torino, edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1995, pp. 19-22; ibid., p. 19: "I califfi, certo, furono i capi politici della comunità islamica dopo la morte di Maometto, ma non pare abbiano agito come arbitri supremi. [...] nella loro veste di sovrani e amministratori supremi, per quanto privi dell'autorità religiosa del Profeta, i califfi ebbero ampiamente la funzione di legislatori della comunità.
[8] Cfr. A. BAUSANI, op. cit., p. 107; P. BRANCA, Introduzione all'Islam, Milano, edizione San Paolo, 1995, p. 241: " Il buon diritto di Alì ad essere riconosciuto capo della comunità islamica si fonderebbe, secondo gli sciiti, su un episodio avvenuto nel 632 d.C.. Sulla via del ritorno da quello che viene ricordato come il "pellegrinaggio d'addio" Muhammad avrebbe fatto sosta presso lo stagno di Humm e qui, afferrata la mano di Alì e sollevatala in alto, avrebbe affermato: "Iddio è il mio patrono e io sono il patrono dei credenti, più prossimo ad essi che loro stessi. Colui del quale io sono patrono, anche Alì è il suo patrono". Si veda al riguardo anche A.TABATABAI, L'Islam Shi'ita, Roma, Edizioni Centro Islamico Europeo, 1962.
[9] Cfr. B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 307.
[10] S.H. NASR, op. cit., p. 185.
[11] S. M. HASHEMI, Hoghugh-e Asasi-ye Jomhuri-ye Eslami-ye Iran, (Diritto Costituzionale della Repubblica Islamica dell'Iran), Dadgostar, Teheran, 2002, p. 157.
[12] Cfr. A. DI NOLA, L'Islam, Roma, Newton Compton Editori, 1989, pp. 170-171; si veda anche A. BAUSANI, op. cit., p. 107: "L'Imam è il solo conoscitore del senso intimo dell'Islam comunicato direttamente ad Alì e da questi ai suoi discendenti, ed ha l'autorità docente obbligatoria e definitiva nella interpretazione del Corano e della sunna."; ibidem, p. 108: " Quando alla fine del X secolo, le idee della filosofia greca e del neoplatonismo gnosticheggiante cominciano a esser comuni in Islam, il Profeta viene identificato con l'aql- ikull, (Intelletto Universale), mentre l'Imam è (l'Anima Universale)."
[13] CFR. A. ZARRINKUB, Bamdade Eslam (L'alba dell'Islam), Teheran, 1997. Cfr. anche M. MOTAHHARI, Seiri dar Nahj al balaghe (Uno sguardo al Nahj al balaghe), Qom, Il Centro Islamico di Qom, 1978. Vedi anche. V. VACCA, Vite e Detti di Santi Musulmani, Torino, Editrice Torinese, 1968.
[14] Muawiya era uno dei parenti del terzo califfo Uthman, che a seguito del suo assassinio nel 656 d.C., chiedeva giustizia e la punizione dei colpevoli dell'assassinio. Fu con questa scusa che Muawiya si oppose al quarto Califfo Alì ed originò quella che venne conosciuta come la prima guerra civile dell'Impero Arabo nel 657 d.C.. Muawiya riuscì a vincere lo scontro con Alì diventando il califfo dei musulmani. Muawiya, contrariamente alle disposizioni islamiche, fondando la prima dinastia dell'Islam, così chiamata dal nome di Umayya, eponimo di una delle principali famiglie coreiscite della Mecca. La dinastia, con capitale a Damasco, fu inaugurata nel 661 da Muawiya. Con questa dinastia il Califfato (fino allora elettivo) divenne ereditario. L'istituzione del califfato continuò nominalmente ad esistere ma in realtà il califfato islamico era stato trasformato in un regno arabo.
[15] Cfr. A. TABATABA'I, L'Islam Shi'ita, Roma, 1962; Cfr. anche M. MOMEN, An Introduction to Shi'ah Islam, New Haven-London, Yale University Press, 1985.
[16] Grande città del Iraq medievale, fondata nel 638 d.C. come cittadella militare sulla riva destra del corso inferiore dell'Eufrate. Divenne la grande metropoli dell'Iraq e un importante centro politico, religioso e culturale soprattutto degli shi'iti. Nel 661 vi fu assassinato il primo Imam (quarto califfo) Ali, sepolto poi nella vicina Najaf.
[17] Città dell'Iraq sulla riva sinistra dell'Eufrate, circa 70 Km a sud-ovest di Baghdad. All'epoca luogo desertico dove il terzo Imam degli sciiti fu assassinato dai soldati del Califfo Yazid.
[18] Cfr. B. SCARCIA AMORETTI, Sciiti nel Mondo, Roma, 1994. Cfr. anche M. BAR-ASHER, Scripture and Exegesis in Early Imami Shiism, Leiden, Brill, 1999.
[19] Cfr. A. DI NOLA, L'Islam, Roma, 1989, vedi anche in generale: M. AYOUB, A Redemptive Suffering in Islam, Paris, 1978; A. SHARIATI, Hossein Vares-e Adam (Hossein l'erede dell'uomo), Teheran, Qalam, 1998.
[20] A. BAUSANI, L'Islam, Milano, 1980: p 109. Cfr. anche. S. MERVIN, L'islam, Fondamenti e dottrine, Milano, Edizione Bruno Mondadori, 2000.
[21] Motahhari, Morteza, Ensane Kamel (L'uomo Perfetto), Teheran, Edizioni Sadra, 1993.
[22] Cfr. Robinson, Francis, Islamic World, Cambridge, 1996. Cfr anche. Russo, Raffaele, Islam, Storie e Dottrine, Firenze, 2001- Edizione Giunti. Cfr anche Tabataba'i, Allamah, L'Islam Shi'ita, Roma, 1962- Edizioni.
[23] Sulle divisioni del mondo sciita si consultino in generale F. DAFTARY, The Ismailis. Their History and Doctrines, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; B. SCARCIA AMORETTI, op. cit. pp. 12, 27, 35-43; P. BRANCA, op. cit., pp. 241-246.
[24] A. TABATABA'I, L'Islam Shi'ita, Roma, 1962, p. 55.
[25] S. M. HASHEMI, op. cit., p. 152.
[26] Cfr. B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 42.
[27] A. DI NOLA, op. cit., p. 178.
[28] B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 77; si veda anche in generale F. DAFTARY, The Ismailis. Their History and Doctrines, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.
[29] S. M. HASHEMI, op. cit., p. 153.
[30] Dinastia sciita che dominò gran parte dell'Africa settentrionale, dell'Egitto, della Siria, dal secolo X al secolo XII d.C.. Fu fondata da Ubayd Allah, ismailita che affermava di discendere da Fatemeh, figlia di Mohammad.
[31] A. TABATABA'I, L'Islam Shi'ita, Roma, 1962.
[32] B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 27.
[33] Espressione che letteralmente significa "la gente della Casa", ed è derivata dal Corano; indica i discendenti di Mohammad tramite Fatima e Ali. Da Fatima e Ali nacquero Hassan e Hossein, da essi discendono gli shurafa ossia i Seyyed (i nobili), che oggi sono decine di migliaia e sono sempre molto rispettati e onorati dai musulmani, specialmente dagli sci'iti. Si veda A. DI NOLA, op. cit., p. 132.
[34] Cfr. B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 43.
[35] Cfr. A.A. OMEIDE ZANJIANI, Nezame Siasi va Rahbari dar Eslam (L'istituzione Politica e la Guida nell'Islam), Teheran, Edizione Amir Kabir, 1999.
[36] A. BAUSANI, op. cit., p. 111; Cfr. anche P. BRANCA, op. cit., p. 242: "L'ultimo imam "visibile" fu Hasan-al-Askari, morto ancor giovane a Samara nell'874; lo stesso anno il figlio di lui Muhammad-al-Mahdi scomparve misteriosamente. Quest'ultimo è quindi considerato l'imam "nascosto", col quale si è inaugurato il periodo dell'"occultamento" (gayba). Fino al 940 egli avrebbe comunicato direttamente coi seguaci attraverso un proprio rappresentante (na'ib); in seguito l'autorità religiosa sarebbe passata ai dottori della legge (mollah) che guidano la comunità in attesa della nuova manifestazione dell'imam, prevista per la fine del mondo".
[37] Nell'anno 570 d.C. nacque alla Mecca Mohammad (che in lingua araba significa "Il lodato"). La famiglia di Mohammad apparteneva al clan di Hashim, della tribù di Quraish (la tribù più potente della Mecca, il cui nome è volgarizzato in Coreisciti). Hashim era uno dei membri più importanti dei Quraish nell'Arabia pre-islamica e, insieme a suo fratello Omaiieh diedero vita a due tribù di estrema importanza per la storia islamica, gli hashimiti e gli omayyadi. Dalla prima provenne il profeta dell'Islam Mohammad, mentre dalla seconda discenderanno il terzo califfo Uthman, e il fondatore del regno arabo degli omaydi, Muawya. La tribù degli hashimiti, oltre ad essere la tribù del profeta, comprende tutti i consanguinei e i discendenti diretti del profeta, tra i quali anche i dodici imam dello sciismo duodecimano. L'albero genealogico mostra i membri della tribù degli hashimiti, a partire da Hashim fino al dodicesimo Imam degli sciiti, il Mahdi. Come si può notare, Mohammad, non avendo avuto come erede un maschio, troverà la propria discendenza nei nipoti, Hassan e Hossein, figli di sua figlia Fatima e di suo cugino Alì. Hassan e Hossein saranno infatti i continuatori della generazione mohammadiana. La tradizione sciita duodecimana considera i discendenti diretti di Hossein, noti come gli hosseinidi, come gli eredi legittimi del profeta, mentre i discendenti di Hassan, noti come gli hasanidi, godranno sempre di un certo rispetto, ma non verranno considerati come aventi diritto all'imamato.
[38] P. CRONE, op. cit., p. 20.
[39] S.H. NASR, op. cit., p. 177.
[40] H.M. JAFRI.S, The Origins and Early Development of Shi'a Islam, London, New York, Longman, 1979.
[41] Va anche sottolineato che prima di Jafar-al-Sadeq gli sciiti venivano spesso conosciuti, in quanto i sostenitori di Alì, come gli "alidi". Fu soprattutto dopo Jafar-al-Sadeq che il termine Sci'a ovvero sciita venne largamente utilizzato. A tal proposito si veda C. LO JACONO, op. cit., pp. 141-143.
[42] S. MERVIN, op. cit., p. 89.
[43] Hadith (plur. ahadith) parola araba che significa propriamente "racconto", "aneddoto", "testimonianza" riguardante un'azione compiuta, un discorso o una frase pronunciata o qualsiasi altro episodio si riferisca al profeta. Ogni hadith si compone di due parti: il matn (il testo della tradizione) che sono le sentenze, giudizi ed atti del fondatore dell'Islam, pronunciati nelle più svariate circostanze e concernenti i problemi più disparati della sua vita pubblica e privata, e l'isnad ("appoggio", "sostegno") cioè la serie o catena di testimoni mediante i quali si è trasmesso il racconto e che si susseguono a ritroso in serie continua (in genere nella forma: "mi ha narrato il Tale derivandolo dal Tale, derivandolo a sua volta dal Tale...") fino al teste che per primo ha veduto o udito il Profeta. L'insieme di queste "parole", riunite in raccolte voluminose, ebbe un'importanza considerevole nella formazione del patrimonio dogmatico, giuridico e sociale dell'Islam. Infatti esiste in Islam una scienza speciale che studia la posizione storica, l'attendibilità morale, ecc., dei vari innumerevoli trasmettitori di tradizioni.
[44] A. A. OMEIDE ZANJIANI, Nezame Siasi va Rahbari dar Eslam, op. cit., pp. 40-41.
[45] Esistono dei casi per i quali il giurista musulmano non trova indicazioni nei testi del Corano e della Sunna. In tale situazione lo sforzo personale intrapreso dal giurista per comprendere la fonte, estrarne le regole o, in assenza di un'indicazione testuale chiara, formulare giudizi indipendenti, è quello che nella giurisprudenza islamica si chiama ijtihad. Secondo un noto studioso islamico, Hashim Kamali, l'ijtihad è definito come la totalità degli sforzi fatti da un giurista per dedurre, con un grado di probabilità, le regole della shari'ah a partire da indicazioni specifiche nelle fonti; l'ijtihad consiste essenzialmente in una deduzione (istinbat) che rappresenta una probabilità (dann) e non riguarda dunque l'estrapolazione di una regola da un testo esplicito. Quindi non c'è ijtihad là dove esiste un testo esplicito nelle fonti; ciò significa che se esiste un versetto coranico esplicito o un hadith autentico, il cui significato è evidente e non può dar adito ad alcun'ipotesi né interpretazione, il giurista deve farvi riferimento senza praticare l'ijtihad (Cfr. T. RAMADAN, Essere Musulmano Europeo, Troina, Oasi Editrice, 1999, p. 140).
[46] Si veda H. CORBIN, L'Iran e La Filosofia, Napoli, Guida Editori, 1992.
[47] M. BERNARDINI, Storia del mondo islamico (VII-XVI): il mondo iranico e turco, Torino, Einaudi, vol. 2, 2003, p. 268.
[48] A proposito delle origine dei safavidi si veda M. BERNARDINI, op. cit., p. 268: "Il fenomeno dell'ascesa di Shah Ismail I affonda le proprie radici in un passato abbastanza remoto che bisogna qui tratteggiare per comprendere l'evoluzione storica successiva. Se da un lato sono assai oscure le origini di quell'ordine che sarà poi definito safavide, il luogo sicuramente riveste un'importanza considerevole nell'evoluzione degli eventi storici successivi. La città azerbaigiana di Ardabil, situata in un altopiano circondato da montagne a circa duecento chilometri da Tabriz, antico centro vitale per i commerci diretti a Occidente in Anatolia e a Oriente verso l'Asia Centrale. Nell'area prossima a questo centro avrebbe operato, nel corso del IX secolo, tal Firuzbash detto Zarrinkolah (dal berretto d'oro), di oscure origini, variamente interpretate come arabe, turcomanne o più verosimilmente curde, avendo costui fatto parte dell'entourage di un principe rawawide che stanziava in quel periodo. Sulla scia di quanto detto dallo storico turco Zelki Velidi Togan (1959), Michel Mazzaoui (1972) ha notato come la storiografia safavide si sia adoperata a cancellare queste eventuali origini curde per cercare di esaltare i tratti turcomanni e sciiti dei progenitori di Shah Ismail".
[49] B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., p. 150; si veda anche M. CAMPANINI, Islam e Politica, Bologna, il Mulino, 2003, p. 89: "Essi (i safavidi) si imposero nelle lotte tribali che laceravano la Persia sfruttando la potenza militare dei turcomani e, una volta insediatisi al potere, istituzionalizzarono lo sciismo come dottrina di stato".
[50] D.N. WILBER, Iran: Past and Present, Princeton, Princeton University Press, 1950: "The Shi'a sect was proclaimed the state religion of Iran and ruthless force was used in converting reluctant Sunnis"; R. RUSSO, Islam, Storie e Dottrine, Firenze, 2001, p. 221.
[51] D.N. WILBER, op. cit., p. 69.
[52] Si vedano in generale F.I. KHURI, Imam and Emirs, London, Saqi Books in association with University Publishing House, Beirut, 1990 e M. KADIVAR, Nazarie haie dolat dar feqhe sciie (Le Teorie dello Stato nel figh sci'ita), Teheran, Casa Editrice Ney, 2001.
[53] Cfr. A. SHARIATI, La Sci'a Alavida e La Sci'a Safavide, op. cit., p. 33.
[54] A. SHARIATI, op. cit., pp. 45-55; S.A. ARJOMAND, op. cit., p. 12: "The safavids invited a number of Arab Shi'ite theologians to their kingdom to spread orthodox creed of the moderate Twelver Shi'ism among the predominantly Sunni population of Iran. The inflow of Shi'ite theologians and jurist from the Arab lands, notably from the Jabal'Amil region in present-day southern Lebanon, continued for two centuries, and they soon trained a large number of Iranian "ulama" with whom they intermarried"; R. RUSSO, op. cit., p. 223.
[55] S.A. ARJOMAND, op. cit., p. 12.
[56] Sulla biografia politica ed intellettuale di Shariati si consultino: P. SHARIAT RAZAVI, Everlasting Memorials, Teheran, Edizioni Jarf, 1997; A. RAHNEMA, An Islamic Utopian: A Political Biography of Ali Shariati, London-New York, 1998.
[57] A. SHARIATI, op. cit., pp. 33-45; si vedano in generale anche B. SCARCIA AMORETTI, op. cit.; B. KESHAVARZI, Tashaiioh va ghodrat dar Iran (La sci'a e il potere in Iran), Vincennes, Khavaran Editions, 2000.
[58] A. SHARIATI, op. cit., pp. 15,115; ibid., p. 196: "Gli scienziati religiosi sciiti hanno abbandonato il popolo e si sono seduti a fianco dei monarchi safavidi, "la sci'a del popolo" è diventata "la sci'a governativa", così la sci'a si è suddivisa in due parti! La sci'a alavide che era sempre esistita e una nuova sci'a, quella safavide. Una sci'a che fino a quel dato momento non esisteva. Essa era una deviazione della sci'a alavide e, purtroppo, esiste ancora".
[59] Ibid., p. 262.
[60] La scuola giuridica sciita duodecimana fondata dal sesto Imam Jafar-al-Sadegh. Si veda sopra a p. 34.
[61] Cfr. B. KESHAVARZI, op. cit., pp. 173-185; si veda anche M.J. NOROUZI, Nezame Siasie Eslam (L'Istituzione Politica dell'Islam), Qom, Casa Editrice Imam Khomeini, 2000.
[62] Città santa e grande centro culturale della sci'a imamita. Vi sorge un santuario importante dove si trova la tomba di Fatima, sorella dell'ottavo Imam Ali al Rida. Questa città fu creata da Uthman (il terzo Califfo) come città-guarnigione. Gli abitanti erano in maggior parte arabi e nel 713 d.C. essa fu popolata dagli sciiti di Kufa che fuggivano alle persecuzioni. Oggi è considerata una delle città più importanti del mondo sciita.
[63] Cfr. B. SCARCIA AMORETTI, op. cit., pp. 49, 123.
[64] N.R. KEDDIE, Roots of Revolution: An interpretive History of Modern Iran, op. cit., p. 21: "In the late eighteenth century the power of the ulama was further increased by the outcome of a struggle between two schools of shi'i thoughts-schools whose conflict now sharpened and, for most believers, concluded. The loosing school (in Iran) was the akhbaris, who believed that each shi'i could rely on, and interpret, the Traditions (akhbari) of the Prophet and imams, and hence ulama were not needed to interpret doctrine. The winning school of usulis ormojtahedis said that mojtaheds were needed to interpret the foundations (usul) of the faith. The role of the mojtahed was defined by saying that each believer must choose one mojtahedto follow as a "source of imitation", and that ordinary believers below the rank of mojtahed were not, as the akhbaris said they were, competent to interpret the faith".
[65] Cfr. S.H. NASR, op. cit., pp. 182-186.
[66] Cfr. B. LEWIS, Il Linguaggio Politico dell'Islam, Chicago, Laterza,1988; si vedano anche in generale A. TABATABAI, op. cit.; M.T. MESBAH-E YAZDI, Hokumate Eslami va Velayate Faghih (Lo Stato Islamico e La Guida Suprema), Teheran, Centro Culturale Islamico, 1999.