Il sabato e la domenica, giorno del Signore, di Andrea Lonardo. File audio di una lezione tenuta presso la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria
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Presentiamo sul nostro sito il file audio di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la Chiesa di Sant'Angelo in Pescheria, il 10/10/2015. Per le ulteriori lezioni del Corso di storia della Chiesa di Roma, vedi le sezioni Roma e le sue basiliche e Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2015)
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Premessa: un tema semplicissimo, anche se lo stile dei nostri incontri è poi “culturale”, vedere la semplicità all’opera
- in realtà una sola cosa: il sabato/domenica è il senso dell’universo intero, è un dono offerto all’uomo di ogni tempo
- G.K. Chesterton, Ortodossia , La misura di ogni felicità è la riconoscenza.
- F. Hadjadj, Elogio del rutto (su Gli scritti)
- per questo la non osservanza è mortale!
Da papa Francesco nell’udienza generale del 12/8/2015
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi apriamo un piccolo percorso di riflessione su tre dimensioni che scandiscono, per così dire, il ritmo della vita famigliare: la festa, il lavoro, la preghiera.
Incominciamo dalla festa. Oggi parleremo della festa. E diciamo subito che la festa è un’invenzione di Dio. Ricordiamo la conclusione del racconto della creazione, nel Libro della Genesi che abbiamo ascoltato: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (2,2-3). Dio stesso ci insegna l’importanza di dedicare un tempo a contemplare e a godere di ciò che nel lavoro è stato ben fatto. Parlo di lavoro, naturalmente, non solo nel senso del mestiere e della professione, ma nel senso più ampio: ogni azione con cui noi uomini e donne possiamo collaborare all’opera creatrice di Dio.
Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. Anche voi, novelli sposi, state festeggiando il lavoro di un bel tempo di fidanzamento: e questo è bello! E’ il tempo per guardare i figli, o i nipoti, che stanno crescendo, e pensare: che bello! E’ il tempo per guardare la nostra casa, gli amici che ospitiamo, la comunità che ci circonda, e pensare: che cosa buona! Dio ha fatto così quando ha creato il mondo. E continuamente fa così, perché Dio crea sempre, anche in questo momento!
Può capitare che una festa arrivi in circostanze difficili o dolorose, e si celebra magari “con il groppo in gola”. Eppure, anche in questi casi, chiediamo a Dio la forza di non svuotarla completamente. Voi mamme e papà sapete bene questo: quante volte, per amore dei figli, siete capaci di mandare giù i dispiaceri per lasciare che loro vivano bene la festa, gustino il senso buono della vita! C’è tanto amore in questo!
Anche nell’ambiente di lavoro, a volte – senza venire meno ai doveri! – noi sappiamo “infiltrare” qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo…, è importante. È importante fare festa. Sono momenti di famigliarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene!
Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale, ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma “signori”. C’è un comandamento per questo, un comandamento che riguarda tutti, nessuno escluso! E invece sappiamo che ci sono milioni di uomini e donne e addirittura bambini schiavi del lavoro! In questo tempo ci sono schiavi, sono sfruttati, schiavi del lavoro e questo è contro Dio e contro la dignità della persona umana! L’ossessione del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i ritmi umani della vita, perché la vita ha i suoi ritmi umani.
Il tempo del riposo, soprattutto quello domenicale, è destinato a noi perché possiamo godere di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende. E invece vediamo che l’ideologia del profitto e del consumo vuole mangiarsi anche la festa: anch’essa a volte viene ridotta a un “affare”, a un modo per fare soldi e per spenderli. Ma è per questo che lavoriamo? L’ingordigia del consumare, che comporta lo spreco, è un brutto virus che, tra l’altro, ci fa ritrovare alla fine più stanchi di prima. Nuoce al lavoro vero, consuma la vita. I ritmi sregolati della festa fanno vittime, spesso giovani.
Infine, il tempo della festa è sacro perché Dio lo abita in un modo speciale. L’Eucaristia domenicale porta alla festa tutta la grazia di Gesù Cristo: la sua presenza, il suo amore, il suo sacrificio, il suo farci comunità, il suo stare con noi… E così ogni realtà riceve il suo senso pieno: il lavoro, la famiglia, le gioie e le fatiche di ogni giorno, anche la sofferenza e la morte; tutto viene trasfigurato dalla grazia di Cristo.
La famiglia è dotata di una competenza straordinaria per capire, indirizzare e sostenere l’autentico valore del tempo della festa. Ma che belle sono le feste in famiglia, sono bellissime! E in particolare della domenica. Non è certo un caso se le feste in cui c'è posto per tutta la famiglia sono quelle che riescono meglio!
La stessa vita famigliare, guardata con gli occhi della fede, ci appare migliore delle fatiche che ci costa. Ci appare come un capolavoro di semplicità, bello proprio perché non artificiale, non finto, ma capace di incorporare in sé tutti gli aspetti della vita vera. Ci appare come una cosa “molto buona”, come Dio disse al termine della creazione dell’uomo e della donna (cfr Gen 1,31). Dunque, la festa è un prezioso regalo di Dio; un prezioso regalo che Dio ha fatto alla famiglia umana: non roviniamolo!
1/ Una lunga introduzione! L’uomo nasce con il rito, l’uomo è homo religiosus
Chi è l’uomo?
1.1/ L’uomo primitivo
da Archivi del Nord di M. Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pp. 9-13)
«Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. [...] Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano».
- l’Homo Naledi (2.500.000 anni fa; scoperti 11 resti in una grotta in sud-Africa) era un uomo? Se seppelliva in maniera rituale, sì… a Dmanisi, in Georgia, erano uomini (5 individui di circa 1.800.000 anni fa con tratti di Homo habilis, Homo rudolfensis e Homo ergaster? Se avevano comportamenti tali da manifestare una “spiritualità”, sì
- per la fede non cambia niente, cambia per la scienza
Amanti di Valdaro, sepoltura neolitica a Valdaro,
nel Mantovano, ca. 6.000 anni fa
Disegno di Andrea Pucci per il “nuovo catechismo”
Cfr. il sito con la navigazione virtuale nelle Grotte di Lascaux: http://www.lascaux.culture.fr/
Da L’Homo? Religiosus fin dalle caverne. Un’intervista di Daniele Zappalà al paleontologo e antropologo Yves Coppens su Avvenire del 14/9/2010
«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus coincide con l’uomo in generale. L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione. […]
Abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti. Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali».
Da Il primo uomo? È nato «religiosus», un'intervista ad Yves Coppens di Roberto Beretta, da Avvenire (15/11/2011)
Professor Coppens: è nato prima l’uomo o prima il simbolo? «Sono nati contemporaneamente. Non si può pensare che il simbolo sia arrivato dopo l’uomo; e d’altra parte l’uomo è fin da subito un essere simbolico».
Ci spieghi allora com’è avvenuto. «Nell’evoluzione dell’uomo si riconoscono tre fasi successive. La prima, 70 milioni di anni or sono, avviene con la visione frontale (prima gli occhi erano laterali), che offre la profondità delle tre dimensioni e la percezione dei colori. Il secondo stadio – siamo a 10 milioni di anni fa – arriva con la posizione eretta, quando l’antenato dell’uomo innalza per la prima volta lo sguardo all’orizzonte e al cielo. La terza tappa si verifica circa 3 milioni di anni fa, in seguito a un violento cambiamento climatico che modifica radicalmente il volto della Terra nel senso di un ambiente molto più secco e con la scomparsa delle foreste a vantaggio di savane e steppe; per superare questa difficoltà materiale alla sopravvivenza, gli animali fanno crescere i denti (che servono a brucare meglio l’erba) mentre il cervello degli ominidi supera una soglia di complessità che lo porta a un livello quantitativo e qualitativo superiore. Il preumano si trasforma nell’umano».
E il simbolo? «Viene di conseguenza. L’australopiteco Lucy usava le pietre per quello che erano; ma quando l’uomo – per vincere il cambiamento climatico – sviluppa la testa, prende due sassi e col secondo modifica la forma del primo. Nasce l’idea. C’è un progetto che riguarda il futuro. Ecco: il primo oggetto fabbricato dall’uomo è già un simbolo sacro. D’altronde, quando vedo i popoli nativi ed osservo che i loro gesti sono tutti rituali, non posso pensare che non sia successo lo stesso con l’uomo primitivo».
Dunque la prima idea è nata insieme al senso del sacro? «Sì. La percezione della forma è già la comprensione di qualcosa di sacro».
Lucy invece non poteva avere simboli, e dunque nemmeno un senso religioso... «No, non credo. Nel corso del tempo la modificazione di alcuni dati fisici ha permesso l’emergere dell’homo religiosus».
Un’affermazione che ha notevoli corollari. Per esempio: il pensiero dev’essere per forza «sacro»? «Certo. Il cambiamento progressivo che ha permesso all’uomo di sviluppare delle idee, gli ha fornito anche la possibilità di percepire qualcosa d’altro: l’avvenire, il passato. Uno sguardo sull’infinito e insieme dentro di sé».
I «laici» non ci resteranno bene... «Non credo che esista davvero una reale laicità se non come un’altra maniera di pensare il sacro. L’uomo è irrimediabilmente simbolico, almeno in questo stadio dell’evoluzione; e in questo non vedo differenza d’essenza tra il primo uomo e noi, se non nel progresso e nell’affinamento del pensiero ».
Azzardiamo un po’: è in quell’istante di passaggio tra l’ominide e l’uomo che si può collocare, in una prospettiva evoluzionista cristiana, l’istante della creazione? «Questo devono dirlo i teologi, non è il mio mestiere. Io mi limito a osservare i dati sul campo e a constatare il momento di passaggio di una soglia. Certo qualcosa in quel momento è successo: l’uomo non è stato più il pre-uomo che era prima. Non so se questo sia l’attimo della creazione, però una volta ricordo di aver sconcertato il cardinale Jean-Marie Lustiger, il defunto arcivescovo di Parigi, affermando: 'Più le cose si spiegano in modo naturale, meglio è per il soprannaturale!'...».
1.2/ L’uomo tecnologico. Così oggi, nel mondo della scienza
Cfr. YouTube Canale NASA
- Departing Space Station Commander Provides Tour of Orbital Laboratory (con Sunita Williams che mostra tutta l’ISS, la Stazione spaziale orbitante)
- Welcome to the Space Station! (Video con l’ingresso di Samantha Cristoforetti nell’ISS e la conferenza stampa dinanzi alle icone)
- ma prima… la bellezza dello spazio e dell’universo
- lettura di Genesi dall’Apollo 8: Youtube Gli scritti Apollo 8: messaggio di Natale
- Apollo 11: la prima Comunione sulla luna (Buzz Aldrin)
1.3/ L’uomo inter-culturale
EG 200. Desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
Discorso di Jorge Mario Bergoglio alla presentazione ufficiale nel 2012 di Introduzione alla teologia del popolo di Ciro Enrique Bianchi
Quando come Chiesa ci accostiamo ai poveri per accompagnarli, constatiamo – al di là delle enormi difficoltà quotidiane – che vivono con un senso trascendente della vita. In qualche modo il consumismo non li ha ancora ingabbiati. La vita mira a qualcosa che va oltre questa vita. La vita dipende da Qualcuno (con la maiuscola) e questa vita ha bisogno di essere salvata. Tutto questo si trova nel più profondo della nostra gente, anche se è incapace di formularlo in termini concettuali. Il senso trascendente della vita che si vede nel cristianesimo popolare è l’antitesi del secolarismo che si diffonde nelle società moderne. È un punto chiave. Se volessimo parlare in termini antagonistico-aggressivi, diremmo che la fede del nostro popolo è uno schiaffo agli atteggiamenti secolarizzanti.
Pertanto si può dire che la pietà popolare è una forza attivamente evangelizzatrice che possiede nel suo interno un efficace antidoto davanti all’avanzare del secolarismo. Aparecida si esprime con parole simili: «La pietà popolare, […] nell’ambiente secolarizzato in cui vivono i nostri popoli, continua a essere una grandiosa confessione del Dio vivente che agisce nella storia, e un canale di trasmissione della fede» (DA 264).
1.4/ L’uomo: la religione non è una sub-cultura
Da La peculiarità del linguaggio umano: fare uso infinito di mezzi finiti. Il big bang della parola. Neuroscienze - la nuova frontiera. Un’intervista di Alessandra Stoppa ad Andrea Moro, dal sito di Tracce, dicembre 2013
«Quando si osserva il linguaggio si parla dell’uomo tutto intero. E non si può parlare dell’uomo senza parlare del linguaggio».
Perché?
Primo, perché è lo strumento con il quale l’uomo caratterizza non solo tutto quello che fa, ma anche quello che pensa di ciò che fa: dunque, senza linguaggio non ci sarebbe la possibilità di autocoscienza. Secondo, perché la struttura del linguaggio umano è unica tra tutti gli esseri viventi: gli uomini e solo gli uomini, per dirla con Wilhelm von Humboldt, «fanno uso infinito di mezzi finiti». Questa è la sintassi: elementi finiti (le parole) che costruiscono strutture che potrebbero andare avanti all’infinito.
È la sintassi, quindi, lo spartiacque tra il linguaggio umano e quello animale?
Tutti gli animali comunicano. Se la comunicazione è passare informazioni, anche i papaveri lo fanno. Ma i codici di tutti gli altri esseri viventi non hanno una struttura simile alla lingua umana. È solo degli uomini la capacità di produrre sequenze di parole potenzialmente infinite, nelle quali gli stessi elementi danno significati diversi, talvolta opposti, in base all’ordine: Caino uccise Abele, Abele uccise Caino. Negli anni Settanta, si è visto che gli scimpanzé, così simili a noi, riescono ad apprendere un numero notevole di parole (circa 130), ma senza poterle ordinare all’infinito né con significati diversi. Hanno sequenze di segnali non espandibili e che non cambiano senso.
da R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano, 2001, p. 174
Fiori e frutti sono maturi quando cadono; gli animali si sentono e si trovano l’un l’altro e sono soddisfatti. Ma noi, che ci siamo prefissi Dio, non possiamo essere pronti. Spostiamo in avanti la nostra natura come le sfere dell’orologio. Abbiamo ancora bisogno di tempo.
Da papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015 (cfr. Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «In Congresso, 4 luglio 1776 Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione. Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità»
In questo luogo, che è un simbolo del modello degli Stati Uniti d’America, vorrei riflettere con voi sul diritto alla libertà religiosa. È un diritto fondamentale che plasma il modo in cui noi interagiamo socialmente e personalmente con i nostri vicini, le cui visioni religiose sono diverse dalla nostra. L’ideale del dialogo interreligioso, in cui tutti gli uomini e le donne di diverse tradizioni religiose possono dialogare senza litigare. Questo lo consente la libertà religiosa.
La libertà religiosa implica certamente il diritto di adorare Dio, individualmente e comunitariamente, come la propria coscienza lo detta. Ma la libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, come pure la sfera degli individui e delle famiglie. Perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione.
Le nostre diverse tradizioni religiose servono la società anzitutto mediante il messaggio che proclamano. Esse invitano gli individui e le comunità ad adorare Dio, fonte di ogni vita, della libertà e della bontà. Ci richiamano la dimensione trascendente dell’esistenza umana e la nostra irriducibile libertà di fronte ad ogni pretesa di qualsiasi potere assoluto. Dobbiamo accostarci alla storia – ci fa bene accostarci alla storia –, specialmente a quella del secolo scorso, per vedere le atrocità perpetrate dai sistemi che pretendevano di costruire questo o quel ‘‘paradiso terrestre’’ dominando i popoli, asservendoli a principi apparentemente indiscutibili e negando loro qualsiasi tipo di diritto. Le nostre ricche tradizioni religiose cercano di offrire significato e direzione, «posseggono una forza motivante che apre sempre nuovi orizzonti, stimola il pensiero, allarga la mente e la sensibilità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 256). Esse chiamano alla conversione, alla riconciliazione, all’impegno per il futuro della società, al sacrificio di sé nel servizio al bene comune, e alla compassione per coloro che sono nel bisogno. Al cuore della loro missione spirituale, si trova la proclamazione della verità e della dignità della persona umana come pure dei diritti umani.
Le nostre tradizioni religiose ci ricordano che, come esseri umani, noi siamo chiamati a riconoscere l’altro/l’Altro che rivela la nostra identità relazionale di fronte ad ogni tentativo di instaurare una «uniformità che l’egoismo del forte, il conformismo del debole, o l’ideologia dell’utopista potrebbero cercare di imporci» (M. de Certeau).
In un mondo dove le diverse forme di tirannia moderna cercano di sopprimere la libertà religiosa, o – come ho detto prima – cercano di ridurla a una subcultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica, o ancoracercano di utilizzare la religione come pretesto per l’odio e la brutalità, è doveroso che i seguaci delle diverse tradizioni religiose uniscano le loro voce per invocare la pace, la tolleranza e il rispetto della dignità e dei diritti degli altri.
Viviamo in un’epoca soggetta «alla globalizzazione del paradigma tecnocratico» (Enc. Laudato si’, 106), che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Le religioni hanno quindi il diritto e il dovere di far comprendere che è possibile costruire una società in cui «un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 255) è un «prezioso alleato nell’impegno per la difesa della dignità umana […] una via di pace per il nostro mondo ferito» (ibid., 257) dalle guerre.
2/ Il sabato in Genesi 1 (l’ipotesi di un Priester Codex, P)
L'uomo è fatto per Dio: il riposo del sabato, da Presentare Genesi 1 e 2: Adamo, Eva e la creazione del mondo nell’annuncio della fede e nella catechesi, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it)
Che l'uomo sia fatto per Dio emerge anche dalla scansione di Genesi 1 che si basa sullo schema settenario dei giorni. La creazione non si arresta all'uomo, ma giunge al “riposo”! Il termine shabbat viene dal verbo ebraico shabatche vuol dire “riposare”, “fermarsi”, “arrestarsi” – la nostra settimana ricorda le origini pagano-ebraico-cristiane della nostra civiltà: lunedì-Luna, martedì-Marte, mercoledì-Mercurio. giovedì-Giove, venerdì-Venere, sabato-Shabbat, domenica-Dies Domini, 5 nomi di origine pagana, uno di origine ebraica, uno di origine cristiana.
Qui è evidente come la catechesi debba imparare dall’esegesi storico-critica. All’autore di Genesi 1 non importa assolutamente nulla della numerazione da 1 a 6: quello che gli interessa è mostrare che esistono fin dall’inizio del mondo 6 giorni di lavoro ed 1 di riposo: è il 6 contro 1, non l’1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, che ha a cuore.
Ogni attività catechetica che cerca di riproporre un attività per ognuno dei 6 giorni nasce da un’incomprensione del testo biblico. Al testo biblico interessa il settimo, il senso dei “sei” giorni di lavoro di Dio che giunge infine al suo “giorno di riposo”.
Dio crea, ma soprattutto gode di ciò che ha creato. Egli si “ferma” nel settimo giorno per contemplare l'opera sua e trovarla buona e gioirne. Dicono i maestri ebrei che proprio qui si manifesta la suprema libertà di Dio che non è solo quella di “fare”, ma anche quella di “cessare” di operare per gioire.
C’è un bellissimo testo di un rabbino moderno, Isidor Grunfeld, che dice a questo proposito[23]:
«Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: "Basta".
L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazioneda Lui attuata secondo la Sua volontà. Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio. E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso. Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso».
Se Dio è Dio non tanto perché crea, ma soprattutto perché gode di aver creato, anche la libertà dell’uomo si manifesta nel fatto che egli non solo lavora, ma può soprattutto astenersi dal lavorare. La vera libertà è fermarsi, godere, celebrare, pregare. Ed in effetti lo si sperimenta nell’esperienza: un padre di famiglia può lavorare talmente tanto da distruggere la sua famiglia ed il suo equilibrio mentale. Se non riposa, se non stacca dal lavoro, se non mette qualcosa al di sopra del lavoro, accadrà che il lavoro, divenuto idolo, distruggerà lui. Chi non osserva il ritmo del riposo – ed in esso il giorno della festa comandata da Dio - perde alla fine anche l’amore, logorando i rapporti più cari.
Tanti genitori che accompagnano i figli alla catechesi si lamentano perché vorrebbero almeno la domenica riposarsi e stare in famiglia: ebbene bisogna rispondere loro che, se non verranno a messa, non si riposeranno e non staranno in famiglia! Dio ha fatto la domenica esattamente perché l’uomo arrivi stanco a messa, ma ne esca rinfrancato, avendo compreso che Dio è con lui nella fatica del lavoro. E Dio ha voluto la celebrazione eucaristica perché la famiglia, che altrimenti vivrebbe la domenica dispersa – questo vero ancora di più oggi, poiché ognuno ha il proprio smartphone – possa radunarsi insieme e dialogare intorno alla mensa del Signore. Ed è l’esperienza vera che sentiamo testimoniare tante volte: ero arrivato a messa stanco, ma ne sono uscito rinfrancato. Lo stesso si potrebbe dire della Confessione, quel sacramento che sempre rimandiamo e che invece, ci rigenera non appena ci accostiamo ad essa. […]
Se Israele, cioè, non avesse osservato il sabato nei secoli, si sarebbe estinto come popolo ebraico: senza la celebrazione del sabato Israele sarebbe scomparso dalla storia. Ad Auschwitz gli ebrei cercavano di osservare il sabato: sembra incredibile, ma in quelle orribili condizioni in cui erano tenuti, pregavano. Anche i cristiani ad Auschwitz facevano lo stesso. Massimiliano Kolbe celebrava la Messa, sapeva i salmi a memoria e poteva recitare le Lodi, per lodare Dio dentro Auschwitz, ed è anche questo che ha salvato la dignità dell’uomo in quel luogo infernale, è questo che ha dato la forza per vivere la carità e non divenire disumani.
È importantissimo, allora, rendersi conto che Genesi pone il sabato, il rito, la festa, al principio della Bibbia, prima ancora dello svolgimento di tutta la storia della salvezza.
Il rito, il tempo liturgico - si potrebbe dire - sono le prime cose che la Bibbia sottolinea, fin dal suo inizio: non vengono dopo, al momento dell'ingresso nella Terra Santa o quando viene eretto il Tempio. No, la liturgia è la prima cosa. Perché l'uomo, solo tramite il rito, può rivolgersi a Dio e farne esperienza[27]. L'uomo non è fatto solo per essere compartecipe della creazione con Dio nelle sue opere, l'uomo non è fatto solo per il lavoro, bensì è fatto per la lode, per il ringraziamento: ma questa lode matura nei segni liturgici.
All'uomo, immagine di Dio, è dato di potersi riposare a somiglianza del suo Creatore. Ed il riposo non è semplice cessazione del lavoro per una distrazione effimera e passeggera. Molto più è riscoperta, attraverso il rito celebrato nella fede, che niente di ciò che è fatto secondo la volontà di Dio andrà perduto, perché la provvidenza divina è in grado di far fruttificare nel centuplo e per l'eternità il bene.
Anche Gen 1,14 ricorda il tempo festivo: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni». In effetti Genesi 1 - affermano gli esegeti - è stato redatto da un autore di ambiente sacerdotale che voleva sottolineare la rilevanza del culto (tale fonte viene denominata negli studi moderni come Priestercodex ed abbreviata con la lettera P, sottolineando proprio che è un ambiente di “preti veterotestamentari” attenti al sabato ed al culto ad averlo scritto).
Questo è l’unica cosa che si deve sottolineare quando si parla dei sette giorni della creazione: non la scansione in 6 giorni delle creature, bensì il settimo giorno che da loro significato - didatticamente bisognerebbe, ad esempio, far realizzare due disegni, il primo con Dio e l’uomo che creano ed il secondo con Do e l’uomo che riposano.
Genesi 1 annunzia ciò che la fede cattolica e Sant’Ignazio di Loyola in particolare condenseranno nel dire che l’uomo è stato creato ad maiorem Dei gloriam, l’uomo è uomo perché dà lode a Dio. Se l’uomo non ringrazia Dio ha perso la sua umanità. L’uomo è uomo perché riscopre la sua relazione con Dio, altrimenti si disumanizza.
Faccio sempre l’esempio di mia madre, che era una di quelle donne che non stanno mai ferme. Aveva quattro figli, ogni giorno doveva fare dieci telefonate per augurare buon compleanno o anniversario a parenti ed amici, poi altre per chiedere notizie a persone che erano malate o in difficoltà, preparava i dolci per l’oratorio, faceva la catechista, ci seguiva nei compiti, si preoccupava di riparare gli oggetti che si rompevano perché ricomprarli significava sprecare dei soldi. Alla fine della giornata iniziava a recriminare con noi che continuavamo a giocare come avevamo fatto tutto il tempo: “Ecco, voi state solo a giocare, io ho fatto tante cose!”, e noi puntualmente rispondevamo: “Mamma, ma chi te lo ha chiesto?”. Non è vero che non avrebbe potuto fermarsi un’ora, leggere un libro, pregare, è che l’uomo non si sa riposare, lavora ma non sa gioire del lavoro fatto.
mosaici Duomo di Monreale
(1180-1190 d.C.): Requievit
Dominus die septimo ab
omni opere quod paraverat.
3/ Il sabato nel decalogo
Es 20,8 Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Dt 5,12 Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.
4/ Il sabato nella vita del popolo ebraico
Da Gugenheim E., L’ebraismo nella vita quotidiana, Editrice La Giuntina, Firenze 1994, pp. 65-74
LO SHABBATH
1. Premessa
Il popolo di Israele ha una magnifica istituzione che gli è propria: è il giorno santo e venerabile di Sua Maestà lo Shabbath. Nell'immaginazione popolare, lo Shabbath è divenuto una persona vivente, con un corpo, dei connotati, risplendente d'oro e di bellezza. Quando il Santo, benedetto Egli sia, ebbe terminato l'opera della creazione, introdusse nell'universo lo Shabbath «affinché il baldacchino nuziale che era stato appena elevato non rimanesse privo della sposa». Per lo Shabbath, meraviglia preferita tra tutti i tesori che possiede, il Santo, benedetto Egli sia, non trovò che Israele che formasse con lui una coppia perfetta(Bialik).
Senza dubbio l'idea dello Shabbath, il riposo settimanale, simbolo di libertà e di dignità umana e giorno di rinascita spirituale, è uno degli elementi fondamentali dell'eredità che Israele ha trasmesso all'umanità. Ma per il popolo di Mosè ha mantenuto un carattere, un'atmosfera specifici.
I Maestri hanno scritto: «Chiamerai lo Shabbath tua delizia», «Niente potrà mai uguagliare la benedizione spirituale che l'ebreo osservante trova nel riposo così dolce, nella tranquillità così perfetta dello Shabbath».
Si narra che un generale romano chiese a rabbi Josuè: «Perché i cibi dello Shabbath emanano un profumo così buono?», ed egli rispose: «Noi abbiamo una spezia speciale chiamata Shabbath ed è il suo profumo che tu respiri». Il generale romano disse allora: «Dammela!», ma Rabbi Josuè di rimando: «Chiunque osserva lo Shabbath può goderne, ma non è di nessuna utilità per chi non l'osserva».
L'osservanza dello Shabbath comprende il duplice aspetto di shamor e zakhor,osserva e ricorda, parole usate all'inizio del quarto comandamento del Decalogo, una volta nell'Esodo, l'altra nel Deuteronomio, e che, secondo la Tradizione orale, furono pronunciate insieme dal Signore sul Sinai. La prima esprime il lato «negativo» o passivo: l'astensione dal lavoro, il riposo; mentre la seconda si riferisce alla santificazione positiva, a ciò che deve essere fatto di Shabbath: i tre pasti obbligatori, il Qiddush, l'Havdalà, la preghiera e lo studio della Torà, al fine di favorire lo schiudersi e l'espandersi «dell'anima supplementare», neshamà yetherà,di cui gode il fedele in questo giorno.
A tutti i componenti della famiglia ebraica, compresi gli animali, è stata comandata l'astensione completa dal lavoro e la trasgressione di questo comandamento, se voluta e cosciente, equivale a negare l'esistenza del Dio Creatore del mondo e Redentore, in Egitto, del popolo ebraico.
È la Legge orale ad aver stabilito tutti i lavori proibiti, solo una parte dei quali è menzionata nella Legge scritta; la Mishnà ne distingue trentanove principali (avoth melakhoth)la cui caratteristica è quella di essere lavori che furono necessari per la costruzione del Tabernacolo nel deserto.
«Osserverete i Miei sabati e rispetterete il Mio Santuario, Io sono il Signore» (Lev 26,2).
Questi lavori comprendono principalmente quelli che riguardano la preparazione del cibo, dei vestiti, i lavori di casa, l'utilizzazione della scrittura, l'accensione del fuoco, ma anche il compimento di un'opera (l'ultimo colpo di martello) e il trasporto di un oggetto da un luogo privato a uno pubblico. In ultima analisi abbracciano tutti i settori dell'attività umana in una prospettiva in cui il lavoro non è misurato in base allo sforzo necessario per compierlo, ma è concepito come a realizzazione di un’idea applicata a un oggetto, destinata a creare, a produrre o a trasformare (S.R. Hirsch).
I profeti hanno proibito anche le transazioni commerciali che stricto sensu non rientrano nelle categorie dei trentanove lavori proibiti, ma che sono intrinsecamente incompatibili con lo spirito dello Shabbath.
«Se tratterrai di sabato il tuo piede dal fare il tuo interesse nel giorno a Me sacro, e chiamerai il sabato delizia, consacrato al Signore e onorato, e se lo onorerai tralasciando il tuo cammino, dall'occuparti dei tuoi affari e dal parlarne, allora ti delizierai in onore del Signore, e Io ti farò nutrire col retaggio di tuo padre Giacobbe» (Is 58,13-14). (Vedi anche Nehemia 13,15-17).
Ispirandosi a queste raccomandazioni e nell'intento di circondare le proibizioni divine con una «siepe» invalicabile, i Maestri vi hanno aggiunto alcune proibizioni dette «rabbiniche». Così sono state proibite diverse attività di carattere profano (uvdane dechol)come la musica strumentale, il nuoto, l'equitazione, l'utilizzo dei mezzi di trasporto. Di Shabbath tutti gli utensili o strumenti che servono per un «lavoro» sono dichiarati muqtzè e cioè soppressi dal pensiero e dall'uso, ed è proibito prenderli perfino in mano. Durante queste ventiquattro ore, allo scopo di estendere all'anima il dovere della santificazione, anche la tristezza e le preoccupazioni devono essere messe da parte.
Dice Il Midrash: «Dio benedisse il giorno di Shabbath e lo santificò»(Bereshith Rabbà). Egli lo benedisse con lo splendore del volto umano, lo santificò con lo splendore che il volto umano ha durante lo Shabbath. Nel Cantico dei Cantici, la fanciulla, simbolo del popolo di Israele, esclama: «Sono nera, ma sono bella», e i Maestri hanno dato la seguente interpretazione: «sono nera» durante la settimana, «ma sono bella» durante lo Shabbath.
2. Il venerdì
Il venerdì, molto prima dell'ora che segna l'entrata dello Shabbath, la casa ebraica è tutta tesa nell'attesa dell'ospite meraviglioso. Fin dal momento del risveglio, la giornata assume un'atmosfera particolare: vengono fatte grandi pulizie domestiche e la cucina è in grande fermento. Anche il ba'al habbayth,il padrone di casa, seguendo l'esempio di illustri rabbini del Talmud, ci tiene ad avere l'onore di partecipare alla preparazione dei pasti sabbatici. La tradizione ci tramanda che Ravà salava il pesce, Rav Papà intrecciava lo stoppino, Rabbà e Rav Josef spaccavano la legna.
A pranzo è tradizione mangiare di magro in previsione del lauto pasto della sera; spesso nel primo pomeriggio la tavola è già pronta per la sera. Verso l'imbrunire l'agitazione si calma: il lavoro da fare in previsione dello Shabbath, che sembrava impossibile da terminare nel breve lasso di tempo a disposizione, è stato terminato. La cucina a gas è stata coperta con una lastra sotto la quale brucia una piccola fiamma destinata a mantenere caldi i cibi per la cena e per riscaldare quelli dell'indomani. Nel frattempo ognuno ha indossato i vestiti eleganti per andare incontro alla principessa Shabbath. Questa accoglienza deve aver luogo prima del crepuscolo per aggiungere un po' di profano al giorno sacro.
3. Il venerdì sera
«Andiamo, glorifichiamo il Signore con i nostri canti, acclamiamo la Roccia della nostra salvezza!».
È con le parole gioiose dei Salmi 95 e 99 e del Salmo 29 che Israele si prepara a ricevere lo Shabbath prima di intonare Lekhà Dodì,inno composto nel XVI secolo a Safed dal cabbalista Shelomò Halevy Alkabetz e adottato in tutte le comunità di Israele.
Vieni o mio caro incontro alla sposa, accogliamo la festa. Osserva e ricordacontemporaneamente ci ha fatto sentire il Dio unico; il Signore è Uno e il Suo Nome è Uno, e ciò Gli è di fama, di gloria e di lode.
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. Incontro alla festa su, andiamo, perché essa è la fonte di benedizione; dall'inizio, dalle origini, essa è stata eletta; fu creata alla fine dell'azione, ma nel pensiero ne era il principio.
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. O Santuario del Re, città regale alzati, esco dallo stato opposto a quello normale; sei stata abbastanza nella valle di lacrime, ed Egli avrà pietà di te [...].
Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa. Vieni in pace o corona del tuo sposo, con allegria, con canto e con giubilo, in mezzo ai fedeli del popolo, tesoro vieni, o sposa vieni, o sposa.
Dopo la recitazione del Salmo 92, cantico per il giorno di Shabbath, e il Salmo 93, che esalta la grandezza di Dio nella natura, inizia il servizio della sera.
Tra la seconda benedizione che segue lo Shemà e il Qaddish dell'officiante che precede la ‘Amidà, si cantano i versetti biblici «Veshamerù»:«I figli di Israele osserveranno lo Shabbath in tutte le loro generazioni, alleanza immutabile. Tra me e i figli di Israele c'è il simbolo perpetuo che in sei giorni il Signore ha fatto i cieli e la terra e il settimo giorno si è riposato e ha ripreso respiro». Questo brano è molto popolare e viene cantato con melodie diverse nelle varie comunità.
La 'Amidà [preghiera in piedi] dello Shabbath ha solo sette benedizioni e le prime tre e le ultime tre inquadrano la benedizione centrale. Il servizio religioso è per così dire coronato dal Qiddush sul vino. L'importanza data a questa «santificazione» durante il servizio religioso in sinagoga è piuttosto singolare poiché in origine tale santificazione era riservata alla famiglia riunita intorno alla tavola nella propria casa. L'origine di questa usanza risale all'epoca in cui i poveri o i viaggiatori di passaggio mangiavano in una sala attigua alla sinagoga per cui in quel caso il rito non contrastava con la Halachà.
Mentre la comunità riceve lo Shabbath in sinagoga, questi fa la sua entrata anche nelle case ebraiche: cessa ogni lavoro, le luci sfavillano in tutte le stanze (un meccanismo a orologeria provvederà a spengerle al momento di andare a letto e a riaccenderle la mattina seguente). La ba'alath habbayth,la padrona di casa, deve adempiere al dovere religioso di accendere le candele dello Shabbath prima dell'ora in cui i fedeli in preghiera abbiano dato il benvenuto alla «sposa». Il numero delle candele varia, ma non può essere inferiore a due. Facendo schermo con le due mani per proteggersi gli occhi dal loro splendore di cui ancora non vuole gioire, la padrona di casa recita la benedizione che introduce lo Shabbath nella casa: «Benedetto sia Tu, o Signore, Nostro Dio, Re dell'universo, che ci hai santificato con i tuoi comandamenti e ci hai comandato di accendere le luci dello Shabbath».
Sulla tavola apparecchiata, accanto a un bicchiere d'argento per il vino, sono posati due pani intrecciati ricoperti da un tovagliolo ricamato: sono i simboli della benedizione divina e ricordano la doppia razione di manna che cadeva il venerdì.
Rabbì Josè ben Judà diceva: «Due angeli accompagnano l'uomo il venerdì sera al ritorno dalla sinagoga, uno buono e uno cattivo. Quando rientra nella sua casa e trova le luci accese e la tavola pronta, l'angelo del bene dice: «Piaccia al cielo che sia così anche il prossimo Shabbath!», e l'angelo del male risponde a malincuore: «Amen». Se invece la casa non è pronta per lo Shabbath, è l'angelo del male a dire: «Che sia così anche il prossimo sabato!», e l'angelo del bene è costretto a rispondere a malincuore: «Amen».
Quando la famiglia è tutta riunita, i genitori benedicono i figli ponendo loro le mani sulla testa e recitano per i figli maschi l'antica formula del patriarca Giacobbe: «Possa Dio renderti simile a Efraim e Manasse», mentre per le figlie l'augurio è di diventare come Sara, Rebecca, Rachele e Lea. Il capofamiglia impartisce poi la benedizione sacerdotale a tutti i componenti della famiglia, dopodiché tutti insieme intonano un cantico di benvenuto agli angeli dello Shabbath: «Che la pace sia su di voi, angeli del divino servizio, angeli del Dio Supremo...», a cui fa seguito l'elogio della Esheth chail,la donna virtuosa, così come fu scritto da Salomone nel capitolo 31 dei Proverbi. A questo punto il padre, sollevando la coppa con il vino, pronuncia le parole del Qiddush; taglia poi il pane e ne distribuisce a ciascuno un pezzetto, l'hammotzì.Il pasto va avanti intercalato dalle zemiroth,i canti sabbatici, e da Divré Torà, una conversazione istruttiva quasi sempre sul tema della sidrà del giorno.
Secondo una antica tradizione culinaria, rispettata quasi in tutte le comunità, il pasto del venerdì sera è a base di pesce e carne. Naturalmente le ricette variano da regione a regione, dalla carpa all'aglio alsaziana al gefillter fisch polacco e al cuscus nord-africano, una pietanza che ricorda la manna «che somigliava a semi di coriandolo».
4. La giornata dello Shabbath e la lettura della Torà
Il servizio religioso dello Shabbath ricalca quello dei giorni feriali, ma con molte aggiunte di salmi e inni che celebrano la gloria di Dio e la santità di questo giorno, destinati a immergere il fedele nell'atmosfera di gioiosa serenità propria dello Shabbath. Come negli altri giorni di festa, la lettura della Torà, una delle più antiche istituzioni liturgiche, stabilita da Mosè e completata da Esdra, rappresenta la parte centrale del servizio religioso. La Torà è stata pertanto suddivisa in cinquantaquattro sezioni, sidroth o parashiyoth,corrispondenti al numero dei sabati nell'anno più lungo. Le esigenze del calendario obbligano talvolta a unire due sidroth che vengono lette nello stesso sabato. Nel pomeriggio dello Shabbath, durante le feste e i digiuni e, come abbiamo già detto, il lunedì e il giovedì vengono letti passi tratti dal Pentateuco «affinché Israele non debba restare più di due giorni senza Torà».
Il «Rotolo» della Torà viene estratto dall'Aron Haqqodesh (l'Arca santa) con solennità e viene cantato il versetto: «Quando l'Arca si metteva in movimento, Mosè diceva: "LevaTi, o Signore, che i Tuoi nemici siano dispersi, che i tuoi avversari fuggano davanti a Te...» (Num 10,35).
Il Rotolo prescelto è portato in processione ed è oggetto della devozione dei fedeli. La stessa cerimonia si ripete dopo la lettura della Torà, quando il Sefer viene nuovamente riposto e viene letto il versetto: «E quando si fermava, egli diceva: Torna a sederti fra le miriadi di Israele» (Num 10,36).
Sette uomini sono «chiamati» uno dopo l'altro a leggere una sezione della sidrà che a tale scopo è divisa in sette pisqòth.La prima «chiamata», se sono presenti, è riservata a un kohen e la seconda a un levita. Ai nostri giorni un Ba'al Koré,un lettore, si sostituisce a coloro che sono stati chiamati a leggere la Torà, i quali intervengono solo per recitare le benedizioni prescritte prima e dopo la lettura della pisqà assegnata. La lettura viene eseguita con una intonazione che risale all'antichità. Terminata la Parashà, un ultimo fedele, il maftir, viene chiamato a rileggere gli ultimi versetti. Inoccasione di alcuni sabati speciali, del Rosh Chodesh, e nei giorni di festa, la parte letta dal maftir è tratta da un'altra sezione e generalmente viene estratto dall'Aron un secondo Sefer. Egli poi recita, seguendo una determinata intonazione, la Haftarà, un brano tratto dai libri profetici, che presenta una analogia o un collegamento con il contenuto della Parashà.
Una volta terminata la lettura, il Sefer viene sollevato (hagbahà)e mostrato a tutti i fedeli che esclamano: «Ecco la Legge che Mosè, per ordine di Dio, ha presentato ai figli di Israele. Essa è un albero di vita per coloro che vi si aggrappano, felici coloro che si appoggiano su di lei!».
I sefarditi anticipano questa cerimonia al momento in cui il Sefer viene aperto per essere letto.
Il Sefer infine viene nuovamente arrotolato e rivestito (ghelilà),prima con la mappà, una fascia, e poi con il manto.
Dopo la Haftarà, il rabbino invoca la benedizione divina sui Dottori della legge, sulla comunità, sullo Stato e i suoi governanti e, ai nostri giorni, sullo Stato di Israele.
La preghiera di Musaf, ricordo dei sacrifici supplementari offerti al Tempio nel giorno di Shabbath e durante le feste, conclude il servizio religioso. Dobbiamo sottolineare ancora che, al momento della ripetizione della 'Amidà, la Qedushà è cantata con particolare solennità.
La giornata di sabato
Il Qiddush sul vino e sul pane viene ripetuto a casa prima del secondo pasto sabbatico che, a seconda del paese, è composto da vari piatti tradizionali: il kugel,il tcholent,la tefina.Le ultime ore dello Shabbath passano lentamente, in un clima di dolcezza e di benessere, di distensione fisica e psichica. Mentre la mente si rilassa sfuggendo perfino alla tirannia del telefono, lo spirito, libero da ansie e preoccupazioni materiali, può dedicarsi con delizia allo studio, l'Oneg Shabbath. Tristezza, lacrime, lutti sono banditi; è il tempo consacrato alla vita nella propria famiglia, ai figli, agli ospiti. «Come arriva la sera, ci si sente pervasi dal rimpianto di dover già lasciare questo stato di felicità passato troppo in fretta; rimpianto addolcito però dalla consapevolezza che fra otto giorni ci sarà uno Shabbath ancora più delizioso» (E. Weil).
Un tempo la preghiera di Minchà era seguita da derashoth (sermoni), che ai nostri giorni sono stati sostituiti, in inverno, dalla recitazione del salmo 104 e dai salmi che vanno dal 120 al 134 e durante l'omer con la lettura di un capitolo dei Pirké Avoth,il trattato della Mishnà che raccoglie le massime religiose e morali dei Tannaim.
Ci si siede poi a tavola per l'ultimo dei tre pasti sabbatici obbligatori (Seudà Shelishith)che si prolunga fino al calar della sera.
Havdalà
Con la cerimonia della Havdalà, dopo Ma'ariv, la preghiera della sera, si prende congedo dallo Shabbath prima in sinagoga e poi nuovamente a casa.
Un bicchiere di vino riempito fino all'orlo in segno di abbondanza e una scatoletta di metallo o di legno contenente varie spezie odorose vengono posti davanti all'officiante o al capofamiglia. Al suo fianco un bambino tiene in mano una candela intrecciata con gli stoppini accesi. L'officiante recita la benedizione sul vino, simbolo di gioia; sulle spezie, il cui profumo ha lo scopo di trattenere l'anima di tutti i giorni che vorrebbe seguire la Neshamà Yetherà,l'anima dello Shabbath, quando se ne va; poi sulle luci della candela la cui fiamma ricorda che la luce fu creata il sabato sera e segna il momento della ripresa del lavoro per la settimana che sta per iniziare. La scatola dei profumi viene passata di mano in mano, e, dopo aver lodato Colui che «separa il sacro dal profano», chi guida la cerimonia beve il vino e ne versa una piccola parte per spengere la candela.
da E. Bianchi, Giorno del Signore, giorno dell’uomo, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.10
La coscienza della centralità e della basilarità del sabato nella fede giudaica è tale che si è potuto arrivare ad affermare: “ Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele”. Così dice Achad Ha-am, Al parashat derakim, III,c.30 (cit. in: Le livre du chabbat. Recueil de textes de la letterature juive, a cura di A. Pallière- M. liber, Paris 1974, p.61). Achad Ha-Am (=”uno del popolo” è pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg (1856-1927).
Le testimonianze che congiungono strettamente il sabato all’identità ebraica potrebbero moltiplicarsi. Ne cito due: “Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato” (Y.Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p.89); “Senza lo Shabbat, né Israel, né Erez Israel, né la cultura ebraica possono sopravvivere”: queste sono parole del poeta Chajjim Nachman Bialik (1873-1934) contenute nelle sue Epistole (Iggherot) pubblicate in 5 volumi nel 1938-39.
Nell’arte di ispirazione ebraica troviamo frequentemente rappresentata la liturgia familiare dello Shabbat come, ad esempio, in Marc Chagall.
Qumran
Leggiamo nel cosiddetto Documento di Damasco, uno dei testi che ci riportano all’interpretazione delle Scritture che veniva fornita a Qumran:
«Nessuno aiuti a partorire un animale, il giorno del sabato. E se cade in un pozzo o in una fossa non lo si tiri su, di sabato. Nessuno profani il sabato per ricchezza o guadagno, di sabato… E ogni uomo vivo che cade in un luogo di acqua o in un luogo, nessuno lo tiri su con una scala, una corda o un utensile. Nessuno offra nulla sull’altare di sabato, tranne il sacrificio del sabato, perché così è scritto: soltanto le vostre offerte del sabato».
La setta degli esseni si opponeva al giudaismo del Tempio ed a quello farisaico perché riteneva che entrambi si fossero allontanati da un’osservanza rigorosa dei precetti legali: il gruppo di Qumran affermava, invece, che essi fossero da custodire secondo una interpretazione rigorosissima, più rigida di quella farisaica.
Giuseppe Flavio è fonte ulteriore che conferma questa obbedienza estrema alla Torah propugnata dagli esseni. È famoso un suo passaggio che ricorda come essi, a partire dall’affermazione della Scrittura che dichiarava impuro l’uomo che aveva appena compiuto le proprie “attività espletorie”, giungessero a richiedere una immediata purificazione:
«Con più rigore di tutti gli altri giudei si astengono dal lavoro nel settimo giorno; non solo infatti si preparano da mangiare il giorno prima, per non accendere il fuoco quel giorno, ma non ardiscono neppure di muovere un arnese né di andare di corpo. Invece, negli altri giorni, scavano una buca della profondità di un piede con la zappetta - a questa infatti assomiglia la piccola scure che viene consegnata da loro ai neofiti -, e avvolgendosi nel mantello, per non offendere i raggi di Dio, vi si siedono sopra. Poi gettano nella buca la terra scavata, e ciò fanno scegliendo i luoghi più solitari. E sebbene l’espulsione degli escrementi sia un fatto naturale, la regola impone di lavarsi subito dopo come per purificarsi da una contaminazione».
4.1/ Gesù e il sabato
Gesù si “divertiva” a operare miracoli di sabato… il sabato, giorno della pienezza della vita, della gioia
Mc 1, 21Giunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. 22Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. 23Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, 24dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 25E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». 26E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Eb 4 Noi, che abbiamo creduto, entriamo in quel riposo, come egli ha detto:
Così ho giurato nella mia ira:
non entreranno nel mio riposo!
Questo, benché le sue opere fossero compiute fin dalla fondazione del mondo. 4Si dice infatti in un passo della Scrittura a proposito del settimo giorno: E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere. 5E ancora in questo passo: Non entreranno nel mio riposo! 6Poiché dunque risulta che alcuni entrano in quel riposo e quelli che per primi ricevettero il Vangelo non vi entrarono a causa della loro disobbedienza, 7Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo:
Oggi, se udite la sua voce,
non indurite i vostri cuori!
8Se Giosuè infatti li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato, in seguito, di un altro giorno. 9Dunque, per il popolo di Dio è riservato un riposo sabbatico. 10Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. 11Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.
Eb 1113Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. 15Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
5/ La domenica
Il primo giorno dopo il sabato
Mt 281Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba.
Mc 16,1Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. 2Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. 9Risorto al mattino, il primo giorno dopo il sabato, Gesù apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva scacciato sette demòni.
Lc 24,1Il primo giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato.
Gv 201Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso:
1Cor 16, 1-2 «Riguardo poi alla colletta in corso a favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana (κατὰ μία σαββάτου) ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando vengo io».
At 20, 7 «Il primo giorno della settimana eravamo riuniti per spezzare il pane. Paolo, che doveva partire il giorno dopo, discorreva con essi e prolungò il discorso fino a mezzanotte».
La Chiesa, istruita dalla resurrezione di Gesù, ha compreso che il sabato trova il suo compimento nel “giorno del Signore”: nel giorno di Pasqua diviene evidente che tutto ciò che esiste non è fatto per la morte, ma per l'eternità di Dio. Quel giorno redime e conferisce significato a tutte le fatiche dell'uomo sulla terra. Per questo, se ci si dimentica di “santificare le feste”, si cade in peccato mortale: regna la morte, infatti, dove la speranza della fede non illumina più il cammino. Già nell’Apocalisse compare il termine cristiano “domenica”, cioè “giorno del Signore” (Ap 1,10, chiaramente nella lingua greca e non ancora in latino). Si vede cioè subito che per la Chiesa primitiva il giorno santo non è più il sabato, ma il primo giorno dopo il sabato, più precisamente la domenica. Come fa Giovanni, ebreo, a dire: “Non celebriamo più il sabato, ma la domenica?” Perché di domenica è successo qualcosa di più importante, Gesù è risorto! Il fatto che si sposti la festa alla domenica è una prova della Resurrezione di Cristo.
Excursus: Halloween
cfr. ora anche Halloween: la mia dichiarazione in merito, di Andrea Lonardo
- Da Cari cattolici, Halloween l’abbiamo inventata noi. Non lasciamocela scippare da streghette e satanisti, di Giovanna Jacob
Questa storia inizia a Roma nell’ottavo secolo dopo Cristo. Fra il 731 e il 741, un papa (Gregorio III) decise che ogni 1 novembre si festeggiasse l’anniversario della dedicazione della cappella di San Pietro alle reliquie “dei santi apostoli e di tutti i santi, martiri e confessori, e di tutti i giusti resi perfetti che riposano in pace in tutto il mondo”. Era nata la festa di Ognissanti, che un secolo dopo divenne festa ufficiale in tutti i territori dell’impero carolingio. Alle soglie del secondo millennio, precisamente nel 998, S. Odilo, abate del potente monastero di Cluny, decise che ogni 2 novembre i fedeli che abitavano nei dintorni del monastero pregassero per i fedeli defunti. Era nata la festa dei morti, che si diffuse rapidamente in tutta Europa.
E così due nuove feste si aggiungevano a quelle del calendario liturgico, che nel Medioevo erano molto più numerose di quelle che, a stento, sopravvivono oggi. Infatti, i cristiani amavano fare festa, perché la fede li rendeva ottimisti. Inoltre, non distinguevano fra feste “sacre” e feste “profane”: tutte le feste erano infatti allo stesso tempo “sacre” e “profane” in senso buono, in quanto nei giorni di festa non ci si limitava ad andare a messa e fare gesti devozionali ma letteralmente si “faceva festa”, ossia si mangiava in compagnia, si ballava, si scherzava e si rideva. Tutt’oggi a Natale e Pasqua non ci limitiamo ad andare a messa. Il fatto che ancora oggi si usi preparare dolci speciali per il giorno dei morti (ad esempio le “ossa dei morti”) indica chiaramente che in passato si “faceva festa” anche il 2 novembre.
- Da La notte di Halloween e la festa cristiana dei santi: opposizione o continuità? Appunti in chiave educativa per la scuola e la catechesi in forma di recensione a La notte delle zucche. Halloween: storia di una festa di P. Gulisano e B. O’Neill, di Andrea Lonardo
Il nome Halloween è indiscutibilmente termine di origine cristiana; è parola composta da hallow, ‘santificare’, ed eve, abbreviazione di evening, ‘sera’. Halloween, insomma, deriva da All Hallow's Eve e vuol dire semplicemente ‘Sera della festa dei Santi’, ‘Vigilia della festa dei santi’.
La chiesa cattolica fa memoria, infatti, l’1 novembre di tutti i santi e la sera del 31 ottobre è appunto la vigilia della festa.
Ma l’1 novembre era il giorno della festa celtica di Samhain ed alcune delle tradizioni dell’odierna Halloween vi rimandano.
Cosa è avvenuto? Perché questa coincidenza? Halloween è una festa pagana o cristiana? Siamo dinanzi ad una espropriazione cristiana o ad un camuffamento sincretista di riti magici? Cosa è bene fare in campo educativo? Incoraggiare o opporsi alla celebrazione di Halloween?
P. Gulisano e B. O’Neill tracciano con il loro libretto La notte delle zucche. Halloween: storia di una festa (Ancora, Milano, 2006, pp.96, euro 7.00) la traiettoria storica che permette di rispondere a queste domande.
Il passaggio da Samahin ad Halloween manifesta un atteggiamento tipico del cristianesimo che non disprezza mai quanto gli preesiste storicamente, ma ne sa cogliere il valore per riproporlo alla luce della pienezza di vita che proviene dal vangelo. I due Autori invitano così a raccontare alle nuove generazioni come avvenne che questa antica festa divenne cristiana:
“Si trattò di qualcosa che poteva avvenire in quello straordinario crogiolo di popoli, culture, tradizioni che fu il Medioevo, dove il Cristianesimo agì come forza eccezionale per unire, salvare, selezionare, elaborare tutto ciò che proveniva da prima di sé, vagliando ogni cosa e trattenendo ciò che aveva valore. Fu un'opera colossale, con la quale, alla fine, la giovane Chiesa non edificò soltanto se stessa, ma l'intero edificio della civiltà europea, fatto di culture, lingue, usi, costumi e, naturalmente, celebrazioni. Per quanto possibile si cercò di ricondurre tutto ad un'unità, seppur rispettosa delle particolarità, delle specificità. Fu il caso delle feste, dove si giunse ad impiantare la liturgia cristiana sul terreno delle tradizioni precedenti, tenendo conto di quelle che erano i tre grandi elementi costitutivi del mondo europeo: la tradizione romana, quella celtica e quella germanica”.
La festa celtica di Samhain “era un momento di contemplazione gioiosa, in cui si faceva memoria della propria storia, della propria gente, dei propri cari, in cui si celebrava la speranza di non soccombere alle sventure, alle malattie, alla morte stessa, che non era l'ultima parola, se era vero che i propri cari, almeno una volta l'anno, potevano essere in qualche modo presenti. Nella magica notte di Samhain non erano le oscure forze del caos che riportavano nel mondo i morti, ma il ricordo e l'amore dei vivi che li celebravano gioiosamente”.
L’annuncio del vangelo nel mondo celtico si misurò con questa tradizione che manifestava il desiderio che la morte non fosse l’ultima parola sulla vita umana e testimoniava, a suo modo, la speranza nell’immortalità delle anime. Il cristianesimo comprese che la propria convinzione della costante presenza ed intercessione della chiesa celeste, della comunione dei santi che già vivono in Dio, poteva rinnovare dall’interno l’attesa ed il desiderio che la tradizione di Samhain celebrava. La resurrezione di Cristo era l’annuncio che la presenza benedicente dei propri defunti non era pura illusione, ma certezza dal momento che noi, i viventi di questa terra, viviamo accompagnati dal Cristo e da tutti i suoi santi. Samhain divenne così Halloween.
-Il magico e l’occulto sono invenzioni moderne per rovinare la purezza della gioia
6/ Nei Padri
- I cristiani in Plinio il Giovane - Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto – si rivolge all’imperatore Traiano, per chiedere lumi sul comportamento da tenere relativamente ai cristiani. Il suo epistolario è suddiviso in 10 libri e l’ultimo di essi raccoglie il carteggio ufficiale con l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono agli anni 111-113, gli anni del governatorato in Bitinia, e sono perciò scritte proprio da Nicea e Nicomedia.
«Affermavano che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. […]Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma» (Epist. X, 96, 1-9).
- Ignazio Antiochia, Lettera ai cristiani di Magnesia
IX,1. Dunque, quelli che erano per le antiche cose sono arrivati alla nuova speranza e non osservano più il sabato, ma vivono secondo la domenica, in cui è sorta la nostra vita per mezzo di Lui e della sua morte che alcuni negano. Mistero dal quale, invece, abbiamo avuto la fede e nel quale perseveriamo per essere discepoli di Gesù Cristo il solo nostro maestro. 2. Come noi possiamo vivere senza di Lui se anche i profeti quali discepoli nello spirito lo aspettavano come maestro? Per questo, quello che attendevamo giustamente, venendo li risuscitò dai morti.
- Giustino, Apologia
Giustino richiama, innanzitutto, l’insegnamento dei quattro vangeli che erano già gli unici riconosciuti in tutte le chiese: «gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: ‘Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo’. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: ‘Questo è il mio sangue’; e ne distribuì soltanto a loro» (Prima Apologia, LXVI, 3).
Giustino cerca di presentare il cibo eucaristico, perché i romani potessero averne un’idea più chiara: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. I battezzati possono mangiare dell’eucaristia, infatti li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso è carne e sangue di quel Gesù incarnato» (Prima Apologia, LXVI, 1-2).
La Prima Apologia afferma che l’eucarestia era celebrata nel giorno detto “del sole” e presenta i vari momenti della celebrazione: «Nel giorno chiamato ‘del Sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto, cioè il sacerdote, colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate» (Prima Apologia, LXVII, 3-7).
- I martiri di Abitene, Sine Dominico non possumus
«Mai senza domenica». I martiri di Abitene, di Antonio Maria Sicari da Avvenire del 12/2/2012
Si tratta di un gruppo di quarantanove cristiani, vissuti ad Abitene, piccola località dell’Africa proconsolare (nell’attuale Tunisia). Era l’anno 303 d.C. e l’imperatore Diocleziano aveva scatenato una violenta persecuzione contro i cristiani, ordinando che «si dovevano ricercare le divine Scritture perché fossero bruciate; si dovevano abbattere le basiliche e si dovevano proibire i sacri riti e le santissime riunioni del Signore» (Atti dei Martiri, I).
Ma quelli di Abitene continuavano a celebrare assieme l’eucaristia domenicale, incuranti dell’editto imperiale. Arrestati, vennero processati a Cartagine. Non erano accusati per la fede che professavano, ma per l’aver continuato a radunarsi per le sacre celebrazioni. Perché avevano voluto sfidare l’imperatore?
Uno di loro rispose con una formula di rara bellezza e profondità: «Sine dominico, non possumus»: «Non possiamo vivere senza la celebrazione domenicale». Ne nacque un dibattito a più voci, tra il Proconsole e quel gruppo di cristiani, tra i quali c’erano anche donne, ragazzi e bambini.
Tutti insistevano che la celebrazione comunitaria era loro necessaria non soltanto perché li legava a Gesù Crocifisso e Risorto, ma anche per l’unità delle famiglie e dell’intera comunità. «Sono cristiano e, di mia volontà, ho partecipato all’assemblea domenicale con mio padre e i miei fratelli», disse uno dei bambini.
E il sacerdote spiegò al persecutore: «Non lo sai, che è la Domenica a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Domenica, sicché l’una non può sussistere senza l’altro, e viceversa? Quando senti il nome 'cristiano', sappi che vi è una 'comunità riunita' che celebra il Signore; e quando senti dire 'comunità riunita', sappi che lì c’è il 'cristiano'».
Sommario degli Atti dei martiri di Abitene
L'editto di Diocleziano, la persecuzione dei cristiani: traditores e martiri.
Arresto dei martiri di Abitine, mentre celebravano la Pasqua domenicale. Elenco dei martiri.
I martiri vengono trasferiti da Abitine a Cartagine per essere processati. A Cartagine un prodigio celeste già aveva, tempo prima, difeso le Scritture.
I martiri giungono a Cartagine cantando inni, lieti di affrontare la lotta.
Il proconsole Anulino interroga Dativo e lo sottopone alla tortura. Si fa avanti Telica, confessa la sua fede; anche lui è sottoposto al supplizio.
Continua il supplizio di Telica, che oppone agli editti imperiali la legge di Dio; difende il diritto dei cristiani a radunarsi per il culto; rivolge la sua preghiera al Signore.
Anulino torna ad interrogare Dativo. Un pagano, Fortunaziano, lo accusa di avere sedotto sua sorella Vittoria e averla così convinta a farsi cristiana. Vittoria reagisce, affermando la propria libera scelta. Dativo viene sottoposto al supplizio.
Un altro pagano, Pompeiano, rivolge accuse calunniose contro Dativo, che confessa ancora la propria fede e viene ulteriormente torturato.
Viene la volta del presbitero Saturnino: sostiene l'importanza che la celebrazione della Pasqua domenicale ha per i cristiani; sostiene con forza il supplizio; rivolge la sua preghiera al Signore.
Si fa avanti Emerito; dice che le riunioni si sono tenute nella sua casa; confessa la sua fede; subisce il supplizio.
Ancora interrogato, Emerito attesta che senza la Pasqua domenicale i cristiani non possono vivere. Interrogato se possiede le Scritture, dice di possederle nel cuore.
Il proconsole e i carnefici sembrano stanchi. Ma è la volta di Felice; il martire attesta che il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale: l'uno non può essere senza l'altra. Viene battuto con le verghe fino alla morte. Così un altro martire col suo stesso nome.
Segue il martirio di Ampelio, di Rogaziano, di Quinto, di Massimiano, di un altro Felice: tutti attestano la loro fede nelle Scritture e nella Pasqua domenicale.
Viene interrogato e torturato il giovane Saturnino, figlio del presbitero, che segue in tutto il padre nella professione di fede e nella passione.
Scende la notte, i carnefici sono stanchi. Anulino cerca di vincere i rimanenti martiri interrogandoli tutti insieme, ma tutti restano saldi nella loro fede.
È la volta di Vittoria, che alla palma della verginità aggiunge quella del martirio. Non tiene in alcun conto la presenza del fratello: i suoi fratelli sono quelli che osservano i precetti del Signore.
Martirio del piccolo Ilarione, figlio del presbitero Saturnino. A nulla valgono le minacce del proconsole: Ilarione sostiene come un adulto la sua battaglia, rendendo grazie a Dio per il suo martirio.
- Costantino nel 321 dichiara che il dies soli sarà festa
Non imposizione, bensì liberazione!
7/ Nell’annunzio della fede oggi
da J. Vanier, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca book, Milano, 1980, p. 217
Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa.
La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa.
Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. È la conseguenza di tanti anni di giansenismo in cui Dio appariva come l’Onnipotente severo; la gioia si è staccata dal divino.
La festa, al contrario, è la gioia con Dio.
Dall’omelia del Santo Padre Benedetto XVI per la messa domenicale del 9/9/2007, nel Duomo di Santo Stefano a Vienn
Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l'insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea.
Il tempo libero necessita di un centro - l'incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: «Dà all'anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima».
Proprio perché nella domenica si tratta in profondità dell'incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come giorno del Signore, perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: «Sia la luce!» (Gn 1,3). Per questo la domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione - la festa della gratitudine e della gioia per la creazione di Dio.
In un'epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l'eredità del settimo giorno, dello šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell'uguaglianza di tutte le creature di Dio.
Nell'orazione di questa domenica ricordiamo innanzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottati come figli, ci ha accolti veramente nella comunione con se stesso.
Essere figlio significa - lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva - essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L'eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa' che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell'anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.
da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, in J. Ratzinger, La Bellezza. La Chiesa, LEV-Itaca, Roma-Castel Bolognese, pp. 44-46
È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso.
Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.
da M. Formica, La città e la rivoluzione. Roma 1798-1799, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1994, pp. 49-50
Accogliendo il modello d'oltralpe, anche nello Stato romano venne introdotto un nuovo sistema per il computo degli anni, ove la data d'inizio, l'anno primo, non veniva più fatto coincidere con la nascita di Cristo, bensì con la proclamazione della Repubblica francese (22 settembre 1792) o con quella della Repubblica romana (15 febbraio 1798): attraverso questa nuova scansione temporale il giorno della creazione della vera società veniva dunque fatto coincidere con l'atto di fondazione della nuova era. Il fenomeno non si limitò a indicare una diversa data di inizio dell'anno, ma giunse a trasformare l'intero calendario, e i mesi e i giorni furono dedicati alla celebrazione dell'attività umana e degli elementi della natura: il primo mese dell'anno fu dunque vendemmiale (corrispondente al mese di settembre), seguito da brumale, glaciale, nevoso, piovoso, ventoso, germile, fiorile, pratile, messifero, termifero, fruttifero. Alla scansione quadrisettimanale di ogni mese si sostituì quella in tre decadi, determinando l'abolizione ufficiale della settimana stessa (si ebbero così: primodì, secondì, terzodì e così via). Lo stesso modo di suddividere l'orario del giorno venne modificato, e i ritmi della vita quotidiana furono modulati, secondo le intenzioni, non più in gruppi di sei ore, scanditi sul suono delle campane e sulle ore dei salmi, ma secondo l'uso francese:
Il giorno si divide in dodici ore, cominciando dal mezzo giorno, e di sera, in altre dodici cominciando dalla mezza notte, e si chiamano ore della mattina.
Sarà opera della fratellanza repubblicana, che i funzionarj pubblici, i ministri del culto, e le persone più intendenti ajutino gl'idioti nell’intelligenza e prattica delle denominazioni indicate. (Rapporto della Commissione incaricata...)
Se gli accorgimenti «della fratellanza repubblicana» non riuscirono di fatto, a incidere uniformemente sulla vita quotidiana dei cittadini e a trasformare le abitudini, per quanto riguarda l'attività degli organi istituzionali l'applicazione del nuovo tempo rivoluzionario venne osservata fedelmente e i ritmi di lavoro non furono più cadenzati su sul tempo tradizionale, con la domenica come giorno festivo, ma sulle decadi, e, dunque, i momenti di riposo rimasero limitati a tre giorni al mese (i decadì, appunto).
Cfr. albero della libertà al Museo Risorgimento di Torino
8/ Il Sussidio dell’Ufficio catechistico e dell’Ufficio liturgico
- link al Sussidio
- la messa cuore della fede e della gioia
- le 2 grandi obiezioni dei genitori
- la Messa (I e II parte del Sussidio)
- l’anno liturgico
Da Per l'inizio dell'anno liturgico. La corona che plasma il tempo, di Inos Biffi, da L’Osservatore Romano del 24/11/2010
L'anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, "un poema - come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia - al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra".
Esso è la trama dei misteri di Gesù nell'ordito del tempo. Così, lungo il corso di ogni anno, la Chiesa rievoca gli eventi della sua nascita, della sua morte e della sua risurrezione, così che il susseguirsi dei giorni sia tutto improntato e sostenuto dalla memoria di lui. Una memoria d'altronde che, se fa volgere lo sguardo a quando quegli eventi si sono compiuti, subito fa tendere lo sguardo sul Presente, cioè sul Cristo vivente, che sovrasta e include in se stesso tutta la storia.