Il rabbino Di Segni: "Noi ebrei esempio di integrazione". Un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni
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Riprendiamo dal sito de L’Espresso un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni pubblicata il 16/10/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. MULTICULTURALISMO? La convivenza alla prova: il contributo dell'ebraismo, di Giorgio Israel e la sotto-sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (25/10/2015)
N.B. de Gli scritti. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato ad ascoltare sempre con grande attenzione non solo la voce dell’ebraismo biblico, ma anche quella del popolo ebraico vivente ora. È una voce plurale, piena di sfumature a secondo dei suoi esponenti, talvolta misericordiosa e talvolta affilata come una lama, ma che noi abbiamo il dovere di ascoltare e di non sottovalutare. È una voce che ci ricorda un punto di vista diverso sulla storia dell’Europa e del mondo, un punto di vista diverso sull’integrazione e l’accoglienza, un punto di vista diverso sulla realtà della persecuzione, punti di vista con i quali siamo chiamati a dialogare, anche se taluni aspetti non ci trovassero d’accordo, non dimenticando mai che l’ebraismo ha un legame indissolubile con Israele, ma che, insieme, ne è profondamente distinto.
Il rabbino Di Segni: "Noi ebrei esempio di integrazione". Un’intervista di Stefania Rossini a Rav Riccardo Di Segni
"Io so’ judio romano..." Quando il rabbino capo Riccardo Di Segni deve trovare una sintesi che renda al meglio la sua identità, il suo credo, l’amore per la sua città e il travaglio della sua gente, ricorre al verso di un sonetto di Crescenzo Dal Monte, considerato il Gioacchino Belli della Roma ebraica. È infatti con questo intreccio di sentimenti che la guida spirituale della più grande comunità ebraica italiana, la più antica della diaspora occidentale, osserva il mondo infiammato dai nuovi conflitti religiosi e dagli esodi smisurati.
Lo incontriamo nel suo studio blindato all’interno della Sinagoga, dove ci parlerà di sé e di quanto accade senza risparmiare giudizi e senza nascondere timori, stemperandoli semmai, quando i toni rischiano di farsi duri, in qualche battuta romanesca intrisa di umorismo ebraico.
Rabbino Di Segni, di fronte alla doppia emergenza delle guerre di religione e delle migrazioni di popoli, quanto può aiutarci la millenaria esperienza degli ebrei?
«Molto. Possiamo fornire modelli di integrazione perché sappiamo che si può essere cittadini o esclusi o partecipi o discriminati o diversi o uguali. Quanto accade è per noi un déjà vu. In quegli uomini e donne con valige e figli, fermati dalle polizie di frontiera o ammassati sui barconi, noi rivediamo noi stessi. E insieme all’identificazione scatta la solidarietà. Eppure...»
Eppure?
«È brutale dirlo, ma c’è una differenza sostanziale perché quantitativa. Anche la più forte comunità ebraica, come quella francese, conta al massimo 300 mila persone. È facile integrare un numero contenuto di profughi. Qui però si tratta di milioni, di uno spostamento di popoli che cambierà completamente i connotati dell’Europa».
Ne ha paura?
«La preoccupazione è molto forte. Per tradizione noi siamo solidali con chi scappa e vigili rispetto ai rischi. Che sono quelli del fanatico con la testa caricata da pensieri religiosi deviati, che scarica il suo mitra in un supermercato ebraico, ma sono anche quelli legati ad altri segnali».
Si riferisce all’antisemitismo delle destre europee?
«Anche a sinistra ci sono segnali, e non solo nei gruppi estremisti. Un massimo esponente democratico del comune di Roma, di cui non faccio il nome per carità civica, pensando di essere spiritoso ha detto un giorno che non dovremmo votare perché siamo israeliani. Ha capito il clima?»
Posso però chiederle che cosa fate per sfatare questo pregiudizio? Anche persone meno superficiali vi rimproverano di essere sempre dalla parte dei governi israeliani.
«Non dobbiamo certo giustificarci: siamo italiani come e più di molti altri e abbiamo contribuito a edificare questo Paese. Ma un’identità non si taglia con l’accetta. In ogni uomo sentimenti e passioni sono sempre distribuiti. Noi abbiamo un legame solido sia con questa nazione che con lo Stato di Israele. È nell’Islam che la religione implica la nazionalità. Per gli islamici l’ebreo non è dissociabile dallo Stato di Israele. Per questo con loro il dialogo interreligioso è difficile».
Con il cattolicesimo va invece meglio. Le piace papa Bergoglio?
«È un papa molto interessante con il quale si riesce a dialogare. Ma purtroppo il suo messaggio, che viene visto soprattutto come amore, è pericoloso per l’ebraismo».
Perché?
«Perché ripropone l’idea che, con l’arrivo di Gesù, il Dio dell’Antico Testamento è cambiato: prima era severo e vendicativo, poi è diventato il Dio dell’amore. Quindi gli ebrei sono giustizialisti e i cristiani buoni e misericordiosi. È un’aberrazione teologica molto antica, che è rimasta una sorta di malattia infantile del cristianesimo».
Ne ha parlato con il papa?
«Sì e gli ho anche detto che continuare a usare, come fa lui, il termine “farisei” con una connotazione negativa può rinforzare il pregiudizio in un pubblico non preparato».
Che cosa gli ha risposto?
«Mi ha detto: “Capisco benissimo. Io sono gesuita e anche la parola “gesuita” fa un brutto effetto”. Ho visto che poi ci è stato più attento».
Cogliamo l’occasione perché ci spieghi la differenza sostanziale tra un prete e un rabbino.
«È semplice: il prete è un sacerdote, il rabbino no. Il rabbino è un maestro che deve insegnare e deve far applicare la tradizione».
E la religione?
«Il rabbino è responsabile del fatto che i riti siano officiati secondo le regole. Si occupa, per esempio, del controllo degli alimenti perché una parte considerevole del rito ebraico riguarda appunto quello che si può e non si può mangiare, ed è sempre più difficile fare distinzioni in una società di cibi industrializzati. È il mio campo di specializzazione. E poi saprà che i rabbini prendono moglie».
Lei quando si è sposato?
«Presto, a 25 anni con una ragazza di 19. Mi ero laureato in medicina e da un po’ mi ero lasciato alle spalle la mia stagione movimentista».
Quindi ha fatto il Sessantotto?
«Sì, ne fui sedotto ed è stato molto interessante, perché c’era l’occasione di far vacillare il mondo baronale, patetico e autoreferenziale che guidava l’istruzione in Italia. Ma non ero un leader, ero un gregario: assemblee, cortei, occupazione dell’Istituto di Igiene e poco altro».
È ancora di sinistra?
«Perché, c’è ancora una sinistra?»
Le piacerebbe che ce ne fosse una?
«Mah, bisognerebbe vedere, potrebbero esserci molti drammi. Pensi a noi ebrei: siamo figli ripudiati dal padre, anzi padri ripudiati dai figli. Certe cose le abbiamo inventate noi e poi ci hanno cacciato via».
Lei è anche vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica. Con le sue idee come ha fatto ad aderire all’ultimo Family day?
«Io non ho aderito, ho mandato una lettera che invitava a una discussione non ideologica. Ma loro ne hanno fatto, appunto, un uso strumentale e ideologico».
Ci dica allora la sua posizione sulle unioni omosessuali.
«Penso che potremo arrivare al contratto civile, che è una cosa ben diversa dal matrimonio».
Non crede che siamo comunque in ritardo sul resto del mondo occidentale? Israele, per esempio, riconosce da tempo i matrimoni omosessuali celebrati all’estero.
«Israele è uno Stato democratico che non applica la legge rabbinica, ma quella del Parlamento».
Che ne pensa della scelta di designare un’italiana, Fiamma Nirenstein, come ambasciatrice di Israele in Italia?
«È ancora in corso una procedura di approvazione. Mi chiedo, però, se sia lecito che una persona che è stata deputata al Parlamento italiano venga ora a rappresentare uno Stato estero».
Siamo quasi alla fine del nostro incontro e non abbiamo ancora parlato della Shoah.
«Ne dobbiamo parlare?»
È strano che me lo chieda. Non è un elemento essenziale dell’identità ebraica moderna?
«Ho conosciuto la Shoah con il latte materno da una madre sfuggita alla razzia degli ebrei romani perché si era rifugiata con i miei fratelli in un casolare delle Marche, vicino a mio padre partigiano, medaglia d’argento della Resistenza. A 5 anni ho ascoltato il primo racconto sui campi nazisti da una cugina di mio padre sopravvissuta ad Auschwitz. Le pare che non m’interessi?»
Sta dicendo che ne teme la retorica?
«Insieme alla banalizzazione. La mia preoccupazione è sempre stata quella che l’identità ebraica basata soltanto sulla Shoah sia un’identità avvelenata, un’identità di morte non di vita. È un discorso che fatico a fare anche nella mia comunità».
Le hanno fatto effetto quei numeri segnati sulle braccia dei profughi siriani?
«Mi ha fatto effetto che si usassero parole come deportazione per un semplice accorgimento di triage. Nella medicina delle catastrofi, la prima cosa che si fa è quella. E poi un conto è il pennarello su un ferito o un profugo e un conto il tatuaggio sul prigioniero. Anche questo uso delle parole fa parte della banalizzazione. La Shoah è un unicum che ci deve far ricordare soprattutto l’importanza della convivenza con il vicino e con il diverso. Qualcuno dice che l’Europa nasce da Auschwitz. Non vorrei che finisse con un’altra Auschwitz».
Non ci spaventi, rabbino. Che cosa intende?
«Provi a pensare a quei milioni di persone di cui abbiamo parlato e li immagini tra vent’anni. Lei riesce a vedere un futuro di convivenza pacifica?».