1/ Introduzione a "Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco 2/ Gli atti dei martiri Saturnino presbitero e compagni, martiri di Abitene

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 18 /10 /2015 - 22:19 pm | Permalink | Homepage
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1/ Introduzione a "Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco

Riprendiamo da Senza la domenica non possiamo vivere. Atti del XXIV Congresso Eucaristico nazionale (Bari 21-29 maggio 2005), Levante Editore, Bari, 2005, pp. 261-274, un testo di Giuseppe Micunco già edito in Sine dominico non possumus. I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale (Testo degli Atti dei martiri di Abitene, con introduzione, traduzione e note di G. Micunco, presentazione di Vito Angiuli), Ecumenica editrice, Bari, 2004. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Medjez el Bab, l'antica Mambressa, oggi in Tunisia, sul fiume Medjerda, 
nelle cui vicinanze era l'antica Abitene, oggi Chouchoud el-Batin

Presentazione di mons. Vito Angiuli, Provicario generale dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto

Sine dominico non possumus.L'avere scelto questa celebre espressione dei martiri di Abitene come tema per il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari (21-29 maggio 2005) ha quasi naturalmente fatto nascere il desiderio di conoscere meglio il testo del martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano. Si è pensato di riproporlo in una nuova traduzione, con testo latino a fronte, in una forma che, pur mantenendo il rigore scientifico, potesse essere accessibile a tutti[1].

Il resoconto degli interrogatori è particolarmente interessante anche per il nostro tempo. Nel dialogo con il loro persecutore, durante il processo condotto tra terribili torture, le parole dei martiri, apparentemente così semplici e disarmanti, appaiono fresche nella loro immediatezza. A ben vedere, esse sono impregnate di Sacra Scrittura, di spirito di contemplazione e di preghiera, di fede profonda, sia che si tratti del vecchio presbitero Saturnino come del lettore Emerito, della giovane vergine Vittoria o del piccolo Ilarione. Al proconsole Anulino, che vorrebbe gli fossero consegnati i libri sacri per bruciarli, unanimemente rispondono che essi custodiscono la Scrittura nei loro cuori e che essa è scritta «non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivo, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del cuore» (cap. XI; cfr 2 Cor 3,3); Vittoria ribadisce che i veri fratelli non sono quelli della carne, ma, risponde, «quelli che osservano i precetti di Dio» (cap. XVI; cfr Mt 12,50); Emerito dichiara che l'Eucaristia è l'essenza stessa della loro vita, la linfa che scorre dalla vite ai tralci, per cui senza di essa «non possono essere» (cap. XI; cfr Gv 15,5). Non ha dunque senso, e non esiste da nessuna parte un cristiano senza la "Pasqua domenicale"; sono talmente una cosa sola che «l'uno non può sussistere senza l'altra» (cap. XII).

E vivono la Scrittura e l'Eucaristia nel perdono dei nemici: «ben ricordando l'insegnamento del vangelo, il martire chiedeva perdono per i suoi nemici» (cap. VI, cfr Mt 5,44; Lc 23,24) e pregano, come Stefano (cfr At 7,60): «O Dio altissimo, non imputare loro questi peccati». Vivono Scrittura e Eucaristia nel continuo rendimento di grazie, e anche tra i tormenti non cessano di rendere lode a Dio: «Ti rendo grazie, o Dio». La loro vita, il loro martirio, la loro morte, tutto è "rendimento di grazie", Eucaristia.

Il testo, curato dal prof. Giuseppe Micunco, si presenta particolarmente ricco e stimolante. L'Introduzione,oltre a inquadrare storicamente la vicenda dei martiri di Abitene durante la persecuzione di Diocleziano (303-304), analizzandone le circostanze e le motivazioni, a pochi anni ormai dall'editto di libertà religiosa di Costantino, propone, a partire da una puntuale analisi del lessico, gli elementi teologici, biblici e patristici che permettono di leggere in maniera chiara e documentata il testo. Approfondisce, soprattutto, il significato del termine dominicum,della realtà meravigliosa che costituiva per la primitiva comunità cristiana la "Pasqua domenicale", in un nesso tra scrittura, liturgia, vita, così stretto da costituire in sostanza la causa della persecuzione e del martirio.

La traduzione, chiara e scorrevole, segue molto fedelmente il testo latino ed è accompagnata da un ricco corredo di note linguistiche, storico-culturali, biblico-patristiche, che rendono più fruibile il testo. In Appendice,è riportata una antologia di testi dei Padri, da Ignazio di Antiochia a Fulgenzio di Ruspe, su Eucaristia e martirio. Completano il lavoro gli indici dei passi biblici e patristici.

È la martyrìa,la testimonianza fondamentale che i martiri di Abitene ci hanno trasmesso, a prezzo del loro sangue: con il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari vogliamo farne memoria e riproporla alla fede delle comunità cristiane.

"Sine Dominico non possumus". I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale, di Giuseppe Micunco. Introduzione

I. I martiri di Abitene e il Dominicum

1. «Senza il dominicum non possiamo essere»

Sine dominico non possumus:«Senza il dominicum non possiamo». La testimonianza che i martiri della cittadina africana di Abitene[2] (nell'odierna Tunisia) resero a Cristo durante la persecuzione di Diocleziano, agli inizi del IV secolo, si può ricondurre tutta a questa confessione di fede: sono stati arrestati mentre celebravano il dominicum;il dominicum è l'unica loro ragion d'essere; e per averlo celebrato vengono torturati e messi a morte. «Senza il dominicum non possiamo» (cap. XII), attesta per tutti uno dei martiri, il lettore Emerito. Non aggiunge altro. Potrebbe voler dire «non possiamo vivere»:sembrerebbe il completamento più logico e immediato della frase. Ma potremmo completare anche «non possiamo far nulla»,rifacendoci all'affermazione di Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5), a proposito della vite e dei tralci, anche con un riferimento eucaristico.

Ma è forse più opportuno integrare «non possiamo essere», riprendendo un'espressione che nel testo stesso ricorre poco più avanti: il proconsole Anulino dice a Emerito di non voler sapere se lui sia cristiano o meno, ma se ha partecipato alla celebrazione del dominicum,e l'autore degli Atti dei martiri di Abitene commenta: «Come se il cristiano possa essere senza il dominicum (quasi christianus sine dominico esse possit)»,dato che «l'uno non è in grado di essere (valeat esse)senza l'altro».

È, dunque, una questione di identità: il dominicum è l'essenza stessa del cristiano, il suo statuto (in dominico christianum constitutum:«è il dominicum,che costituisce, che fa il cristiano»), è anzi il cristiano stesso («se senti il nome cristiano,sappi che lì c'è il dominicum»).Una identità ontologica, prima ancora che esistenziale o etica o spirituale.

Le accuse che portano all'arresto, alle torture, alla condanna a morte, ruotano anche intorno ad altre due parole, la "colletta" (cioè la 'riunione, assemblea') e le Scritture, ma, a ben vedere, il punto centrale è il dominicum,a cui si legano strettamente la "colletta" e le Scritture. Ma cos'è il dominicum?

2. Il dominicum,"Pasqua domenicale"

Dominicum è il neutro sostantivato dell'aggettivo dominicus,"del Signore (Dominus)",e da solo significa "una cosa che è del Signore", che appartiene a lui, al Dominus.Sappiamo che Dominus, equivalente del greco Kyrios,indica il Signore glorioso, il Risorto. L'aggettivo neutro dominicum potrebbe sottintendere un sostantivo, poi caduto, ma di cui ha assunto il valore (come dominica dies, "il giorno del Signore", caduto dies, è diventato la Domenica).

Per dominicum le possibilità sono diverse:

dominicum corpus: "il corpo del Signore", offerto in sacrificio, divino nutrimento dei fedeli (cfr Agostino, anim. 1,1,14: sacrificium corporis dominici offertur);

dominicum sacrificium:"il sacrificio del Signore", di cui l'Eucaristia è sacramento (cfr Cipriano, epist.63,4,1: sacrifici dominici sacramentum);

dominicum sacramentum:"il sacramento del Signore", "forza" dei fedeli (cfr Agostino, serm. dub. 363,2: vim dominici sacramenti);

dominicum mysterium:"il mistero del Signore", della sua Pasqua (cfr Rufina, hist. 5,23,2: dominicum paschae celebrare mysterium);

dominicum pascha:"la Pasqua del Signore", il suo mistero di morte e risurrezione (cfr Girolamo, epist. 96,20: dominicum pascha celebrare);

dominicum convivium:"il convito del Signore" (ma anche la "mensa, la cena", cfr Agostino, serm. 46,36; 90,1: convivium dominicum; sacramentum mensae dominicae):il termine comprende bene anche lo stare insieme dei fratelli nella carità per la celebrazione della cena;

dominicum diem: "il giorno del Signore" (in questo caso il termine sottinteso, è diem, accusativo di dies,nome che può essere sia maschile che femminile; cfr Agostino[3], quaest. test. 112,1: duplici genere dominicus dies appellatur, primum quia in initio factus a Domino est, deinde quia in eo resurrexit, «per un doppio ordine di motivi viene chiamato "il giorno del Signore", prima di tutto perché in principio fu fatto dal Signore, poi perché in quel giorno è risorto»): questo giorno è "il giorno ottavo eterno" (cfr Agostino, civ. 22.30: dominicus dies velut octavus aeternus);in maniera privilegiata è la "domenica di Pasqua" (cfr Agostino, serm. 315,1: incipit legi a dominico Paschae, «si comincia a leggere dalla domenica di Pasqua»).

È bene mettere insieme un po' tutti questi valori, riprendendo l'espressione di Paolo «cena del Signore» (kyriakòn dèipnon,1 Cor 11,20), Isidoro di Siviglia (orig. 6,18,16): «la cena è detta 'del Signore', perché in quel giorno il Salvatore fece la Pasqua con i suoi discepoli» (cena dominico dieta est quia in eo die Salvator pascha cum suis discipulis fecerit):la spiegazione può apparire paradossale, perché, secondo il nostro modo di ragionare, il Signore Gesù celebrò la pasqua con i suoi discepoli nel giorno che noi chiamiamo "giovedì santo", ma, in realtà, secondo il giusto modo di vedere di Isidoro, anche quella celebrazione 'pasquale' si fonda sull'intero mistero pasquale, di Cristo, della sua morte e risurrezione, quello che in maniera piena celebriamo nel giorno di Pasqua che è la domenica, "il primo giorno della settimana" (Mt 28,1), "il primo giorno dopo il sabato" (Lc 24,1), "il giorno del Signore" (Ap 1,10): è la Pasqua che fa il giorno del Signore, la domenica (e il giorno che ha fatto il Signore», Sal 117,24); non la domenica la Pasqua. Isidoro mette insieme il sacramento dell'Eucaristia, il mistero della Pasqua, il giorno del Signore, il convito, il radunarsi dei suoi discepoli nella carità per la celebrazione del sacrificio di salvezza.

In realtà il termine dominicum comprende tutti questi valori: è il giorno del Signore, nel quale si celebra il sacramento del sacrificio del Signore, il suo mistero di morte e risurrezione, la sua pasqua, nella cena del corpo del Signore, convito del Signore con i fratelli.

Una espressione sintetica, che potrebbe riassumere tutto questo, è forse "celebrare la Pasqua domenicale": il termine 'Pasqua' contiene l'idea di sacrificio (dell'Agnello pasquale, dell'Antico e del Nuovo Testamento), di sacramento/mistero (la celebrazione che fa vivere il mistero pasquale di morte e risurrezione), di cena/convito (mangiare insieme la Pasqua: festa gioiosa dei fratelli); il termine 'domenicale' lega la pasqua alla domenica, al giorno della risurrezione del Signore, al giorno dell'incontro gioioso del Risorto con i discepoli, un valore, quest'ultimo, già implicito nel termine "celebrare", che in latino indica prima di tutto 'concorso di gente', 'gente che si raduna per una festa pubblica o per altro pubblico evento'.

La Pasqua domenicale è la "festa primordiale", perché senza di essa nessun'altra realtà cristiana avrebbe senso, "potrebbe essere": «se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede» (cfr 1 Cor 15,14); la risurrezione di Cristo dalla morte è la nostra salvezza, è la nostra speranza, è la nostra luce, è la nostra vita, è il nostro "essere"[4]. Questo mistero pasquale di morte e di risurrezione si vive nella celebrazione del sacramento del corpo e sangue del Signore, insieme ai fratelli, nel giorno che ha fatto il Signore.

Un ultimo valore, ma non per questo meno importante, troviamo nel termine dominicum, ed è quello di "casa del Signore", luogo della celebrazione, basilica; in alcuni casi si tratta chiaramente del luogo in cui si devono radunare i fedeli[5], altre volte il termine sembra indicare contemporaneamente il luogo e i fedeli che vi si radunano per il dominicum o la celebrazione stessa[6]: è la felice ambiguità che ancora abbiamo tra chiesa/edificio e chiesa/comunità cristiana. È interessante, a tal riguardo, che il termine greco kyriakòn (il corrispondente del lat. dominicum)si sia conservato nelle lingue anglosassoni (vd. ingl. church,ted. kirche) a indicare la chiesa, sia edificio che comunità. La pasqua domenicale implica, dunque, questo ulteriore valore: tempio o casa che sia, la Pasqua non è una celebrazione solo 'spirituale', ma 'fisica': ha bisogno di un luogo per la celebrazione; anche Gesù ha cercato un luogo per celebrare la Pasqua con i suoi discepoli. Vale la pena di notare, infine che tutti, o quasi, i valori che abbiamo individuato nel termine dominicum si ritrovano in un testo molto antico (inizio del II secolo), di un pagano per giunta, Plinio il Giovane, il quale, sia pure dall'esterno, e sostanzialmente senza capirci niente, scrivendo all'imperatore Traiano (ep.X, 96) circa il comportamento da tenere nei confronti dei cristiani, nota i seguenti elementi fondamentali del dominicum[7]:

- i cristiani sono soliti (quindi è una loro 'legge')

- radunarsi (convenire)

- in un giorno stabilito, preciso (stato die)

- prima dell'alba (ante lucem: è un riferimento indiretto alla notte della pasqua di risurrezione[8])

- di cantare un canto a Cristo come a un dio (Plinio non comprende bene se si tratti di un uomo o di un dio)

- di stringersi in un giuramento a non fare del male (se sacramento non in scelus aliquod obstringere: Plinio non può comprendere che il termine sacramentum ha assunto un nuovo significato, quello della celebrazione eucaristica e dell'impegno all'amore per Dio e per i fratelli)

- di prendere insieme un cibo comune e innocuo (ad capiendum cibum promiscuum et innoxium:anche qui Plinio rileva soltanto che vengono usati alimenti comuni, evidentemente pane e vino, privi di ogni pericolo per alcuno; non può comprendere che si tratta del pane eucaristico, del Corpo del Signore).

3. Il dominicum negli Atti dei martiri di Abitene

Celebrare il dominicum

Nei diciassette capitoli degli Atti il termine dominicum compare ben 19 volte[9]. Lo si ritrova nelle espressioni celebrare dominicum[10], agere dominicum[11], convenire in dominicum[12]. Il termine celebrare indica in latino prima di tutto grande concorso di gente e, quindi, mette in evidenza soprattutto il ritrovarsi dei fratelli; il verbo agere sottolinea che si tratta di una 'azione' liturgica; il convenire sottolinea invece il radunarsi da vari luoghi per l'assemblea liturgica. La celebrazione esprime e consolida la carità fraterna (spesso è presente l'espressione cum fratribus,"con i fratelli": VII, VIII, XVI); si svolge con grande solennità (gloriosissime, XII), con grande pietà e devozione (magno religionis devotione, VIII), nella pace (securi, IX).

Il luogo della celebrazione del dominicum. La casa dell'ottavo giorno

La celebrazione del dominicum,durante la quale i martiri vengono arrestati, si svolge nella casa di Ottavio Felice (cap. II); anche le altre celebrazioni si erano svolte in una casa privata, quella di Emerito (cuius in domo collectae factae sunt: «in casa sua si sono tenute le assemblee liturgiche», capp. X, XI; in domo meo egimus dominicum, «in casa mia abbiamo celebrato il dominicum»). Queste case sono delle vere chiese domestiche e avevano dignità di tempio o di 'basilica': l'editto persecutorio di Diocleziano ordinava di distruggere le basiliche, ma gli edifici sacri veri e propri dovevano essere ancora davvero pochi[13]: l'editto è rivolto dunque soprattutto contro queste chiese domestiche, questi luoghi in cui si fanno le "collette", cioè le riunioni di culto, le assemblee liturgiche, luoghi che possono a pieno titolo chiamarsi anche basiliche, cioè "case del re"[14]. Nel cap. XII Emerito chiama la sua casa, in cui si sono tenute le "collette", dominicum: «siamo convenuti nel dominicum»:la sua casa è la "casa del Signore", la "chiesa" del Signore; anche nelle parole di Emerito dominicum può essere insieme il luogo della celebrazione e la celebrazione stessa.

Avanzo l'ipotesi (ma per i cristiani dei primi secoli non erano insoliti questi giochi di parole, soprattutto quando volevanodire in maniera velataqualcosa di importante che i profani non dovevanosapere) che l'autore degli Atti quando dice che furono arrestati mentre celebravano il dominicum in casa di OttavioFelice (in domo Octavi Felicis), giochi sul termine Octavi(che può essere genitivotanto di Octavius quanto di Octavus),sottintendendo diei "del giorno", volendoquindi far intendere ai cristiani "nella casa dell'ottavo giorno", del giorno della risurrezione di Cristo, giorno anche "felice", come fu presto definita la notte della Pasqua (pensiamo all'«o felice notte!» dell'Exultet)[15]; il numero pasquale otto viene da Pietro (1 Pt3,20-1) indicato a significare la comunità dei salvati: «nell'arca poche persone, otto in tutto, furono salvateper mezzo dell'acqua, figura, questa, del battesimo, che ora salva voi»:e i più antichi battisteri furono anche per questo ottagonali.

Una tale interpretazione risolverebbe anche il problema della 'contraddizione' (per alcuni segno di una redazione più tarda del testo) tra la notizia del cap. II (il dominicum si stavacelebrando in casa di Ottavio Felice) e quella del cap. X-XI (le celebrazioni si tenevano in casa di Emerito), contraddizione, in realtà, superabile «pensando che i fedeli fossero stati arrestati nel domicilio di Ottavio Felice, ma che, in passato, si fossero riuniti presso Emerito»[16]: la casa della celebrazione potrebbe essere solo quella di Emerito, la casa Octavi Felias,potrebbe volerricordare ai cristiani che la celebrazione avviene nell'ottavo giorno, giorno «felice» della risurrezione del Signore.

È legge celebrare il dominicum

Il dominicum si celebra «sempre», secondo una consolidata «consuetudine» (ex more, II; semper,XII; non potest intermitti, «non si può interrompere, non si può smettere di celebrarlo», IX, X), secondo quanto prescrive una legge fondata sulla Scrittura (lex sic iubet, lex sic docet, X): lex, come vedremo, è, in questo testo, praticamente sinonimo di Scrittura: celebrare il dominicum obbedisce all'ordine dato dal Signore, secondo quanto riferisce Paolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta viho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane... e disse: "... fate questo in memoria di me"» (1 Cor 11,23-24).

Lo si celebra perché sine dominico non possumus (e senza la Pasqua domenicale non possiamo (essere)», XI); perché Christianus sine dominico esse non potest («il cristiano non può essere senza la Pasqua domenicale», XII); perché in dominico christianum constitutum («il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale», XII); perché dominicum est spes solusque christianorum «la Pasqua domenicale è speranza e salvezzadei cristiani», XIII); egi dominicum quia salvator est Christus (e ho partecipato alla Pasqua domenicale perché Cristo è il salvatore»).

Il dominicum e la Sacra Scrittura

Parte essenziale ha nel dominicum la lettura della Sacra Scrittura: si dice nel cap. XII: ad Scripturas dominicos legendas in dominicum convenimus semper,«sempre siamo convenuti alla Pasqua domenicale (e nel luogo in cui si celebra la Pasqua domenicale) per leggere le Scritture del Signore».

Sembra quasi che la lettura delle Scritture sia il fine principale per cui ci si raduna nel dominicum;e, in realtà, la lettura della Parola di Dio aveva senza dubbio uno spazio molto più ampio e significativo nella prassi liturgica della chiesa antica[17], su cui ha influito certamente la prassi giudaica e veterotestamentaria[18], ma anche la difficoltà materiale di averetante copie scritte della Scrittura (la carta e i libri erano ancora un lusso che pochi si potevano permettere, e a questa carenza suppliva la prassi di lunghe letture).

Non è un caso che l'editto persecutorio di Diocleziano prenda di mira, oltre che i luoghi di culto, i libri sacri, soprattutto le Scritture. Le Scritture vengono menzionate per un totale di 33 volte, in vario modo: 15 volte Scripturae (dette: dominicae,«del Signore», 8 v.; sanctae, «sante», 2 v.; divinae, «divine», 1 v.); 2 volte Testamento,i «Testamenti» (praticamente sinonimo di Scripturae, sono detti socrosancta, «sacrosanti» e divina,«divini»): 10 volte lex,la «legge» (certo anche per influsso dell'Antico Testamento chiamato dai Giudei "la Legge"; è detta 2 volte Dei,«di Dio»; 1 v.: «del Signore», «divina», «santa», «santissima», «sacra»): 1 volta è detta vox dominica, «la voce, la parola del Signore»; 3 volte, infine, abbiamo citazioni dirette della Scrittura: praecepta evangelii,«il precetto evangelico» (cap. VI: Mt 5,44; cfr Lc 23,34); evangelica professio,«l'affermazione del Vangelo» (cap. XVI: Mt 12,50); Apostolus,«l'Apostolo (Paolo)», (cap. XI: 2 Cor 3,3). Al proconsole che pretende la consegna dei libri delle Scritture, i martiri rispondono, citando Paolo, che essi «le possiedono sì, ma nel loro cuore, scritte non con l'inchiostro, ma dallo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del loro cuore» (cap. XI; vd. anche capp. XIII, XIV). Nell'elenco dei martiri (cap. II) figurano due lettori (Saturnino il giovane, e Felice), ma anche Emerito è lettore (cap. X), e Ampelio è definito custos legis,«custode della legge» (cap. XIII). Il presbitero Saturnino è definito doctor,«dottore» della legge, della parola di Dio, per la quale libenter supplicia sustinebat,«con gioia sopportava i supplizi» (cap. X).

Il dominicum e l'Eucaristia

Non si fa alcun cenno esplicito, e può apparire strano (visto che persino Plinio nel testo prima riportato ne parla), al proprio dell'Eucaristia, al pane e al vino, al corpo e al sangue di Cristo. Anche qui, a mio parere, deve avere influito la disciplina dell'arcano: non si poteva parlare ai profani (qui poi siamo in un processo contro i cristiani) delle cose sante di Dio, rischiando di esporle al pubblico dileggio. I martiri, però, all'Eucaristia fanno ugualmente riferimento nelle preghiere, nelle brevi invocazioni che rivolgono al Signore. Ben otto volte troviamo esplicitamente l'espressione "rendimento di grazie"/"rendere grazie", che, come sappiamo, è la traduzione latina del greco eucharistìa/eucharistèo.Troviamo: gratiarum actio, «rendimento di grazie» (cap. V); gratias tibi ago, «ti rendo grazie» (2 volte nel cap. VI); gratias tibi ago, Deus,«ti rendo grazie, Dio» (cap. X); gratias ago Deo regnorum, «rendo grazie a Dio che regna» (cap. VI); Deo gratias, «(rendiamo) grazie a Dio» (capp. V, XVII); nec sufficio tibi gratias agere,«non posso renderti grazie degnamente», espressione che ricorda alcune nostre formule liturgiche. Il "rendimento di grazie", l'Eucaristia, i martiri la celebrano nella realtà della vita offrendo il loro corpo e versando il loro sangue in unione col corpo e col sangue del sacrificio di Cristo.

La cosa appare chiara anche da alcuni particolari del racconto del loro martirio, che l'ignoto autore degli Atti,mette bene in evidenza, come il fatto che per subire i tormenti vengano «appesi al cavalletto», lo strumento di tortura (suspensum in equuleo,cap. VII; cum penderet equuleo,cap. VII), «innalzati» sul cavalletto (in equuleum sublevare,cap. V), come Cristo fu appeso, fu innalzato sulla croce: e anche per loro lo strumento del supplizio su cui vengono innalzati diventa un trono di gloria. Il loro corpo è dato in pabulum,"pasto e pascolo" ai carnefici (cap. X), come il corpo di Cristo sottoposto alla passione, ma che solo così può diventare il "corpo dato per noi", il pane dell'Eucaristia. E gli uncini dei carnefici colpiscono soprattutto i "fianchi", latera,cioè il costato dei martiri, e dal loro costato sgorga copioso il sangue (cum... latera sulcarentur, profluensque sanguinis unda... emanaret,«il costato veniva ferito, e uscendo a onda ne sgorgava il sangue», cap. VI), come il sangue che uscì dal costato di Cristo sulla croce (cfr Gv 19,34)[19]; e il sangue di un martire è 'nutrimento' quasi e forza per gli altri martiri (il giovane Saturnino, ad esempio, bagnato dal sangue del padre, recreatus, medelam potius quam tormenta sentiebat,«rigenerato, avvertiva un risanamento piuttosto che i tormenti», cap. XIV), come il sangue di Cristo è nutrimento e forza per i fedeli. È, peraltro, abbastanza agevole comprendere questo stretto legame tra la passione dei martiri, la passione di Cristo e l'Eucaristia, se si considerano anche altri Atti dei martiri,o le riflessioni che sul martirio hanno fatto i Padri della chiesa.

Il dominicum e la collecta. Il ruolo del presbitero

Il termine collecta,«colletta», cioè riunione, assemblea, compare 20 volte[20]: 3 sole volte col verbo celebrare,più spesso con facere[21] o con esse in[22],nel senso di "partecipare", "essere presente a". Spesso associato a dominicum (vd., ad esempio, collectam et dominicum celebrassent, cap. V[23]), indica piuttosto il radunarsi dei fratelli in assemblea, in comunione, per la celebrazione del dominicum, della Pasqua domenicale: un momento però non marginale, ma sostanziale, sentito già come parte integrante della celebrazione[24].

Oggi il termine "colletta" lo utilizziamo nella liturgia per indicare la prima orazione del presidente dell'assemblea, detta appunto oggi "orazione colletta", ma che doveva essere anticamente oratio ad collectam,cioè "orazione recitata per i fedeli riuniti per la messa": prima che si aggiungessero riti di ingresso, Kyrie e Gloria, subito dopo il saluto (Pax vobiscum oppure Dominus vobiscum)la Messa cominciava con l'oratio ad collectam,che indicava ai fedeli lo scopo di quella celebrazione e le disposizioni che dovevano avere, anche in relazione al tempo liturgico.

Il termine "colletta" lo utilizziamo oggi anche per raccolte di denaro a favore dei poveri o di qualche necessità della chiesa; collette di questo tipo fatte durante la celebrazione liturgica esprimono la carità dell'assemblea riunita, e hanno quindi anche una valenza liturgica e, in qualche modo, una connessione col principale significato del termine[25].

L'idea del radunarsi è chiara anche per altri sinonimi usati accanto a collecta,e cioè collectio (dalla stessa radice di collecta,indica ancora meglio l'azione del radunarsi, cap. V); congregatio (cap. VI: ci ricorda una espressione dell'Ubi caritas: congregavit nos in unum Christi amor:«ci ha radunati in unità l'amore di Cristo»): O per verbi come colligere,"raccogliere, radunare" (nos collegimus,«ci siamo radunati in assemblea», cap. V; vd. anche cap. IX: hos omnes colligeres,«radunavi tutti costoro»): adunare,«radunare, raccogliere in un unico luogo» (omnes ipse adunasset,«lui aveva radunato tutti», cap. X); convenire (cap. XIV). Perché la "colletta", e quindi la celebrazione del dominicum, sia valida, è indispensabile la presenza del presbitero: al proconsole che lo interroga su chi sia stato il responsabile della riunione, il martire Telica risponde: «Il presbitero Saturnino e tutti», risposta stupenda (e anche altri martiri diranno la stessa cosa), che indica con chiarezza come tutta la comunità si sentisse «un popolo di sacerdoti» (cfr 1 Pt1,9); christiani sumus: nos collegimus,«siamo cristiani: noi abbiamo fatto l'assemblea» (cap. VI). Nello stesso tempo, però, Telica, al proconsole che gli chiede quale tra i suoi compagni sia il presbitero, lo indica, «non per tradirlo», precisa l'autore degli Atti, «ma per rendere chiaro che essi avevano celebrato validamente (integre)l'assemblea, dato che insieme a loro c'era stato anche il presbitero».

II. IL QUADRO STORICO

La persecuzione di Diocleziano, negli anni 303-304, durante la quale cade la vicenda dei martiri di Abitene, si scatena inaspettata e violenta dopo quaranta anni di pace, anni in cui la comunità cristiana aveva potuto crescere e diffondersi dappertutto. Ed è stata una persecuzione generale, che ha riguardato cioè tutto l'impero e non singole province, e sistematica, che ha cercato cioè di cancellare radicalmente il cristianesimo, colpendo, oltre che i cristiani, anche e prima di tutto i loro pastori, i libri sacri, i luoghi di culto, le assemblee liturgiche. Vediamo prima, schematicamente e rapidamente come ci si arriva, poi di comprenderne le ragioni.

1. Dalla persecuzione di Decio a quella di Diocleziano

La persecuzione di Decio (249-251) era stata la settima, secondo la ricostruzione di sant'Agostino, che, aggiungendo poi quelle di Valeriano, di Aureliano e di Diocleziano, arriva al numero di dieci, che egli accosta alle dieci piaghe d'Egitto: prima c'erano state le persecuzioni di Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino il Trace. La persecuzione di Decio è la prima persecuzione generale e nasce da una «reazione tradizionalista: ritorna al potere il senato, sia pure rappresentato da un generale di origine pannonica (ma con parentele italiche), e si delinea una radicale politica anticristiana. (...) Mai lo Stato romano era arrivato a tanto di intolleranza: all'intransigenza ideale cristiana si opponeva l'intransigenza di Stato pagana»[26].

Tra i martiri c'è lo stesso vescovo di Roma Fabiano; viene incarcerato Origene (liberato alla morte dell'imperatore, morirà tre anni dopo, 254); molti sono i lapsi,i "caduti", cioè i cristiani che, per timore del martirio, vengono meno alla loro fede. Ma la Chiesa, pur così duramente colpita (anzi proprio perché così duramente colpita, avrebbe detto Tertulliano, per il quale il sangue dei martiri era "seme" di nuovi cristiani), «acquistò nuova forza di proselitismo» (Mazzarino).

Nel giugno del 251 Decio morì in uno scontro (ad Abritto, presso il Mar Nero) contro i Goti e i cristiani videro in questo una punizione divina. Il poeta cristiano Commodiano, in un poema (Carmen apologeticum) con toni, immagini ed espressioni presi dall'Apocalisse, canta questa vittoria dei Goti: «Molti segni saranno i termini fissati per così grande peste, ma il loro inizio sarà la nostra settima persecuzione. Ecco però già bussa alla porta e cinge la spada, colui che presto traverserà il fiume (Danubio) con i Goti irrompenti, e sarà con loro il re Apollion, tremendo nel nome, che disperderà con le armi la persecuzione contro i santi» (vv. 807-812). Il re Apollion (cfr Ap 9,11), è Kniva, re dei Goti, che sconfigge e uccide Decio.

Dopo il breve regno (251-253) di Treboniano Gallo, presto ucciso dai suoi stessi soldati, è acclamato imperatore Valeriano (253-260), un senatore, che, con due editti (257 e 258), scatena una nuova sanguinosa persecuzione. È un momento difficile per l'impero di Roma: infierisce la peste e, oltre i Goti, altri barbari (Franchi, Alemanni) premono alle frontiere. I 'tradizionalisti' incolpano di tutto i cristiani: «pareva che la vendetta degli dèi, negletti nei loro templi e offesi dalla vittoria cristiana, si abbattesse sulla cosa pubblica»[27].

Vittime illustri di questa persecuzione sono il nuovo vescovo di Roma Sisto, il suo diacono Lorenzo, e il vescovo di Cartagine Cipriano. Commodiano la descrive con toni apocalittici e vede in Valeriano un nuovo Nerone (Nero redivivus). Nel 260, dopo tre anni e mezzo di persecuzione, Valeriano viene sconfitto a Edessa dai Persiani di Sàpore I, alleati con i Goti, e fatto prigioniero.

La sconfitta di Valeriano appare ai cristiani ancora come una punizione divina. Il nuovo imperatore Gallieno (260-268), figlio di Valeriano, e già associato dal padre all'impero, prende atto dell'assurdità della persecuzione dei cristiani (l'impero era ormai considerato 'cristiano' dagli altri popoli, soprattutto in Oriente, mentre l'imperatore li perseguitava!) e la sospende con un editto che apre per la Chiesa cristiana un lungo periodo di pace che durerà, come si è detto, quaranta anni: in genere poco valutato, questo editto, parecchio prima di quello di Costantino del 313, già riconosce ufficialmente il diritto di libertà di culto ai cristiani.

Questo non toglie che gli imperatori, preoccupati della restaurazione dell'impero, restino fedeli alla tradizione pagana. Così Claudio il Gotico (268-270), che a differenza di Gallieno restituisce autorità al Senato. Così Aureliano (270-275), che, preoccupato della difesa dei confini dell'impero e di restaurare la 'concordia' all'interno, favorisce il culto del Sol Invictus,per il quale dedica a Roma un tempio (consacrato il 25 dicembre, al solstizio invernale, quando il sole comincia a crescere: i cristiani vi sostituiranno la festa del Natale) e istituisce dei sacerdoti, e del quale si riterrà in qualche modo manifestazione: l'imperatore dominus et deus natus,si considera partecipe della divinità, sacratissimus imperator. Ma la militia Christi,i cristiani, l'intransigente 'servizio militare' al seguito di Cristo, che non a caso chiamava sacramentum,cioè giuramento militare di obbedienza fino alla morte, la celebrazione dei misteri di Cristo, resisteva. Il filosofo neoplatonico Porfirio proprio in questi anni scriveva la sua opera Contro i cristiani,ma era costretto a riconoscere «che i templi erano ormai abbandonati, mentre "grandissime case" si erano costruite per il culto dei cristiani. Il dio Sole di Aureliano non si conciliava con Cristo»[28]. Aureliano fu ucciso dai suoi soldati.

Dai loro soldati furono uccisi anche i loro successori, Claudio Tacito (275-276), Probo (276-282), Aurelio Caro (282-283); Carino (283-285), figlio di Caro; suo fratello Numeriano (283-284) fu invece ucciso in battaglia. I cristiani potevano continuare a prosperare in pace.

Nel 285 viene acclamato imperatore un ufficiale dalmata, Valerio Diocle (= gloria di Giove), che prese il nome di Diocleziano. Il suo programma è quello di restaurare in maniera stabile l'impero: per meglio governarlo, per meglio difendere i confini, si associa un altro 'Augusta', Massimiano; nel 293 nomina due 'Cesari', uno per sé in Oriente Galerio e uno per Massimiano in Occidente, Costanzo Cloro: è la celebre tetrarchia; all'abdicazione dei due Augusti, i Cesari diventeranno Augusti e nomineranno a loro volta altri due Cesari. Sappiamo che il sistema non funzionerà a lungo, ma per ora Diocleziano può considerarsi il restaurator imperii:assume per sé il titolo di 'Giovio', mentre Massimiano quello di 'Erculio'. La venerazione e il culto (per Giove e per Ercole) che questi titoli comportano non hanno in un primo momento conseguenze per i cristiani, che, dopo quaranta anni di pace e di libertà, non temono ormai altre persecuzioni.

2. La persecuzione di Diocleziano

Diocleziano e i cristiani

Diocleziano doveva ritenere che «alla salvezza di quel vecchio mondo, nel suo vecchio contenuto, si opponeva soprattutto il grande fatto spirituale: il cristianesimo», ma «il suo genio di uomo di stato gli suggeriva che non c'era da tentare la lotta». Questo il giudizio di Mazzarino[29], secondo il quale Diocleziano si decise per la persecuzione soltanto negli ultimi anni del suo impero (a partire dal 303), molto probabilmente per la pressione di intellettuali, soprattutto neoplatonici come Plotino, il già ricordato Porfirio (tra il 270 e il 280 aveva scritto un'opera Contro i cristiani, in 15 libri!), Ierace (discepolo di Porfirio, autore nel 303 di un libello contro i cristiani, dal titolo L'amico della verità),avversi al cristianesimo; quasi certamente per insistenza del suo Cesare, Galerio, «un fanatico odiatore della nuova religione», afferma il Lortz[30], il quale ritiene comunque che «tuttavia la persecuzione rientrava nella linea complessiva del piano generale di questo imperatore che voleva ridare all'impero l'antica forza e, a tale scopo, tutto ciò che non fosse pagano doveva essere sterminato come non romano»[31]. In conclusione, sostiene Moreschini, «la persecuzione, anche se non voluta esplicitamente da Diocleziano in quanto lotta di religione, si svolse pur sempre nell'ambito delle direttive restauratrici della tetrarchia»[32].

Galerio e il culto della dea delle montagne

Certo Galerio deve avere avuto una parte importante nel convincere Diocleziano, soprattutto dopo la importante vittoria da lui riportata sui Persiani nel 297: «il prestigio del Cesare d'Oriente si trovò accresciuto in seguito a questo splendido successo», rileva Zeiller[33], una vittoria, peraltro, dopo la quale, secondo alcuni, Diocleziano potrebbe aver introdotto nel cerimoniale di corte il rito della 'adorazione' (la proskynesis,la prostrazione alla presenza dell'imperatore), traendola proprio dall'etichetta persiana»[34], Galerio ebbe modo di far pesare maggiormente sull'imperatore le sue vedute personali, anche in campo religioso. L'avversione al cristianesimo, in particolare, gli sarebbe venuta dalla adesione, sua e della maggior parte dei suoi soldati, al culto della dea delle montagne, di cui la madre, una transdanuviana[35], mulier admodum superstitiosa («donna oltremodo superstiziosa»), era «fanatica adoratrice, se non pure sacerdotessa»[36]. Riferisce Lattanzio: «quasi tutti i giorni faceva sacrifici in onore di queste divinità e le carni che avanzavano dai sacrifici erano distribuite in pasto agli abitanti del paese. I cristiani, naturalmente se ne astenevano, anzi, mentre essa con gli altri prendeva parte a quei conviti sacri, essi digiunavano e pregavano con fervore»[37]. La notizia è importante perché potrebbe spiegare, almeno in parte, l'accanimento, nella persecuzione, contro le assemblee liturgiche dei cristiani e dei loro 'pasti sacri'.

Il fanatismo che Galerio aveva ereditato dalla madre e la pressione di ufficiali che, anche per far carriera, volevano eliminare dall'esercito ogni elemento sospetto di tiepidezza verso le istituzioni, spinsero Galerio prima di tutto ad un'opera di 'epurazione' tra i soldati cristiani, soprattutto tra gli ufficiali, in un secondo momento ad una persecuzione vera e propria, profittando anche della debolezza dell'ormai vecchio imperatore Diocleziano.

L'inizio della persecuzione

Occasione dell'inizio della persecuzione fu un fatto tipicamente 'romano', degno della migliore superstizione. Durante un sacrificio ad Antiochia, nel 302, la consultazione delle viscere degli animali sacrificati non diede i segni augurali desiderati, e della cosa furono accusati i cristiani, che avrebbero 'sabotato', diciamo così, il rito, facendosi il segno della croce. Si cominciò allora a pretendere, a palazzo, poi nell'esercito, che anche i cristiani sacrificassero, pena il congedo dall'esercito: non siamo ancora alla persecuzione sanguinosa. Infine Galerio, vero istigatore della persecuzione, dovette convincere Diocleziano della inevitabilità della cosa: «Diocleziano - nota Lattanzio - governò peraltro felice e in pace, finché non cominciò a perseguitare la Chiesa e a mettere le mani addosso ai suoi santi». Evidentemente «Lattanzio attribuisce al solo Diocleziano la responsabilità della persecuzione, per quanto l'influenza malefica di Galerio fosse molto notevole e decisiva»[38].

3. Gli editti della persecuzione di Diocleziano

Racconta Eusebio (hist. eccl.,VIII, 2,4): «Era il diciannovesimo anno del regno di Diocleziano (303), il mese di Distro, che i Romani chiamano marzo, nel quale, mentre si avvicinava la passione del Salvatore, fu emanato dovunque un editto dell'imperatore che ordinava non solamente di radere al suolo le chiese, ma di distruggere anche le Scritture col fuoco, e proclamava inoltre che quanti occupavano delle cariche fossero destituiti, e i membri della casa fossero privati della libertà, se avessero persistito nella professione del cristianesimo»[39].

Questo primo editto fu promulgato il 24 febbraio del 303 a Nicomedia, residenza orientale di Diocleziano e del suo cesare Galerio, ma già il giorno prima, il 23 febbraio, la chiesa di Nicomedia era stata occupata dalla polizia, saccheggiata e demolita, mentre i libri liturgici venivano dati al fuoco. L'editto giunse in Palestina il mese successivo, per questo Eusebio dice che fu emanato a marzo, poco prima della Pasqua (che quell'anno cadeva il 18 aprile), e ne vedeva così una coincidenza con la passione del Signore. Oltre alla distruzione delle chiese e dei libri sacri e alla destituzione dalle cariche (per chi ne fosse titolare), di cui parla Eusebio, era prevista per tutti la privazione del diritto di stare in giudizio, e per gli schiavi cristiani l'impossibilità di ottenere la libertà.

Sempre nel 303 furono emanati un secondo editto, con il quale si punivano con l'arresto non solo i capi delle chiese, ma anche i chierici di ogni ordine, e un terzo editto, con il quale si comminavano gravi torture fino alla morte per gli ostinati.

Nella primavera del 304 (Diocleziano è malato e Galerio è ormai padrone della situazione) un quarto editto, impose l'obbligo generale, per tutti i cristiani senza distinzione, di sacrificare agli dèi (prima di tutto all'imperatore), pena la morte.

Illustri le vittime della persecuzione: tra gli altri, Marcellino e Pietro, Agnese, Lucia, Cassiano. Gravissima la perdita di libri sacri: andarono distrutti i libri della biblioteca della Chiesa romana, gli archivi pontifici, tanti antichi testi della Scrittura e dei Padri (pensiamo solo ai seimila, secondo la tradizione, testi di Origene, di cui ci è pervenuta solo una piccola parte).

III. GLI ATTI DEI MARTIRI DI ABITENE

La vicenda dei martiri di Abitene cade in questi anni. Ne abbiamo notizia dagli Atti, che un ignoto autore ha stilato, e dei quali è stata da alcuni messa in dubbio l'autenticità[40]: sarebbero tardi e sarebbero stati composti per ragioni legate alla controversia, disciplinare e dottrinale, in atto tra il IV e V secolo tra cattolici e donatisti nella chiesa africana. I donatisti[41], dottrinalmente sostenitori di una chiesa "resto d'Israele", un ristretto corpo di "salvati", aspiravano al martirio e giudicavano con grande rigidità quei cristiani, soprattutto chierici, che per debolezza avessero consegnato i libri sacri (i cosiddetti traditores),ritenendo di doverli escludere senza remissione dalla comunione ecclesiale. Un donatista avrebbe, perciò, scritto questi Atti,per esaltare la eroica testimonianza dei martiri e condannare i traditores,che macchiavano l'integrità e la purezza della chiesa.

I donatisti, peraltro, nella Conferenza di Cartagine del 411, alla quale partecipò anche Agostino, e che vide a confronto 286 vescovi cattolici contro 279 vescovi donatisti, per dichiarare invalida una riunione che si era tenuta a Cirta nel 305, e nella quale era stato nominato un vescovo cattolico, ricorrevano proprio agli Atti dei martiri di Abitene,che avrebbero dimostrato, dal loro punto di vista, che mai quella riunione si sarebbe potuta tenere, data la persecuzione in atto che proibiva qualsiasi tipo di assemblea cristiana. Ma i cattolici sostenevano, di contro, che proprio quegli Atti dimostravano che le riunioni si tenevano lo stesso, nonostante il divieto imposto dall'editto. Agostino, in particolare, in un'opera che riferisce di quella Conferenza[42], racconta: «I cattolici rispondevano che molto più facilmente si sarebbero potuti incontrare in una casa dodici uomini in quel tempo in cui anche raduni di moltitudini solevano verificarsi, per quanto infierisse la persecuzione, come era dimostrato proprio dalle gesta dei martiri, che durante la loro passione confessavano di avere partecipato alla 'colletta' e al dominicum»[43].

Il fatto che, a parere di alcuni[44], l'autore potrebbe essere stato un donatista, non toglie storicità e autenticità agli Atti,che, peraltro, dovrebbero essere stati composti anche abbastanza presto, visto che l'autore si propone come un testimone diretto dei fatti; alla fine del cap. IV, infatti, nota: «Gli scontri di questi loro combattimenti, non li esporrò con le mie parole, ma piuttosto con quelle dei martiri stessi». La ricostruzione più vicina alla verità appare quella di Gordini[45]: «Un redattore cristiano, forse contemporaneo agli avvenimenti, integrò il testo ufficiale dell'interrogatorio dei martiri con brevi commenti ed un rapido cenno sul susseguirsi dei fatti. Più tardi un compilatore donatista, per sostenere le idee della propria setta, apportò delle variazioni, aggiungendo un preambolo ed una appendice[46] in cui attaccava violentemente i cattolici. Sfrondando quindi il testo di queste due parti, si può sostanzialmente ricostruire il dialogo veramente splendido intessuto dai cristiani col giudice».

IV. ABITENE

Abitene (Abitinae)era una città della provincia romana detta Africa proconsularis,nell'odierna Tunisia, situata, secondo una indicazione di Agostino[47], a sud ovest dell'antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda[48]. È attestata come sede episcopale dai tempi di Cipriano, che ricorda (nelle Sententiae episcoporum del settimo concilio cartaginese del 256, tenuto sotto la sua presidenza) un vescovo Saturninus ab Abitinis (nei diversi codici abbiamo anche lezioni diverse: Avitinis, Vitinis)[49]. Vescovi di Abitene sono ricordati anche negli Atti della Conferenza di Cartagine del 411, prima ricordata: sono presenti alla conferenza un Maximus episcopus Abitinensis (Gesta 201,1,99) e un Vietar episcopus Abitinensis (Gesta 215,1,45). Vescovi di Abitene sono ancora menzionati nei concili del 525 e del 649[50]. Si è proposto di recente[51] una localizzazione di Abitene nel sito delle rovine di Henchir Chachoud, in un'ansa del fiume Medjerda, ipotesi confermata dalla scoperta di due iscrizioni che collocavano la città (indicata col nome di AVITINA o AVITNA) a 4 km a sud ovest di Membressa, e, più precisamente, nella località detta "Chouchoud el-Batin", nome che nella seconda parte, "el-Batin", sembra voler far memoria proprio dei martiri di Abitene[52].

V. NOTA CRITICA

La prima collezione di Atti dei martiri è stata quella del benedettino T. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta,Parigi 1689 (Ratisbona 1859)[53]. Per gli Atti dei martiri di Abitine una edizione migliore curò Baluzius (Miscellaneo,ed. Mansi 1761, p. 17), edizione utilizzata dal Migne[54], che tenne conto anche di altre edizioni (Surio, Henschen), oltre che del cod. 930 della Bibliotheca Colbertina.

[…]

VI. SOMMARIO DEGLI ATTI

L'editto di Diocleziano, la persecuzione dei cristiani: traditores e martiri.

Arresto dei martiri di Abitine, mentre celebravano la Pasqua domenicale. Elenco dei martiri.

I martiri vengono trasferiti da Abitine a Cartagine per essere processati. A Cartagine un prodigio celeste già aveva, tempo prima, difeso le Scritture.

I martiri giungono a Cartagine cantando inni, lieti di affrontare la lotta.

Il proconsole Anulino interroga Dativo e lo sottopone alla tortura. Si fa avanti Telica, confessa la sua fede; anche lui è sottoposto al supplizio.

Continua il supplizio di Telica, che oppone agli editti imperiali la legge di Dio; difende il diritto dei cristiani a radunarsi per il culto; rivolge la sua preghiera al Signore.

Anulino torna ad interrogare Dativo. Un pagano, Fortunaziano, lo accusa di avere sedotto sua sorella Vittoria e averla così convinta a farsi cristiana. Vittoria reagisce, affermando la propria libera scelta. Dativo viene sottoposto al supplizio.

Un altro pagano, Pompeiano, rivolge accuse calunniose contro Dativo, che confessa ancora la propria fede e viene ulteriormente torturato.

Viene la volta del presbitero Saturnino: sostiene l'importanza che la celebrazione della Pasqua domenicale ha per i cristiani; sostiene con forza il supplizio; rivolge la sua preghiera al Signore.

Si fa avanti Emerito; dice che le riunioni si sono tenute nella sua casa; confessa la sua fede; subisce il supplizio.

Ancora interrogato, Emerito attesta che senza la Pasqua domenicale i cristiani non possono vivere. Interrogato se possiede le Scritture, dice di possederle nel cuore.

Il proconsole e i carnefici sembrano stanchi. Ma è la volta di Felice; il martire attesta che il cristiano è fondato sulla Pasqua domenicale: l'uno non può essere senza l'altra. Viene battuto con le verghe fino alla morte. Così un altro martire col suo stesso nome.

Segue il martirio di Ampelio, di Rogaziano, di Quinto, di Massimiano, di un altro Felice: tutti attestano la loro fede nelle Scritture e nella Pasqua domenicale.

Viene interrogato e torturato il giovane Saturnino, figlio del presbitero, che segue in tutto il padre nella professione di fede e nella passione.

Scende la notte, i carnefici sono stanchi. Anulino cerca di vincere i rimanenti martiri interrogandoli tutti insieme, ma tutti restano saldi nella loro fede.

È la volta di Vittoria, che alla palma della verginità aggiunge quella del martirio. Non tiene in alcun conto la presenza del fratello: i suoi fratelli sono quelli che osservano i precetti del Signore.

Martirio del piccolo Ilarione, figlio del presbitero Saturnino. A nulla valgono le minacce del proconsole: Ilarione sostiene come un adulto la sua battaglia, rendendo grazie a Dio per il suo martirio.

2/ Gli atti dei martiri Saturnino presbitero e compagni, martiri di Abitene

Riprendiamo dal sito della Conferenza episcopale italiana la traduzione degli Atti del Martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano a cura di G. Micunco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/10/2015)

Medjez-el-Bab, Arco di trionfo, resti 

Martirio dei santi Saturnino, Dativo e molti altri in Africa sotto Diocleziano

1. La persecuzione di Diocleziano e l'arresto dei martiri (capp. 1-2) [N.B. de Gli scritti: è evidente nel primo paragrafo che l'ultimo redattore del testo è un donatista, mentre il resto del testo, più antico, non avrà più parole così dure contro coloro che fuggirono dal martirio]

I. Ai tempi di Diocleziano e Massimiano[55], il diavolo dichiarò guerra ai cristiani[56] in questo modo: si dovevano ricercare i sacri e santi Testamenti del Signore e le divine Scritture perché fossero bruciati[57]; si dovevano abbattere le basiliche[58] del Signore; si doveva proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore. Ma l'esercito del Signore Dio[59] non accettò tanto tremendo editto, ebbe orrore dei sacrileghi ordini: subito afferrò le armi della fede[60], scese in combattimento: la lotta non era contro gli uomini, ma piuttosto contro il diavolo[61]. E ci furono alcuni che caddero dal cardine della fede e consegnarono ai pagani le Scritture del Signore e i divini Testamenti perché fiamme sacrileghe li bruciassero[62]; furono, però, moltissimi quelli che morirono da forti, per custodire quei libri, versando per essi con gioia il proprio sangue[63]. Costoro, pieni di Dio, vinto e abbattuto il diavolo, levando nella loro passione la palma della vittoria, martiri tutti, firmavano con il proprio sangue contro i traditori e i loro alleati la sentenza con la quale li avevano rigettati dalla comunione ecclesiale. Non sarebbe stato giusto infatti che nella chiesa di Dio ci fossero insieme martiri e traditori[64].

II. Accorrevano pertanto da ogni parte verso il campo di battaglia immense schiere di confessori[65], e ciascuno, dove trovava il nemico[66], lì piantava l'accampamento del Signore. E così, risuonando la tromba di guerra nella città di Abitene[67], nella casa di Ottavio Felice[68], lì i gloriosi martiri levarono le insegne del Signore; e lì, dai magistrati di quella colonia e dai soldati di stanza in quel luogo, proprio mentre celebravano, come di consueto, la Pasqua domenicale[69], ecco che vengono catturati. Sono il presbitero Saturnino[70] con i suoi quattro figli, cioè Saturnino il giovane, e Felice, entrambi lettori[71], Maria, vergine consacrata[72], e il piccolo Ilarione; e così anche Dativo, che pure era senatore, Felice, un altro Felice, Emerito, Ampelio, Rogaziano, Quinto, Massimiano, Telica, Rogaziano, Rogato, Gennaro, Cassiano, Vittoriano, Vincenzo, Ceciliano, Restituta, Prima, Eva, Rogaziano, Givalio, Rogato, Pomponia, Seconda, Gennara, Saturnina, Martino, Danto, Felice, Margherita, Maggiore, Onorata, Regiola, Vittorino, Pelusio, Fausto, Daciano, Matrona, Cecilia, Vittoria, Erettina, Seconda, un'altra Matrona, un'altra Gennara[73]. Tutti costoro, catturati, venivano condotti al foro[74] ed erano pieni di esultanza.

2. Martirio di Dativo e Telica: "per noi è legge celebrare il dominicum". La funzione del presbitero (capp. V-VI)

V. Dai funzionari vengono quindi tradotti davanti al proconsole; si fa presente che i magistrati di Abitene hanno inviato dei cristiani che, trasgredendo il divieto degli Imperatori e dei Cesari[75], avevano tenuto l'assemblea per celebrare la Pasqua domenicale[76]. Il proconsole interroga per primo Dativo e gli chiede di che condizione sociale sia e se abbia partecipato all'assemblea. Poiché quello si professa cristiano e confessa di avere partecipato all'assemblea, gli viene richiesto chi avesse organizzato la santissima assemblea. E subito dà ordine ai suoi funzionari di innalzarlo sul cavalletto[77] e, una volta disteso su di esso, straziarlo con gli uncini. Ma, mentre i carnefici eseguivano questi crudeli ordini con atroce rapidità, e piantati accanto a lui infierivano anche a parole, e, denudati i fianchi del martire per straziarlo, gli stavano addosso con gli uncini levati, d'un tratto Telica, fortissimo martire, si gettò tra i torturatori e gridò: «Siamo cristiani. Da noi stessi - disse - ci siamo radunati per l'assemblea». Subito il proconsole arse di furore e, gemendo, perché gravemente ferito dalla spada dello Spirito[78], fece infliggere gravissimi colpi al martire di Cristo, lo fece stendere sul cavalletto e lo fece dilaniare con gli uncini che stridevano su di lui. Purtuttavia, il gloriosissimo martire Telica, proprio di mezzo alla rabbia dei carnefici si rivolgeva al Signore e gli rendeva grazie[79] con queste preghiere: «Rendo grazie a Dio. Nel tuo nome[80], Cristo, Figlio di Dio[81], libera i tuoi servi[82]».

VI. Il martire pregava così. Il proconsole gli chiese: «Chi ha organizzato, insieme a te, la vostra riunione?». E quello, mentre il carnefice infieriva con maggiore crudeltà, con voce chiara rispose: «Il presbitero Saturnino e noi tutti»[83]. O martire, così tu davi a tutti il primato! Non pose, infatti, al primo posto il presbitero, e poi i fratelli, ma mise il presbitero insieme ai fratelli, associandoli nell'unica confessione di fede. E poiché, allora, il proconsole cercava Saturnino, glielo indicò: e fece questo non per tradire il compagno, che egli, peraltro, vedeva bene come stesse combattendo insieme a lui allo stesso modo contro il diavolo, ma perché a quello fosse chiaro che essi avevano celebrato validamente[84] l'assemblea, dal momento che insieme a loro c'era stato anche il presbitero. Intanto, insieme alla voce sgorgava il sangue, mentre supplicava il Signore: ben ricordando l'insegnamento del vangelo[85], il martire chiedeva perdono per i suoi nemici, proprio mentre dilaniavano il suo corpo. E infatti, proprio tra i gravissimi tormenti procurati dalle ferite, con queste parole riprendeva parimenti i suoi torturatori e il proconsole: «Voi agite ingiustamente, o infelici; voi agite contro Dio. O Dio altissimo, non imputare loro questi peccati[86]. Voi state peccando, o infelici; voi agite contro Dio. Osservate i comandamenti del Dio altissimo. Voi agite ingiustamente, o infelici; voi dilaniate degli innocenti. Non abbiamo ucciso nessuno; non abbiamo frodato nessuno[87]. Dio, abbi misericordia. Ti rendo grazie, Signore; dammi la forza di soffrire per il tuo nome. Libera i tuoi servi dalla schiavitù di questo mondo[88]. Ti rendo grazie; non potrò mai renderti grazie abbastanza[89]». E mentre con maggiore violenza i suoi fianchi venivano incisi dai colpi inferti dagli uncini, e un'onda copiosa di sangue sgorgava a tratti violenti, udì che il proconsole gli diceva: «Comincerai a provare quello che dovete patire». E lui aggiunse: «Per la sua gloria. Rendo grazie a Dio che regna. Vedo già il regno eterno, il regno che non si corrompe[90]. Signore Gesù Cristo, noi siamo cristiani, siamo al tuo servizio; tu sei la nostra speranza[91], tu sei la speranza dei cristiani». Mentre pregava così, mentre il diavolo per bocca del proconsole continuava a dire: «Avresti dovuto osservare l'editto degli Imperatori e dei Cesari», stremato ormai nel corpo, ma vittorioso nell'animo, con voce ancora forte e ferma proclamò: «Non mi curo se non della legge di Dio[92] che ho appreso. Quella osservo, per quella morirò, in quella per me è il compimento di tutto[93]: fuori di quella non ve n'è un'altra». A queste parole del gloriosissimo martire, era proprio Anulino che ancora di più nei suoi tormenti si tormentava. Quando infine la sua rabbia si fu saziata delle feroci torture, disse: «Basta!». Lo fece chiudere in carcere e lo destinò a una passione degna di tale martire.

3. Martirio di Saturnino di Emerito e di felice: "senza il dominicum non possiamo essere" (capp. X-XII)

X. Intanto il presbitero Saturnino, sospeso sul cavalletto bagnato dal sangue da poco sparso dai martiri[94], si sentiva confortato a restare saldo nella fede di coloro sul cui sangue era disteso. Interrogato se fosse lui il promotore e se fosse stato proprio lui a radunare tutti in assemblea, rispose: «Anch'io fui presente all'assemblea»[95]. Egli così diceva, ma intanto il lettore Emerito, balzando al combattimento proprio mentre il presbitero sosteneva la lotta, disse: «Il promotore sono io: è nella mia casa che si sono tenute le assemblee[96]». Ma il proconsole, che ormai già tante volte era risultato sconfitto, vedeva con terrore gli attacchi di Emerito, e pertanto, rivolto verso il presbitero, gli chiese: «Perché agivi contro l'editto imperiale, Saturnino?». E Saturnino gli replicò: «Non si può smettere di celebrare la Pasqua domenicale: così ordina la nostra legge[97]». E allora il proconsole: «Sarebbe stato però tuo dovere non disprezzare il divieto imperiale, ma osservarlo, e non prendere iniziative contro l'editto degli Imperatori». E, con parole che già da tempo aveva imparato ad usare riguardo ai martiri, spronò il torturatore a infierire contro di lui, e questi non fu affatto pigro nell'obbedirgli fedelmente. I carnefici, così, si buttano sul corpo senile del presbitero e, con rabbia furiosa, rotti i legamenti dei nervi, lo dilaniano con supplizi da far gemere, e con torture di nuovo tipo, raffinate, trattandosi di un sacerdote di Dio[98]. Avresti potuto vedere infierire i carnefici come mossi da fame rabbiosa a pascersi di ferite, e, aperte le viscere, con orrore di chi stava a guardare, avresti visto biancheggiare tra il rosso del sangue le ossa messe a nudo. Perché nelle pause tra una tortura e l'altra l'anima non venisse meno sì da abbandonare il corpo, mentre lo attendeva ancora il supplizio, con tali parole il presbitero supplicava il Signore: «Ti prego, Cristo, esaudiscimi. Ti rendo grazie, o Dio. Fa' che io sia decapitato! Ti prego, Cristo, abbi misericordia. Figlio di Dio, soccorrimi». Intanto il proconsole insisteva: «Perché agivi contro l'editto?». E il presbitero: «La nostra legge così comanda; la nostra legge così insegna»[99] replicò. O risposta davvero ammirevole e divina, degna di un presbitero e dottore che merita ogni lode! Da presbitero predica anche tra i tormenti la santità di quella legge per la quale con gioia sostiene i supplizi. Spaventato a sentir pronunziare la parola 'legge'[100], Anulino finalmente disse: «Basta!». Lo fece ricondurre sotto custodia in carcere e lo riservò al supplizio da lui bramato.

XI. Fatto poi venire avanti Emerito, il proconsole gli chiese: «Nella tua casa si sono tenute le assemblee contro l'editto degli Imperatori?». E Emerito, inondato di Spirito Santo[101], gli rispose: «Nella mia casa abbiamo celebrato la Pasqua domenicale». Quello replicò: «Perché davi il permesso di entrare da te?». Rispose: «Poiché sono miei fratelli e non potevo proibirglielo»[102]. Replicò: «Ma proibirglielo sarebbe stato tuo dovere». Ma lui: «Non potevo, perché senza la Pasqua domenicale non possiamo essere»[103]. Subito ordina che anche lui sia disteso sul cavalletto e, una volta disteso, sia torturato. Mentre pativa tremendi colpi da parte di nuovi carnefici, che intanto si erano dati il cambio, disse: «Ti prego, Cristo, soccorrimi. E voi, infelici, state agendo contro il comandamento di Dio». Il proconsole lo interruppe: «Non avresti dovuto accoglierli in casa». Rispose: «Non potevo far altro se non accoglierli, perché sono miei fratelli». E il proconsole: «Ma prima veniva l'editto degli Imperatori e dei Cesari». E di contro, il piissimo martire: «Prima viene Dio che è più grande, poi gli Imperatori[104]. Ti prego, Cristo. Ti rendo lode, Cristo Signore. Dammi la forza di patire». Mentre così pregava, intervenne il proconsole: «Hai qualche libro delle Scritture nella tua casa?». Gli rispose: «Le ho, ma nel mio cuore»[105]. E il proconsole: «Ma nella tua casa le hai, o no?». Il martire Emerito rispose: «Nel mio cuore le ho. Ti prego, Cristo. A te la lode. Liberami, Cristo: patisco per il tuo nome. Per poco patisco; con gioia patisco[106], Cristo Signore. Che io non sia confuso[107]». O martire, che, ricordando la parola dell'Apostolo, la legge del Signore la tenne scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivo, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del suo cuore[108]! O martire degno della legge sacra e suo diligentissimo custode, che avendo in orrore il crimine dei traditori[109], per impedire la distruzione delle Scritture del Signore, le ripose nel segreto del suo petto! Preso atto di ciò, il proconsole disse: «Basta!» e, mettendo agli atti la sua confessione insieme alla confessione degli altri, disse: «Secondo i vostri meriti e in conseguenza della vostra confessione, pagherete tutti la pena che vi meritate».

XII. La rabbia ferina, sazia dei tormenti dei martiri, la bocca sporca di sangue[110], dava ormai segni di stanchezza. Ma fattosi avanti al combattimento Felice, tale di nome, ma anche per la sua passione, mentre tutta la schiera del Signore restava salda, incorrotta ed invitta, il tiranno, la mente prostrata, la voce bassa, l'animo e il corpo disfatti, disse: «Spero che voi facciate la scelta che vi permetta di continuare a vivere, quella di osservare gli editti». Di contro, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, quasi a una sola voce dissero: «Siamo cristiani: non possiamo osservare altra legge se non quella santa del Signore fino all'effusione del sangue». Colpito da queste parole, l'avversario[111] diceva a Felice: «Non ti chiedo se tu sei cristiano, ma se hai partecipato all'assemblea o se hai qualche libro delle Scritture»[112]. O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha detto: «Non dire se sei cristiano», e poi ha aggiunto: «Dimmi invece se hai partecipato all'assemblea». Come se un cristiano possa essere senza la Pasqua domenicale[113], o la Pasqua domenicale si possa celebrare senza che ci sia un cristiano! Non lo sai, Satana[114], che è la Pasqua domenicale a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale[115], sicché l'uno non può sussistere senza l'altra, e viceversa? Quando senti dire "cristiano", sappi che vi è un'assemblea che celebra il Signore; e quando senti dire "assemblea", sappi che lì c'è il cristiano[116]. Insomma è il martire che ti fa il processo e ti mette in ridicolo. Per la sua risposta sei tu a rimanere battuto. «L'assemblea - disse - l'abbiamo celebrata con ogni solennità, e per leggere le Scritture del Signore siamo sempre convenuti nella Pasqua domenicale[117]». Anulino, gravemente confuso da questa professione di fede, fa battere il martire con le verghe, fino a che quello, esanime, compiuta la sua passione, si unì, raggiungendo in fretta i seggi tra gli astri[118], all'assemblea celeste. Ma a quel Felice segue un altro Felice, uguale nel nome e nella professione di fede, simile a lui nella passione. Venuto infatti a combattimento, con pari valore, anche lui squassato dalle battiture delle verghe, spirato in carcere tra i tormenti, fu associato al martirio del primo Felice.

4. Anche le donne tra i martiri: il martirio della vergine Vittoria (cap. XVI)

XVI. Non poteva il piissimo sesso femminile, né il coro delle sacre vergini, essere privato della gloria di sì nobile combattimento: tutte le donne, con l'aiuto di Cristo Signore, nella persona di Vittoria vennero a combattimento e conseguirono la corona[119]. Vittoria, infatti, la più santa fra le donne, il fiore delle vergini, onore e dignità dei confessori del Signore, nobile di nascita, santissima per la pietà, temperante nei costumi, nella quale i doni naturali risplendevano per il candore della sua purezza, e alla bellezza del corpo corrispondeva più bella la fede dello spirito e l'incontaminatezza della santità[120], si rallegrava di dover conseguire (dopo quella della verginità) una seconda palma, come martire del Signore[121]. In lei, infatti, già dall'infanzia rifulgevano luminosi i segni della sua purezza, e già in età di fanciulla era manifesto il rigore della sua castissima anima, e, in qualche modo, la dignità della futura passione. Infine, dopo che nella pienezza della sua verginità raggiunse l'età adulta, i genitori volevano costringerla, pur contro la volontà e l'opposizione della ragazza, alle nozze, e le stavano dando i genitori, suo malgrado, uno sposo[122]; per sfuggire al 'predone'[123], la ragazza, di nascosto, si era gettata giù da un precipizio, ma sostenuta da brezze leggere venute in suo soccorso, l'aveva accolta incolume la terra nel suo grembo[124]. Né avrebbe potuto in seguito patire anche per Cristo Signore, se fosse morta allora solo per preservare la sua purezza. Liberata pertanto dalle fiaccole nuziali[125], ed elusi insieme i genitori e il promesso sposo, balzando via quasi dal bel mezzo della celebrazione stessa delle nozze, si rifugiò, incontaminata vergine, nella chiesa, tempio di purezza e porto di castità; e lì con illibata purezza custodì in perpetua verginità la sacratissima chioma del suo capo consacrato e votato a Dio[126]. Lei dunque, affrettandosi al martirio, portava come palma trionfale nella destra il fiore della sua purezza. E al proconsole, che l'interrogava sulla sua fede, con voce chiara rispose: «Sono cristiana». Il fratello Fortunaziano, uomo togato e suo difensore, diceva con vane argomentazioni che lei era uscita di mente[127], ma Vittoria rispose: «La mia mente sta ben salda in me, e non sono mai cambiata». Il proconsole le replicò: «Vuoi andare via con tuo fratello Fortunaziano?». Rispose: «Non voglio, perché sono cristiana: i miei fratelli sono quelli che osservano i precetti di Dio[128]». O fanciulla fondata sull'autorità della legge divina! O vergine gloriosa degnamente consacrata al Re eterno[129]! O martire beatissima, così glorificata dalla sua professione di fede fondata sul vangelo, che rispose con le parole stesse del Signore: «I miei fratelli sono coloro che osservano i precetti di Dio»[130]. Udito ciò, Anulino mise da parte l'autorità del giudice e scese a parole persuasive con la fanciulla: «Pensa a te - le disse -. Tu vedi che tuo fratello con tanto ardore si preoccupa della tua salvezza». Ma la martire di Cristo gli replicò: «La mia mente sta ben salda in me, e non sono mai cambiata. Ho partecipato anch'io all'assemblea e ho celebrato la Pasqua domenicale con i fratelli, perché sono cristiana». Appena ebbe udito ciò, Anulino, agitato dalle furie[131], arse d'ira; relegò in carcere insieme agli altri la santissima fanciulla martire di Cristo e tutti destinò alla passione del Signore.

5. Anche i fanciulli tra i martiri: il martirio di Ilarione (cap. XVII)

XVII. Ma restava ancora Ilarione, uno dei figli del presbitero martire Saturnino, che appariva più grande della sua tenera età a motivo della sua grande devozione. Egli, avendo fretta di unirsi ai tormenti di suo padre e dei suoi fratelli, era ben lontano dal provare terrore per le terribili minacce del tiranno, e anzi non le tenne in nessun conto[132]. Gli veniva chiesto: «Hai seguito tuo padre e i tuoi fratelli?». E prontamente da quel piccolo corpo viene fuori una voce giovanile; il minuto petto del fanciullo si apre tutto alla confessione del Signore[133], con questa risposta: «Sono cristiano, e di mia spontanea volontà ho partecipato all'assemblea con mio padre e con i miei fratelli». Ti sarebbe parso di sentire la voce di suo padre, il martire Saturnino, venir fuori dalla bocca del suo dolce figlio, e la sua lingua confessava Cristo Signore sicura dietro l'esempio del fratello. Ma il proconsole, stolto, non capiva che contro di lui, non gli uomini, ma Dio stesso combatteva nei suoi martiri, né comprendeva che in quella età di fanciullo c'era un animo di adulto; e riteneva che il fanciullo potesse essere spaventato con quelle minacce che spaventano di solito i bambini. E così gli disse: «Ti taglierò i capelli, il naso e le orecchie, e poi ti lascio andare così». Ma a queste minacce il piccolo Ilarione, già glorioso per le virtù mostrate dal padre e dai suoi fratelli, lui che aveva imparato già dai suoi a disprezzare i tormenti, con voce chiara rispondeva: «Fa' pure tutto quello che vuoi fare, perché io sono cristiano». Si dà subito ordine che sia messo in carcere anche lui, e si sente la voce di Ilarione che dice con grande gaudio: «Rendo grazie a Dio»[134], Qui viene portata a compimento la lotta del grande combattimento. Qui il diavolo viene battuto e vinto[135]. Qui si allietano i martiri di Cristo, rallegrandosi in eterno per la gloria futura destinata alla loro passione.

Note al testo

[1] Sine dominico non possumus. I martiri di Abitene e la Pasqua domenicale (Testo degli Atti dei martiri di Abitene, con introduzione, traduzione e note di G. Micunco, presentazione di Vito Angiuli), Ecumenica Editrice, Bari 2004.

[2] Si è preferito conservare la più comune dizione "Abitene": alcuni propongono "Abitine" (così nei testi latini: Abitinae),altri "Abitina" (così in base ad alcune iscrizioni). Sulla identificazione di questa cittadina africana vd. più avanti [la parte IV].

[3] Ma dies dominicus è già attestato in Tertulliano, cor. 3.

[4] Ritroveremo tutti questi termini nelle parole dei martiri di Abitene […].

[5] Cfr Girolamo, a. Abr. 2343: dominicum quod vocatur aureum aedificore coeptum est,«si cominciò a costruire la basilica detta aurea», una chiesa in Antiochia, poi consacrata (dominicum aureum dedicatur a. Abr. 2362).

[6] Cfr, ad esempio, Cipriano, eleem. 15, p. 384,21: in dominicum sine sacrificio venis, «vieni in chiesa (o alla celebrazione domenicale) senza partecipare al sacrificio» (Cipriano si rivolge ad una matrona "benestante e ricca", che non si cura di fare la sua offerta di denaro); Agostino, serm. 32,25: discant venire ad dominicum, «imparino a venire in chiesa (o alla celebrazione domenicale)».

[7] Elementi che è possibile ritrovare anche nel racconto che fa san Giustino martire nella sua prima Apologia (nn. 65-67). Giustino chiama la domenica "giorno del sole": così era detto nella terminologia profana quel giorno, ma per Giustino era il «primo giorno, nel quale Dio, mutando la tenebra e la materia creò il mondo, e anche perché Gesù Cristo nostro salvatore, in quello stesso giorno risorse da morte». La domenica è ancora chiamata "giorno del sole" nelle lingue anglosassoni (ingl. sunday;ted. sonntag).

[8] Sulla celebrazione domenicale notturna, vd. D. Rops, L'église des apôtres et des martyres,trad. it., Torino 1969, vol. I, p. 211.

[9] In 11 capitoli su 17: II, V, VII, VIII, IX, X, XI (2), XII (5), XIII (2), XIV (2), XVI.

[10] 9 v.: II, V, VII, VIII, IX, XII (2), XIII, XVI.

[11] 3 v.: XI, XIV (2).

[12] 1 v.: XII.

[13] Commentando Eusebio di Cesarea, hist. eccl.,VIII, 1,5, a proposito delle «chiese» ai tempi della persecuzione di Diocleziano, M. Ceva (in Eusebio di Cesarea. Storia ecclesiastica, Milano 1979, p. 435, n. 4), precisa: "Poiché nella metà del terzo secolo non esisteva ancora, né poteva esistere, un'architettura religiosa cristiana ufficiale, il termine "chiese" indica qui semplicemente gli òikoi ekklesias,cioè dei luoghi di riunione strutturati secondo la tradizione ellenistico-romana della ricca residenza privata, adattati alle nuove esigenze delle congregazioni cristiane. Il più antico esempio di òikos ekklesias sicuramente databile (200-230) si trova a Dura Europos (oggi Qalat el Salihiye), al confine tra la Siria e la Mesopotamia. Soltanto in età costantiniana, con il riconoscimento ufficiale della funzione pubblica, cioè religiosa, sociale e politico-amministrativa del Cristianesimo, si ebbe la nascita e il rapido sviluppo di un'architettura cristiana ufficiale rappresentata particolarmente dalla basilica, spettacolare nelle dimensioni e nella ricchezza dei materiali usati nella sua costruzione». [Per una diversa posizione che invita a riconoscere, invece, la presenza di edifici cristiani appartenenti alla comunità, cfr. ???]

[14] Dal gr. basiléus, "re", la basilica era propriamente il luogo in cui si amministrava la giustizia civile; i cristiani utilizzarono il termine per il Re della giustizia divina e, una volta ottenuta la libertà religiosa, utilizzarono anche l'impianto architettonico delle basiliche pagane.

[15] Questo, peraltro, sarebbe l'unico caso in cui il personaggio sarebbe indicato con due nomi, Ottavio Felice: in tutti gli altri casi degli Atti abbiamo sempre solo un nome.

[16] G. Caldarelli, Atti dei martiri (a cura di), Alba 1975, p. 625.

[17] Basti ricordare ancora la testimonianza di Giustino: «Nel giorno detto del sole, convengono tutti nello stesso luogo, sia quelli della città, sia quelli della campagna, e, finché il tempo lo permette, si leggono le memorie degli Apostoli, oppure le scritture dei profeti; poi, quando il lettore ha cessato, chi presiede l'assemblea parla ammonendo ed esortando a imitare esempi così belli» (apol.I, 67).

[18] Celebre il passo del libro di Neemia (Ne 8,1ss.), in particolare v. 3 (desse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno») e v. 8 (eleggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura»).

[19] Sono espressioni che ritornano nell'inno Vexilla regis di Venanzio Fortunato (VI secolo): Vexilla regis prodeunt,/fulget crucis mysterium,/qua come carnis conditor/suspensus est patibulo:/quo vulneratus insuper/mucrone diro lanceae/ut nos lavaret crimine,/manavit unda et sanguine, «Avanzano i vessilli del re, rifulge il mistero della croce, per il quale il creatore della carne con la sua carne fu appeso al patibolo; ferito poi dalla punta crudele della lancia, per lavarci dal peccato, versò acqua e sangue».

[20] Di cui 2 al plurale: dominicum,invece, non compare mai al plurale.

[21] 8 v.: V, VII, X, XI, XII, XIII (2 v.), XVII.

[22] 6 v.: V, VII, VIII, X, XII, XVI.

[23] Una associazione che ritroviamo anche in un testo di Agostino (collectam et dominicum egisse, in brev. coll. Don. 3,17,32), un testo che si riferisce proprio ai martiri di Abitene, e che sembra quasi una citazione dagli Atti di quel martirio (vd. anche p. 272).

[24] Più sopra (p. 264-65 e nota) lo abbiamo visto messo in rilievo sia nel racconto di Plinio, che in quello di Giustino.

[25] Un uso attestato già nella chiesa primitiva, come quella organizzata da Paolo per la chiesa di Gerusalemme, cfr Rm 15,26; 2 Cor 8-9; in particolare, per le collette di domenica («ad ogni primo giorno della settimana») vd. 1 Cor 16,1-2.

[26] S. Mazzarino, L'impero romano, Bari 1996 (I ed. 1973), vol. II, p. 523.

[27] S. Mazzarino, op. cit., p. 527.

[28] S. Mazzarino, op. cit., p. 578.

[29] S. Mazzarino, op. cit.,p. 594.

[30] J. Lortz, Storia della Chiesa,trad. it. Alba 1969, p. 111.

[31] È anche il giudizio di D. Rops (op. cit.,p. 394): «Man mano che il sistema tetrarchico progrediva nella via dell'organizzazione centralizzatrice dello Stato, esso doveva sopportare sempre meno ogni non conformismo».

[32] C. Moreschini, Cristianesimo e impero,Firenze 1973, p. 15, che riferisce il parere di altri studiosi.

[33] G. Zeiller, in A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa,trad. it, Torino 1959, vol. II, p. 568.

[34] Alla prostrazione sarebbero stati tenuti anche gli ufficiali prima di prendere il comando, e questo avrebbe creato dei problemi per i cristiani: Zeiller (ibid.) ritiene poco probabile la cosa.

[35] Veniva, come tanti soldati dell'esercito di Galerio, dalla regione oltre il Danubio, dalla quale la popolazione civile si era dovuta trasferire, dopo la guerra condotta da Aureliano contro i Carpi (272); era stata così creata la provincia della Dacia nova,sulla destra del Danubio: il termine transdanuviano usato da Lattanzio (De mortibus persecutorum 9) equivale a barbara (cfr S. Prete, Lattanzio. De mortibus persecutorum,1-16; 21-22; 52, Bologna 1962, p. 66).

[36] Così Zeiller (ibid),che prende le notizie da Lattanzio (De mort. pers. 11: «Deorum montium cultrix»). «Le iscrizioni della Dacia e della Mesia indicano in Silvanus, Diana, Liber Pater,le divinità in culto colà. Lattanzio tuttavia, pare che voglia far notare il carattere montanaro e semibarbaro della famiglia di Galerio» (S. Prete, op. cit.,p. 71).

[37] Lattanzio, De mort. pers. 11.

[38] P. Calliari, Lattanzio. La morte dei persecutori,Alba 1965, p. 60, nota 6.

[39] La traduzione è di M. Ceva, op. cit.

[40] Importanti raccolte degli Acta martyrum (vd. H. Musurillo, The Acts af the Christian Martyrs, Oxford 1972; AA. VV., Atti e passioni dei martiri, Vicenza 1987) non li riportano per questo motivo.

[41] Così detti da Donato vescovo di Cartagine dal 315 al 355, che promosse e guidò lo scisma che da lui prese nome e che funestò per circa un secolo la chiesa nordafricana.

[42] S. Agostino, Breviculus collationis cum donatistis,111,32.

[43] Anche Agostino conosce gli Atti dei martiri di Abitene,anzi nell'ultima espressione su riportata (confitebantur se collectam et dominicum egisse),come abbiamo già notato, sembra citarli espressamente (cfr supra,p. 268, nota 22).

[44] Vd., ad esempio, D. Ruiz Bueno, Actas de los martires,Madrid 1968, pp. 970-971.

[45] G. D. Gordini, in Bibliotheca Sanctorum,Roma 1968, XI, 682-683, s. v. Saturnino.

[46] Questi due testi, presenti nell'edizione del Migne, giustamente non sono riportati nell'edizione di Ruiz Bueno, che abbiamo seguito per il presente lavoro (vd.più avanti, Nota critica).

[47] Contra epist. Parmeniani, III, 6,2 = CSEL 51, p. 141.

[48] Vd. J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft,I, 1,101, s.v. Abitinae.

[49] Cipriano, sent. episc.,64 (= CSEL 3, p. 456).

[50] Harduinus, Acta conciliorum II, 1082 B; III, 749 C.

[51] J. Mesnage, L'Afrique chrétienne. Évêchés et ruines antiques,Paris 1912, p. 43.

[52] Cfr S. Lancel, Actes de la Conférence de Carthage en 411, Paris 1991, t. IV (Indices),pp. 1296-1297.

[53] La collezione di Ruinart ha fatto da base per tutte le successiveraccolte. L'unica moderna che possa reggere il confronto con la sua è quella di H. Leclerq, Les martyres, recueil des pièces authentiques sur les martyres, depuis les origines du christianisme jusqu'au XX siècle, Paris 1902.

[54] J. P. Migne, Patrologia Latina,Parigi 1844-1864, VIII, 688 ss.

[55] L'autore non precisa l'anno. Da S. Agostino (brev. coll. Don., 17) sappiamo che il martirio avvenne «quando Diocleziano era console per la nona volta e Massimiano per l'ottava volta, il giorno prima delle idi di febbraio», quindi il 12 di febbraio dell'anno 304.

[56] È il «diavolo» il vero avversario dei testimoni di Cristo, come si dice poco più avanti: «la lotta non era contro gli uomini, ma piuttosto contro il diavolo», riprendendo la parola di Paolo: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6, 12). Cfr. anche cap. VII (il diavolo parla per bocca del proconsole Anulino), cap. IX (Anulino è il diavolo stesso).

[57] Nell'editto di Diocleziano l'ordine di bruciare i libri sacri è al secondo posto (prima viene quello di distruggere i luoghi di culto); ma per i cristiani viene prima di tutto la Parola di Dio; peraltro, i luoghi sacri si possono avere altrove, o si possono ricostruire, mentre la perdita dei libri è per certi versi irreparabile: pensiamo a quanti antichi codici della Scrittura o dei Padri devono essere andati distrutti... «Testamenti» è qui equiparato a «Scritture». Il codice colbertino ha, invece di Testamenta, la lezione sacramenta, che ritiene equivalente a magisteria, quindi a "insegnamenti autorevoli" da custodire come sotto "giuramento" (sacramentum).

[58] Il termine indica qui semplicemente le case in cui le comunità cristiane si riunivano; il luogo di riunione, sarà chiamato anche direttamente dominicum (cap. XII).

[59] L'espressione richiama subito il Dominus Deus sabaoth, di Is 6, 3: «Santo, santo, santo, il Signore Dio degli eserciti». Ma la comunità cristiana, e la vita cristiana, era intesa come militia Christi, un "militare" agli ordini di Cristo; non a caso il greco mystérion, che indicava i sacramenti della vita cristiana a partire dal battesimo, fu tradotto in latino con sacramentum, il termine che indicava il "giuramento" che prestavano i soldati e con cui si impegnavano fino alla morte a combattere per la patria. Tutto il passo utilizza un linguaggio da battaglia.

[60] Cfr. Ef 6, 13 ss.

[61] Cfr. Ef 6, 12 e nota 2.

[62] Sono i cosiddetti traditores, dal verbo tradere, "consegnare": sono propriamente i "consegnatori" (dei libri delle Scritture); il termine ha assunto, anche per causa loro, il significato attuale di "traditori". Detestati dalla comunità cristiana, furono anche all'origine dello scisma attuato dai donatisti.

[63] Le Scritture sono Cristo stesso: versare il sangue per custodire le Scritture è versare il sangue per Cristo e per i fratelli. Nel «sangue versato» è possibile vedere un primo riferimento al sacrificio di Cristo e all'Eucaristia; ce ne saranno tanti altri: il sacrificio dei martiri viene continuamente associato a quello di Cristo.

[64] È soprattutto in espressioni di questo genere che è possibile avvertire la polemica donatista, ma una posizione ugualmente rigorosa è possibile ritrovare anche nel Cipriano del De lapsis e di molte epistole.

[65] È il titolo con cui vengono definiti coloro che confessavano, o professavano, pubblicamente la propria fede cristiana, anche, come in questo caso, a rischio o a prezzo della vita.

[66] Altro modo di definire il diavolo, l'"avversario", Satana (nome che in ebraico significa appunto "avversario").

[67] Abitene è oggi molto probabilmente Chouchoud el-Batin (in Tunisia), nome che nella seconda parte "el-Batin" sembra conservare memoria proprio dell'antica Abitene. Contro la lezione Alutinensi (Colb.), Henschen ha il nostro Abitinensi («ex duobus antiquis codicibus»,  "sulla base di due antichi codici", come lui stesso riferisce). La stessa grafia (Alutinensium. Alutinensem) il codice colbertino propone anche negli altri passi in cui ricorre il toponimo Abitine.

[68] È il proprietario della casa in cui era riunita la comunità cristiana al momento dell'arresto (nel cap. XIV si dice che altre riunioni di culto si erano tenute nella casa di Emerito). Solo in questo caso abbiamo nome (quello della gens: Ottavio) e cognome (Felice): c'è la possibilità che si giochi su Octavi (genitivo di Octavius, ma anche di Octavus) per indicare l'ottavo giorno, il giorno del Signore, e la comunità dei salvati (cfr. 1 Pt 3, 20-21).

[69] Abbiamo scelto di tradurre così dominicum, in quanto il termine, che contiene vari significati, si riferisce soprattutto alla domenica come giorno del Risorto. Importante la sottolineatura «come di consueto». Henschen ha dominica sacramenta, "i sacramenti del Signore", sulla base del codice Trevirense.

[70] Saturnino è il «presbitero», il responsabile ecclesiastico di questa comunità cristiana: viene chiamato sempre con questo titolo, l'"anziano", che nel Nuovo Testamento si dà a quelli che oggi noi chiamiamo vescovi e sacerdoti; solo una volta viene detto «sacerdote di Dio» (cap. X), e una volta «dottore», cioè 'maestro', (sempre nel cap. X): solo con la sua presenza la Pasqua domenicale viene celebrata validamente (integre).

[71] Grande importanza aveva nella chiesa antica la figura del lettore, per l'ampio spazio che si dedicava alla lettura della Parola di Dio (vd. poi più avanti, cap. XII). Non è un caso che l'Apocalisse riporti come prima beatitudine quella del lettore: «Beato colui che legge» (Ap 1, 3), il lettore dell'assemblea riunita per il culto. Più avanti (cap. X) anche Emerito ha il titolo di lettore.

[72] La presenza di questa vergine consacrata, e poi quella di Vittoria (cap. XVI) ella pure votata alla verginità, dice della grande diffusione di questo stato all'interno della comunità cristiana.

[73] Cinquanta cristiani in tutto, 32 uomini e 18 donne.  Il Migne legge i due nomi Margarita, Maior come un solo nome Margarita maior, Margherita maggiore, ma tale lezione si giustificherebbe solo con la presenza di una Margarita minor, che non c'è.

[74] La piazza della città antica, circondata dai principali edifici civili e religiosi, e in cui si svolgeva buona parte della vita pubblica. Qui sta per il luogo in cui si amministrava la giustizia (anche oggi il termine "foro" ha praticamente solo questa valenza).

[75] È il divieto imposto dall'editto di Diocleziano, qui attribuito a tutta la tetrarchia, ai due Imperatori, gli Augusti Diocleziano e Massimiano, e ai due Cesari, Galerio e Costanzo Cloro.

[76] Abbiamo preferito tradurre così collectam et dominicum celebrassent, propriamente «avevano celebrato la "colletta" (cioè l'assemblea) e la Pasqua domenicale». Il Migne legge collectam dominicam, «l'assemblea del Signore», espressione che, però, ricorrerebbe qui l'unica volta.

[77] Il cavalletto (equuleus, class. eculeus, diminutivo di equus, "cavallo") è uno strumento di legno, a forma appunto di cavallo, su cui veniva posto colui che doveva essere torturato. Il termine "innalzare" (lat sublevare, "levare in alto") viene qui utilizzato, invece del più comune conicere (gettare, porre), per introdurre un riferimento alla passione di Gesù, che «fu innalzato» sulla croce, come sottolinea soprattutto Giovanni, dando al verbo anche un significato di esaltazione nella gloria (vd. Gv  12, 32).

[78] Cfr. Ap 2, 16: «Combatterò contro di loro con la spada della mia bocca», con lo Spirito che esce dalla bocca di Dio, cioè con la sua Parola.

[79] Questo «rendimento di grazie», che ritornerà tante volte sulla bocca dei martiri, è la vera Eucaristia celebrata in unione al sacrificio eucaristico di Cristo: una Eucaristia della vita (cfr. 1 Tess 5, 18: «In ogni cosa rendete grazie»), per la quale il corpo e il sangue dei martiri vengono offerti in sacrificio al Padre.

[80] Cfr. At 4, 12: «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».

[81] Cfr. 1 Gv 4, 15: «Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio».

[82] È la preghiera del Padre nostro: «Liberaci dal male» (e dal Maligno), Mt 6, 13.

[83] Anche se è la presenza del presbitero, che la presiede, a rendere valida la celebrazione liturgica, è però tutta la chiesa a "fare" la celebrazione, l'assemblea liturgica: viene rivendicato l'ufficio sacerdotale dei cristiani, di tutto il popolo di Dio (cfr. 1 Pt 2, 9; Ap 1, 6).

[84] L'assemblea liturgica, che pure viene sentita e vissuta come celebrazione di tutta la comunità, è validamente costituita (integre, cioè "integralmente", in tutti i suoi elementi costitutivi) solo se c'è il "presbitero", il rappresentante cioè di coloro ai quali Cristo ha affidato il compito di celebrare l'Eucaristia; per questo compito ha istituito gli apostoli, ai quali soli ha comandato: «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 25).

[85] Cfr. Mt 5, 44: «Amate i vostri nemici»; Lc 23, 34: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Il perdono dato da Gesù sulla croce ai suoi nemici, venne presto imitato dai martiri, come qui fanno quelli di Abitene: l'amore per i nemici dovette sembrare alle primitive comunità cristiane il precetto più rivoluzionario dell'insegnamento di Gesù.

[86] Sono le parole di Stefano, che, durante il suo martirio, chiede il perdono per i suoi persecutori (cfr. At 7, 60).

[87] I cristiani hanno sempre potuto mettere innanzi la loro condotta irreprensibile, a confronto con la condotta dei pagani, per denunciare quanto ingiusta fosse la loro persecuzione; vd., ad esempio, Tertulliano, apolog., 45-49; Lettera a Diogneto, 5-6. Seguivano in questo l'esortazione di Pietro: «La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (1 Pt 2, 12); «e se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi!... nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così Dio vuole, soffrire operando il bene, che facendo il male» (1 Pt 3, 14-17).

[88] La morte è liberazione dalla schiavitù del mondo e del peccato; in Rm 6, 6, Paolo lo dice del battesimo e della morte dell'uomo vecchio, che «è stato crocifisso con Cristo», i martiri lo dicono riguardo a questo definitivo "battesimo" di sangue: «Il martirio è il battesimo per il quale, appena usciti dal mondo, siamo uniti a Dio» (Cipriano).

[89] Queste ultime parole di preghiera sembrano un'eco di preghiere liturgiche, del tipo: «I nostri inni di benedizioni non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva». Solo Cristo con il suo sacrificio è perfetto rendimento di grazie al Padre, cfr. Eb 7, 26-27: il sacrificio dei martiri ha senso e valore solo unito a quello di Cristo.

[90] Reminiscenze diverse della Scrittura: per «vedo già il regno eterno», cfr. At 7, 55-56: «Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: "Ecco io vedo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio"». Per il «regno che non si corrompe», cfr. 1 Pt 1, 3-4: «(Dio) ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza viva, per un'eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce». L'attesa del regno esprime il valore escatologico dell'Eucaristia celebrata dai martiri: «venga il tuo regno» (Mt 6, 10); «annunziate la morte del Signore finché egli venga» dice Paolo (1 Cor 11, 26) a proposito dell'Eucaristia.

[91] Cfr. 1 Tm 1, 1: «Cristo Gesù nostra speranza».

[92] Qui, ma anche altrove più avanti, viene affermata con fede la priorità e superiorità della legge di Dio rispetto a quella degli uomini, sul modello di quanto avevano già fatto Pietro e Giovanni, i quali, a chi voleva loro imporre di non predicare la Parola, avevano obiettato: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4, 19-20). Un principio, peraltro, già affermato anche dal mondo greco classico, vd. Socrate in Platone, apol. 20, e Sofocle, Antigone vv. 450-460.  Un riferimento, inoltre, va sicuramente fatto alla testimonianza dei fratelli Maccabei, cfr. 2 Mac 7, 2: «Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi» e 7, 30: «Non obbedisco al comando del re, ma ascolto il comando della legge che è stata data ai nostri padri per mezzo di Mosè». «Il culto dei "sette fratelli Maccabei" si diffuse fino nell'Occidente, ai quali vennero dedicate molte chiese. Il racconto intitolato Passione dei santi Maccabei incontrò larga diffusione e servì da modello a diversi atti dei martiri» (La Bibbia di Gerusalemme, nota ad loc.).

[93] Contro la lezione consumor (Migne), «vengo consumato», è preferibile senz'altro quella adottata da Ruiz consummor, «sono portato al sommo, al compimento, alla perfezione del mio essere cristiano», espressione che riprende, peraltro, quella di Gesù sulla croce: consummatum est, in genere tradotta «tutto è compiuto» (Gv 19, 30), ma che vuole significare che il summum, cioè il punto più alto, il punto di arrivo, il fine (gr. télos), è stato raggiunto: «per questo io sono nato e per questo io sono venuto» (Gv 18, 37), dice Gesù a Pilato, riferendosi alla testimonianza alla verità che sta per rendere con la sua morte in croce. È strano che sia Ruiz che Caldarelli (che segue il testo latino curato da Ruiz) traducano rispettivamente: «en ella quero consumar mi vida» ("in essa chiedo di consumare la mia vita"), e «in quella vivo e soffro» (?).

[94] Come i martiri dell'Apocalisse, che« hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14), così i martiri sono bagnati, quasi lavati, nel sangue che i fratelli che stanno spargendo, seguendo l'Agnello: questo sangue, come quello di Cristo nell'Eucaristia, diventa per loro sostegno e forza per la "buona battaglia".

[95] Il presbitero Saturnino si mette sullo stesso piano di tutta la comunità: anche lui è stato uno dei partecipanti, non il promotore: promotori della celebrazione sono tutti, come dirà tra poco un altro martire, il lettore Emerito.

[96] I martiri sono stati arrestati mentre celebravano la Pasqua domenicale in casa di Ottavio Felice (vd. cap. II). Qui Emerito si riferisce (al plurale) ad altre celebrazioni che si sono tenute nella sua abitazione: evidentemente le case messe a disposizione per il culto dovevano essere più di una. Secondo alcuni, invece, qui ci sarebbe una contraddizione con la notizia del cap. II, indizio di una compilazione tarda e 'redazionale' di questi Atti. Il Migne ha al singolare collecta facta fuit, che riferisce evidentemente alla sola colletta durante la quale i martiri sono stati arrestati; è preferibile la lezione di Ruiz, al plurale.

[97] Come già notato prima (vd. nota 61), l'obbligo di celebrare la Pasqua domenicale senza interruzioni viene dalla parola del Signore (cfr. 1 Cor 11, 25), qui detta «legge», la nuova legge del vangelo che ha sostituito la "legge" mosaica.

[98] Abbiamo qui l'unico caso in cui Saturnino viene detto «sacerdote» e «sacerdote di Dio», invece che «presbitero», certamente per mettere in maggiore risalto e condannare l'azione sacrilega del proconsole e dei carnefici contro l'"unto del Signore". Nel Nuovo Testamento mai il termine sacerdote è attribuito a responsabili delle comunità cristiane; tale titolo, quando non si riferisce al mondo giudaico e all'Antico Testamento, è riservato a Cristo, unico e vero "sommo sacerdote" e al popolo di Dio; col tempo, gradualmente, ma già dal II secolo, lo si è attribuito anche ai vescovi e ai presbiteri.

[99] Ancora la contrapposizione tra legge umana e legge divina (vd. sopra, nota 46).

[100] L'insistenza di Saturnino sull'autorità della «legge» mette in apprensione il proconsole, che teme venga proposta una nuova autorità politica, una possibile rivolta contro lo Stato; un po' come Pilato che teme che Gesù possa costituire una minaccia per il potere di Cesare; anche Pilato quando sente pronunziare dai Giudei la parola "legge", nota Giovanni, «ebbe ancor più paura» (Gv 19, 8) [N.B. de Gli scritti: questa affermazione potrebbe essere facilmente contestata, poiché Pilato percepisce che non c’è alcun pericolo politico da parte di Gesù e dei suoi: pericoloso politicamente è il sinedrio che sobillerebbe la folla, provocando una rivolta, se Gesù non fosse crocifisso].

[101] Vd. sopra, nota 59.

[102] Come fossero fratelli di sangue, ma, come sarà poi detto esplicitamente dalla martire Vittoria (cap. XVI), «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 50).

[103] È l'espressione, centrale e fondamentale nella testimonianza dei martiri di Abitene. Qui abbiamo aggiunto nella traduzione il verbo «essere», riprendendolo da una simile espressione del cap. XII. Il riferimento più immediato qui, trattandosi dell'Eucaristia, potrebbe essere a Gv 15, 5: «senza di me non potete far nulla», dice Gesù utilizzando l'immagine della vite e dei tralci.

[104] Viene ancora una volta affermato il primato della legge divina, qui con un più chiaro ed esplicito riferimento alla testimonianza di Pietro e Giovanni in At 4, 19.

[105] Come sarà esplicitamente dichiarato poco più avanti, qui Emerito mette in pratica quanto dice l'apostolo Paolo: «voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3, 3). I martiri sono diventati essi stessi quella Scrittura che possiedono nel loro cuore. La stessa risposta daranno, più avanti, anche altri martiri.

[106] Reminiscenze diverse della Scrittura: «nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo» (1 Pt 4, 13-14);  «Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove» (1 Pt 1, 6); «considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove» (Gc 1, 2); «(i giusti) anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé» (Sap 3, 4-5).

[107] Cfr. Sal 118, 31.

[108] Cfr. 2 Cor 3, 3.

[109] Come già ricordato, sono coloro che, venendo meno nella fede, hanno 'consegnato' (lat. tradere) i libri sacri, invece di custodirli affrontando il martirio.

[110] Personificazione della furia persecutoria, che ricorda certamente la "bestia" e la "grande prostituta" dell'Apocalisse, figure in cui è simbolicamente indicata Roma nella sua persecuzione contro i cristiani; cfr. soprattutto Ap 12, 17: «Il drago si infuriò... e se ne andò a fare guerra... contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù»; e Ap 16, 6: «quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù».

[111] Sempre il diavolo, il nemico, Satana.

[112] La richiesta del proconsole, che appare, come viene rilevato dall'autore degli Atti subito dopo, «stolta e ridicola», ha un duplice senso: il primo risponde al tentativo di ridurre la fede cristiana a pratica puramente privata e spirituale, che così non urta nessuno; il secondo senso risponde alla preoccupazione che angustia il proconsole, quella cioè di impedire che siano disattesi il culto dell'imperatore e i sacrifici della religione nazionale, elementi che hanno motivato, in ultima analisi, la persecuzione di Diocleziano. Ma la fede cristiana è sostanziata di Parola di Dio e di Eucaristia al punto che, come sarà detto subito dopo, il cristiano non sarebbe nemmeno se non ci fosse la Pasqua domenicale, con la lettura delle Sacre Scritture e la partecipazione all'Eucaristia.

[113] È la stessa fondamentale affermazione già incontrata nel cap. XI, qui però con il verbo esse, «essere» (che, peraltro, non compare nel testo del Migne). Il verbo «essere» è sempre, comunque, ricavabile dalla successiva espressione valeat esse, «sia in grado di essere».

[114] Non solo il diavolo parla per bocca di Anulino, ma Anulino è Satana stesso.

[115] Suona come una anticipazione, con parole diverse, di una celebre affermazione della teologia moderna: «L'Eucaristia fa la chiesa, la chiesa fa l'Eucaristia». Si tratta di affermazioni di capitale importanza: la Pasqua domenicale è l'essere stesso del cristiano, che senza di quella non avrebbe alcun senso, in quanto con quella totalmente coincide: il cristiano èla Pasqua domenicale.

[116] Anche questo è di grandissima importanza: il cristiano è comunità, è comunione; non ha senso il cristiano isolato; la sua identità è quella di popolo di Dio, di chiesa.

[117] Da questa affermazione si rileva la grande importanza, e di conseguenza, il largo spazio, che doveva avere nella celebrazione della Pasqua domenicale la lettura delle Sacre Scritture, al punto da sembrare qui quasi il fine principale per cui ci si raduna in assemblea. In questo passo l'epressione latina in dominicum convenimus sembra dare al termine che traduciamo con "Pasqua domenicale" un valore di "luogo della celebrazione".

[118] Piuttosto che "tribunale della giustizia divina", intenderei l'espressione del testo siderea tribunalia, appunto, come «seggi celesti»; anche al singolare il termine tribunal designa, piuttosto e prima ancora che l'ufficio del tribunale, il luogo, i seggi su cui i giudici prendevano posto; a maggior ragione qui al plurale. Peraltro, questa immagine, come quella successiva dell'«assemblea celeste» rimandano ancora al libro dell'Apocalisse, a liturgie celesti come quella di Ap 4, 4 ss.

[119] La corona dei vincitori delle gare atletiche passa a indicare la corona dei martiri, vincitori nella lotta contro l'"avversario"; per la "corona" come premio, in questo senso, vd. 2 Tm 4, 8; 1 Pt 5, 4; Ap 2, 10.

[120] Cfr. Pr 31, 30: «Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare»; 1 Pt 3, 3-4: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio».

[121] Nello stesso modo viene da S. Ambrogio esaltata Agnese, vittima lei pure, a Roma, della persecuzione di Diocleziano: «Avete dunque in una sola vittima un doppio martirio, di castità e di fede. Rimase vergine e conseguì la palma del martirio» (de virg. 1, 2, 9).

[122] Aveva ben altro Sposo al quale legare la propria vita; anche qui potremmo riprendere le parole di Ambrogio, che attesta che a chi voleva lusingarla con la promessa di uno sposo Agnese rispose: «È un'offesa allo Sposo attendere un amante. Mi avrà chi mi ha scelta per primo» (de virg. 1, 2, 8).

[123] A chi l'avrebbe 'depredata' della sua verginità, al promesso sposo, o, anche, al diavolo, vero avversario e predone anche in questa situazione.

[124] Qualcuno vede come poco verosimile questo episodio: «Alcuni particolari sulla storia di Vittoria, riferiti nel cap. XVI, hanno qualche cosa di leggendario e fanno ricordare altre tradizioni della stessa epoca, per es. quella del martire Venanzio da Camerino, precipitato incolume in un burrone, ma le altre vicende narrate appaiono verosimili» (Caldarelli, op. cit., p. 626).

[125] Quelle con cui, secondo il costume del tempo, si accompagnava, appunto, la sposa alla casa dello sposo nel giorno delle nozze.

[126] Oggi le vergini consacrate tagliano i capelli come segno, appunto, della loro consacrazione; qui appare l'usanza opposta, forse in ossequio alla parola di Paolo: «è vergogna per una donna tagliarsi i capelli» (1 Cor 11, 6); o rifacendosi ancora al voto di nazireato degli uomini, per il quale «non passerà rasoio sul capo» (Gdc 13, 5).

[127] È la follia del Vangelo: anche di Gesù «dicevano: È fuori di sé» (Mc 3, 21); o la follia della croce: «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23).

[128] Come sarà sottolineato poco più avanti dall'autore degli Atti, qui Vittoria risponde con le parole di Gesù nel Vangelo: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 50).

[129] Ricorda la vergine sposa del Salmo 44. «Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al Re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: prostrati a lui» (Sal 44, 11-12).

[130] Cfr. Mt 12, 50.

[131] Le Furie erano, nella mitologia classica, la personificazione della vendetta divina contro coloro che si erano macchiati di delitti di sangue. Qui, con la minuscola, sono il peso della inutile crudeltà e della impotenza del tiranno di fronte alla eroica testimonianza dei martiri.

[132] La vicenda di questo giovanissimo martire ricorda ancora quella dei sette fratelli Maccabei: «il re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza del giovinetto, che non teneva in nessun conto le torture» (2 Mac 7, 12).

[133] Anche i più piccoli confessano il nome del Signore; cfr. Sal 8, 3: «Con la bocca dei fanciulli e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari», ripreso da Gesù, cfr. Mt 21, 16.

[134] Fino alla fine la testimonianza  dei martiri di Abitene è un rendimento di grazie, una Eucaristia.

[135] Già dall'inizio (cap. I) la lotta dei martiri è stata presentata come una lotta contro il diavolo, contro il mistero di iniquità che tenta inutilmente di prevalere sul regno di Dio e sui suoi fedeli.