Come pesci nell’acqua di Dio: la potenzialità e l'esigenza religiosa del bambino. La catechesi del “buon pastore” di Sofia Cavalletti
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito un’intervista a Sofia Cavalletti, tratta dalla rivista “Il sicomoro”, n. 7, inverno 1998/1999, già pubblicata on-line dalla stessa rivista, un articolo di S. Cavalletti, intitolato L’esperienza religiosa nella prima infanzia, pubblicato da Servizio della Parola, n. 360, settembre 2004, pp. 64-70, anch’esso disponibile on-line, alcuni brani tratti da S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un'esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Città Nuova, Roma, 2000 e da S. Cavalletti, Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di un'esperienza, Città Nuova, Roma, 1996 ed, infine, alcuni passaggi sulla dimensione religiosa dell’educazione di Maria Montessori. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (3/12/2009)
1/ Come pesci nell’acqua di Dio. I bambini e la catechesi secondo Sofia Cavalletti
2/ Sofia Cavalletti, L’esperienza religiosa nella prima infanzia, pubblicato da Servizio della Parola, n. 360, settembre 2004, pp. 64-70
3/ Il “bambino metafisico”, da S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un'esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Città Nuova, Roma, 2000, pp. 38-40
4/ Brani da S. Cavalletti, Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di un'esperienza, Città Nuova, Roma, 1996
5/ Brani da Maria Montessori sull’educazione religiosa del bambino
1/ Come pesci nell’acqua di Dio. I bambini e la catechesi secondo Sofia Cavalletti
Sofia Cavalletti è la fondatrice di un Centro di Catechesi infantile a Roma. Comincia la sua esperienza quarantaquattro anni fa con bambini a partire dai tre anni. Fondandosi su principi montessoriani, li porta a conoscere ed affrontare in modo diretto i testi della Parola di Dio e della Liturgia.
Il risultato è sorprendente: i bambini non solo accettano con gioia le due ore settimanali di catechesi, ma hanno una risposta di vero e pieno godimento. Sembra che nella figura del Buon Pastore, la parabola che più di tutte li accompagna per tutti i sette-otto anni di catechesi, trovino un saldo appoggio, un rifugio sicuro, e attraverso di essa riescano a penetrare con semplicità le verità più profonde della fede.
L'esperienza si allarga. Dagli indios in Messico agli amerindi negli Stati Uniti, all'Europa Centrale e Orientale, all'Italia, bambini di tante sfumature culturali e classi sociali diverse reagiscono a questa catechesi con la stessa gioia e recettività.
D.: Dal nostro catechismo parrocchiale i bambini scappano annoiati. La prima risposta che ci si dà è che la fede, la religione si possono capire solo maturando, ma per i bambini sono ancora un elemento esterno.
R.: Io non limiterei il fatto religioso al risultato di sollecitazioni culturali. Una componente culturale è certamente presente, ma c'è anche - e forse soprattutto - un livello ben più profondo. È un campo in fondo ancora tanto controverso questo: alcuni negano addirittura che il bambino sia capace di un rapporto con Dio, concentrano tutto sul fatto razionale; quindi prima dei sei anni il bambino non ha un pensiero razionale compiuto, è incapace di rapporto con Dio... Però questo contrasta anche col fatto che battezziamo il bambino fin dalla nascita: allora dovremmo aspettare l'età della ragione! Invece, quello che in genere concedono gli studiosi più "generosi" in questo campo, è un certo "innatismo religioso" nel bambino. A me non soddisfa neanche questo, dirò la verità: mi piace di più parlare di connaturalità del bambino con Dio. Non ho una sufficiente preparazione filosofica per chiarire bene la differenza fra innatismo e connaturalità, comunque l'innatismo mi fa pensare a qualche cosa di un po' passivo, che c'è nel bambino, ma sta lì e dorme; la connaturalità mi piace soprattutto per questa particella con, che esprime il rapporto. Parlo di connaturalità, non parlo sul piano teorico, ma in base a quello che ho visto: ho visto come bambini di questa età possano godere in modo vitale, profondo, globale di un rapporto con Dio; questo mi fa pensare a persone che abbiano trovato corrispondenza essenziale, cercata, che appaga esigenze profonde; che abbiano trovato l'ambiente, la persona che cercavano.
Significa che i bambini "sentono" o "capiscono" Dio?
Ogni persona umana cerca la relazione, ma sembrerebbe che nella persona di Dio il bambino trovi una connaturalità, una rispondenza; tante volte ho avuto l'impressione, entrando nella stanza dove i bambini lavorano, di "pesci nell'acqua", come di chi ha trovato l'ambiente vitale che lo può appagare, nell'intimo più profondo. E allora vengono fuori questi fenomeni di concentrazione profonda, di gioia particolarissima e di godimento che quasi si palpa nell'aria, come di chi ha trovato l'ambiente vitale e dice: "Come sto bene qui". Il desiderio di starci, di restarci, di non andar via, di continuare nell'esperienza sono fenomeni che ormai abbiamo visto in tanti bambini in tante parti del mondo, in tanti livelli sociali e culturali diversi: si può affermare dunque che questo, in base a ciò che abbiamo visto, è la risposta del bambino all'esperienza religiosa. Che significa? Significa che c'è questa attrazione particolare: Adele Costa Gnocchi, stretta collaboratrice di Maria Montessori, diceva che Dio e il bambino "se la intendono". Mi sembra un'espressione tanto buona, tanto adeguata. C'è come un filo diretto; lo possiamo chiamare connaturalità o come vi pare, ma un filo diretto c'è tra Dio e il bambino. Si trovano bene, uno attira l'altro, stanno bene insieme.
Quale influenza ha l'ambiente?
Certamente ad un certo momento l'ambiente ha una sua influenza, tanto è vero che, per quello che io posso dire, chi è veramente forte nel difendere questa connaturalità con Dio è il bambino piccolo; man mano invece che il bambino apre nel crescere all'influsso della società più ampia, allora questo rapporto è meno forte. Direi che è abbastanza chiaro: l'ambiente ha una sua valenza, qualche volta negativa e qualche volta positiva. Non è negativa soltanto negli ambienti non religiosi, qualche volta pure quelli religiosi comprimono certe potenzialità per troppa "super-nutrizione" scorretta in una direzione sbagliata. Non posso dire che i bambini di famiglie particolarmente praticanti siano i più sensibili.
Normalmente si parte dall'importanza della famiglia: buon esempio di amore paterno e materno. Il bambino può capire l'amore di Dio.
A me pare che fare dell'amore dei genitori o comunque di chi è più vicino al bambino il canale necessario dell'amore di Dio è estremamente limitante; si limita l'amore di Dio alla dimensione umana, lo si considera secondario rispetto alle condizioni in cui il bambino vive. Ma a me sembra - parlando sempre in base a quello che ho potuto osservare - che l'amore di Dio sia primario nell'esperienza umana del bambino piccolo. Certo è bello poter dire ad un bambino: "Papà e mamma ti vogliono bene"; però si tratta sempre di un amore umano e quindi limitato. E quando questo non succede? Un bambino rifiutato dai genitori è forse una creatura perduta per Dio?
No, Dio prende le sue creature anche al di fuori dell'amore umano: l'ho visto in tanti bambini non accettati in famiglia che invece all'annuncio del Pastore che "li chiama per nome" si aprivano ad un immenso godimento (1).
Dunque bisogna distinguere fra esperienza ed esigenza: l'esperienza è qualche cosa che si è vissuto, può essere una cosa che ha dato un approccio positivo alla vita o negativo, comunque è dipendente dall'esperienza: deve succedere un fatto perché io abbia l'esperienza. L'esigenza, a mio avviso, è ciò che sta più profondamente nella persona umana e che non dipende da questa o da quella esperienza: è una potenzialità che chiede di essere appagata. Questa è l'esigenza, che quindi prescinde dall'esperienza.
Con l'esperienza siamo al livello di fatti, potrei dire di storia, qualcosa quindi che cambia da persona a persona; con l'esigenza stiamo alle radici stesse della vita. In ogni essere umano c'è l'esigenza di relazione, cioè di trovare qualcuno che mi cerca - per parlare con le parole della parabola del buon Pastore: che mi "chiama per nome" - e a cui posso rispondere. L'esigenza è come una fame che cerca il cibo necessario, una fame che può fare l'esperienza di trovare il suo appagamento, ma può anche non trovarlo, e resta viva anche non trovandolo.
Il fatto religioso si pone al livello di esigenza vitale e quindi a un livello più profondo dell'esperienza. La catechesi, molto diffusa oggi, che vuole partire dall'esperienza, si situa a un livello abbastanza superficiale.
Ma se non si parte dall'esperienza, come è possibile trasmettere ai bambini una fede dai contenuti così complicati?
Il fatto è che non credo che la fede cristiana sia di per sé complicata. Spesso noi la complichiamo, perché è normale, forse rassicurante complicare. Io credo all'essenzialità della fede cristiana, e quindi alla sua semplicità, e le cose essenziali e semplici sono immediate. Ricordo un bambino appena più piccolo degli altri, che con lui facevano la Prima Comunione (aveva 6 anni): rimasi strabiliata nel vedere che parlava dei rapporti inter-trinitari come se fosse un discorso normale. Non gliene avevamo mai parlato. Credo che spesso siamo noi a complicare e non rendiamo un servizio né a noi stessi, né ai bambini.
Come si può semplificare senza diventare banali?
C'è una grossa differenza tra semplicità e semplificazione. La semplificazione è un'operazione di riduzione, di rimpicciolimento; la semplicità è un modo di essere, e le cose grandi sono semplici. Dio è semplice, il mistero della Trinità sarebbe semplice se noi non lo complicassimo; ai bambini certamente vanno date le cose semplici, ma le cose semplici corrispondono alle cose essenziali, quindi alle cose grandi. Devono essere date in un certo modo, corrispondente all'essenzialità del soggetto stesso e di chi lo riceve. Ma la semplificazione no. Quel bamboleggiare col bambino: l'angioletto, il bambinello...
Racconto sempre l'episodio di quel bambino che, informato dell'esistenza dell'angelo custode ha risposto che non sapeva che fare dell'angelo; aveva già il Buon Pastore. Chi ha scelto fra i due? Il Buon Pastore! Il bambino va a cercare le cose grandi.
Dunque né complicazione, né semplificazione: la parola giusta qual è?
Essenzialità. La grande disciplina che impone la catechesi dei piccoli è proprio questa: la fedeltà all'essenziale. Nella scelta dei temi e nel modo di presentarli. Si vede chiaramente soprattutto in un bambino piccolo: se si abborda una cosa secondaria, ti accorgi subito che non ti segue. Oppure se dici troppe parole: sei finito. Bisogna annunziare il Kerygma nella sua essenza.
Questa è stata l'esperienza più grande per noi, perché ci ha obbligato ad un'essenzialità che non è facile, perché sono spietati, i bambini: appena "scantoni" un po', ti abbandonano, ma in modo chiaro. Il più grande ormai è abituato alla scuola, per cui porta pazienza; il bambino di due anni se ne va, fisicamente: prende la sedia e se ne va. È una scuola dura proprio per gli adulti-catechisti, però è bellissima.
Mi sembra una visione un po’ diversa del modo usuale di fare catechesi...
L'adulto deve trasmettere quello che ha ricevuto, evidentemente, però tenendo presente innanzi tutto che non è un insegnamento scolastico, che il bambino non è un sacco vuoto da riempire. L'annuncio dev'essere dato nel modo più "disinteressato" possibile: io te lo do, e poi lo amministri tu; una volta che ho fatto la mia parte, basta. Per questo è così importante per il nostro lavoro il materiale (2) che serve a lasciare il bambino indipendente dall'adulto nell'ascolto di quanto ha ricevuto. Altrimenti l'adulto interferisce sempre con una presenza che può disturbare e invece di aiutare la comunicazione, può impedirla. L'importante è quel secondo momento in cui il bambino sta da solo, ripensa a Gesù buon pastore, cosa fa, come conosce le pecorelle...
Il nostro materiale non è didattico, cioè un aiuto all'insegnante per rendere il suo insegnamento più attraente; è un materiale di carattere montessoriano, cioè un aiuto alla meditazione del bambino, permette al bambino di continuare a considerare quanto è stato presentato, indipendentemente dalla presenza dell'adulto. L'adulto ha la funzione di indicare alcuni punti, però poi deve essere abbastanza bravo da ritirarsi e lasciare il posto all'intima conversazione con il Maestro interiore. Siamo in genere troppo interventisti. Mi scriveva adesso una allieva croata catechista: una bambina di tre anni aveva fatto un disegno, poi ne aveva cominciato a fare un altro e lei, per zelo, le si è avvicinata e le ha chiesto: "Adesso che stai facendo?". E lei ha risposto: "Scostati! Scostati! Vai via!". Solo a disegno finito gliel'ha fatto vedere. Evidentemente era un intervento assolutamente indebito: il momento del lavoro personale è il momento costruttivo: è l'ascolto del Maestro interiore. Non siamo noi che insegniamo. e questo per gli adulti è difficile.
Se lei dovesse dare un'immagine, una parola per definire il catechista?
"Il servo inutile". Sì, io credo che questa del servo inutile sia una grande verità: il servo deve fare, altrimenti è pigro; però è inutile. Del resto anche S.Agostino nel De Magistro dice come si fa ad imparare: prima ci vuole qualcuno che annunci, ma il momento importante dell'apprendimento è dopo, quando si riconsidera dentro di sè quello che si è ascoltato. Lo dice chiaro, con un'incisività agostiniana tutta particolare: Numquam posso docere (4). Questo per un adulto è difficile da accettare, perché ti spiazza, come spiazzata era quella giovane che, venuta la prima volta da me, si è sentita dire: "Cerca un po' dove sta la cattedra". E lei ha girato per le stanze della catechesi, e non la trovava, e diceva: "Ci deve essere!".Non c'è perché non ci deve essere.
Come è diverso questo dalla mentalità corrente, quando si pensa che per interiorizzare la fede basti spiegare delle cose, basti dire: "Ne abbiamo parlato"...
Questa è la mentalità scolastica, ma la catechesi è qualcosa di molto più profondo e più ampio. Anche certe prediche che si sentono: danno spiegazioni e chiudono l'argomento. Ma non è questa la catechesi, che deve essere rivolta all'apertura al mistero. Come dice Stefano Levi della Torre: è il mistero a dar respiro alla conoscenza, a farla lievitare nelle più mirabili costruzioni della cultura. Il mistero, cioè, fa lievitare la conoscenza; se invece delimitiamo, spieghiamo, definiamo tutto, cominciando dalle parabole, che sono le ultime cose che andrebbero spiegate, il mistero non c'è più. Non è più attraente: se mi fai vedere i limiti, non mi interessa più.
Sta dicendo che nel nostro catechismo noi spieghiamo troppo?
Sì, non si esce dalla mentalità scolastica: insegnamento, apprendimento, verifica. E così ho limitato tutto. Ma il limitato non è attraente, è l'immenso; il mistero che attrae. Se vedo il limite, e ne urto il confine, ad un certo momento mi vengono i lividi. Invece, che ricchezza, che saggezza che ha il metodo delle parabole:
"Vuoi sapere com'è il ‘Regno dei cieli’? Guarda un po' un semino piccolo, piccolo...
Pensaci, guardalo, continua a guardarlo, vedrai che poi..."
Non c'è nessuna pretesa di esaurire l'argomento, si apre invece una possibilità di indagine: è un atteggiamento. Credo che le parabole siano uno strumento di educazione alla fede molto grande, perché aprono a quello che non si vede. Vedi un semino e dici: Il Regno di Dio quello? Eppure così è. La piccola Cristina, cinque anni, stava impastando la pasta con il lievito (in relazione alla parabola del Regno come lievito che fermenta tutta la pasta) e le hanno chiesto: "Cosa stai facendo?". Lei ha risposto: "Guardo come cresce il Regno di Dio!". Questo è vedere l'invisibile: a loro non fa nessuna difficoltà.
Allora secondo lei la catechesi "di memorizzazione" è limitante?
Solo un esempio: nei primi tempi noi facevamo anche una preparazione "alla meglio" alla Cresima. Si era dunque nei primi anni: imperava l'apprendimento mnemonico del catechismo e io non avevo ancora la coscienza del tutto tranquilla, perciò avevo pensato che si poteva dare loro anche un po' di catechismo tradizionale. Indicai alcune definizioni e queste furono imparate. E mi ricordo una bambina molto intelligente, molto carina, che conosceva la Chiesa come l'ovile del pastore, la vera vite (tutte immagini bibliche), alla quale feci imparare la definizione di Chiesa. Era piccolina, ma voleva fare a tutti i costi la Cresima, ci mise tutto il suo impegno e la disse benissimo. Ma quando le chiesi di spiegarlo con parole sue in base alle parabole, non riuscì a rispondere: evidentemente ormai era bloccata, la Chiesa era quella definizione lì.
Che cosa sanno a memoria i miei? Il Padre Nostro, l'Ave Maria con un po' più di difficoltà, perché se vanno a Messa l'Ave Maria "non c'entra"; sanno il "Mistero della fede", che è essenziale. Molte parabole vengono ripetute tante volte, da saperle quasi a memoria.
Come vede una catechesi che privilegi l'elemento etico-morale?
Credo che sia fatale scadere nel moralismo, per il fatto che si comincia la catechesi nell'età sbagliata (sei-otto anni), quando il problema morale è già forte nel bambino, cioè quando è un po' il bambino stesso a portarci su questa strada. Se si comincia la catechesi esplicita quando già il problema morale è in ebollizione, finisce che poi Dio è soprattutto il giudice.
Ma la morale prima di tutto è la relazione, essere una persona morale vuol dire essere una persona in relazione.
Il primo giorno che parliamo del Buon Pastore ai nostri bambini di due o tre anni è già preparazione morale, perché aiutiamo il rapporto di relazione con Dio. Certamente la catechesi per il novanta per cento dovrebbe essere kerygma; e poi anche parenési, evidentemente, a partire dall'età giusta; cioè ad un certo punto bisogna distinguere: questo è bene, questo è male, e le massime del Vangelo, e il Decalogo; ma lo stesso decalogo comincia con Dio che dice: "Io sono". Poi, voi fate. Prima però Io sono quello che vi ha liberato; prima stabilire il rapporto.
Questo è un altro punto molto difficile da accettare: ricordo la prima volta che facemmo qui gli esami del corso degli adulti, e venne un sacerdote del Vicariato; alla fine lo accompagnai alla porta e mi disse: "La ringrazio, molto interessante, ma c'è poca morale". Aveva ragione, nel senso di parenési diretta: ce n'è poca. Ma c'è n'è tanta ad un altro livello, al livello fondante: senza di quello, che cos'è la parenési?
Questo vale anche per gli adulti, però. E sinceramente abbiamo l'impressione che ci sia tendenza ad anteporre la morale al rapporto col Maestro interiore.
Guardando sempre al negativo, non si arriva al positivo. E noi molto spesso purtroppo ci concentriamo sul negativo, e lì restiamo, come se ci impantanassimo nel fango. Se accendi una luce, può essere che anche se stai nel pantano poi cerchi di uscire; ma il punto di partenza non può essere assolutamente il pantano, ma la luce. Il punto di partenza è l'alleanza, il rapporto. La parabola del buon pastore è una parabola di alleanza: egli chiama per nome ogni pecorella, e le pecorelle ascoltano la sua voce, così la parabola del tralcio e della vera vite. Il tema fondamentale di tutto il nostro lavoro è l'alleanza. A sei-sette anni si introduce la parte storica, perché l'alleanza ha una storia, uno svolgimento nel tempo. L'Eucarestia è il sacramento della nuova ed eterna alleanza. Invece sembra un po' una cosa da specialisti, i "biblisti" parlano dell'alleanza. Eh, no!
Forse, rispetto al quesito iniziale che ponevamo, qualcosa si è chiarito. Però vorrei riproporlo a conclusione di questa intervista: perché i bambini "scappano" dal catechismo?
Sì, alcune chiese fanno una fatica grande a tenere i bambini. Perché questo rifiuto? È una cosa che fa pensare. O io sono una illusa? Ormai abbiamo tanti centri in tutte le parti del mondo, migliaia di bambini che sono coinvolti, e riscontriamo una risposta di godimento. Perché manca in altre realtà? Credo proprio che manchi per il fatto della scolarizzazione della catechesi, perché la catechesi scolarizzata travisa la catechesi, la distrugge completamente come catechesi, e allora il bambino si stufa, e ha ragione.
E perché la catechesi è diventata, un puro esercizio scolastico?
Perché non si dà fiducia ai bambini, non si crede che possano vivere un rapporto privilegiato, connaturale con Dio. E allora se non ce l'hai, io ti insegno queste cose, tu le ripensi con la tua mente, capisci quel che capisci, per adesso le impari a memoria, poi le capirai un giorno... L'apertura al mistero è molto importante nella catechesi, direi che è fondamentale proprio come formazione della persona, questo aprirsi a qualche cosa che adesso comincio a conoscere, ma poi ce ne sarà tanto altro ancora. Se no chiudiamo le finestre. Avevo un'allieva che diceva: "Cos'è una parabola? E' una finestra sempre aperta!". Non bisogna chiudere le finestre!
Allora è giusto negare alcuni sacramenti, come la Comunione, ai bambini piccoli, che forse li vivono e li capiscono meglio di noi?
Assolutamente no. Qui c'è un grossissimo peso delle abitudini del tempo, perché ad esempio quando noi presentiamo ai bambini il buon pastore e la presenza eucaristica del buon pastore, molti bambini dicono: "Allora pure io voglio fare la comunione". E hanno tre-quattro anni. Però quando abbiamo tentato non dico di spingerli, ma di sollecitarli a chiederla, di fatto non lo fanno, perché vedono la comunione come qualcosa che si fa a nove-dieci anni. Ed è proprio un peccato.
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Note al testo
(1) Nei libri di Sofia (Sofia Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino, Città Nuova, IV ed., 1993; Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni, Città Nuova, 1996) viene accuratamente descritta l'esperienza di alcuni bambini con famiglie difficili resi felici dalla conoscenza del "Buon Pastore". Sono pagine per certi aspetti quasi incredibili e di cui si consiglia la lettura.
(2) Il materiale consiste in statuette di legno che rappresentano i personaggi delle varie parabole. Per mezzo di essi, i bambini rivivono la parabola, realizzando così quel "dialogo con il Maestro interiore" di cui Sofia parla.
(3) Per diventare catechisti del Centro di Catechesi di Sofia è necessario frequentare un corso triennale, con tanto di esame conclusivo.
(4) "Mai, in nessun modo io posso insegnare".
2/ Sofia Cavalletti, L’esperienza religiosa nella prima infanzia, pubblicato da Servizio della Parola, n. 360, settembre 2004, pp. 64-70
Un discorso sull’infanzia non può prescindere dal fatto religioso, sia per il posto che esso occupa nella persona umana, sia perché – nella prima fase della vita, l’infanzia – esso si manifesta con aspetti propri, profondamente diversi da quelli che si notano nell’età adulta; o meglio tali aspetti manifestano come ‘cosa del tutto naturale’ quello che nel mondo adulto sembra essere un’eccezione. Il noto studioso dell’aspetto religioso nel bambino, David Hay, dice che l’adulto dovrebbe inoltrarsi nel mondo religioso del bambino con lo stesso rispetto e la stessa capacità di stupore con cui l’etnologo entra in una cultura a lui del tutto ignota (NOTA 1).
Innanzi tutto bisogna stabilire se il bambino è capace di esperienza religiosa e, nel caso affermativo, a partire da quale età. Se tale capacità insorgesse solo dopo i sei anni – la così detta età della ragione – ci potremmo trovare davanti a un processo intellettivo di carattere logico, che dall’osservazione del mondo risalirebbe a una causa prima. Se però si potessero riscontrare fenomeni del genere anche nella prima infanzia, si dovrebbe parlare di un’esperienza esistenziale più profonda e globale.
La risposta a tale interrogativo può essere data solo sul piano sperimentale, cioè su fatti e non su argomenti astratti. In questo articolo mi riferirò a un’esperienza, nota come «la catechesi del buon Pastore», condotta da cinquant’anni in ambienti geografici diversi (presente nei cinque continenti, con diffusione particolarmente ampia nelle Americhe e in Europa), a livelli sociali e culturali diversi (urbano, borghese alto e medio, proletariato urbano e agricolo, operaio e nomade) (NOTA 2).
A chi scrive e ai suoi collaboratori risultano due cose:
1) Si danno casi di manifestazioni spontanee di religiosità certamente prima dei sei anni, in particolare tra i tre e i quattro (talvolta anche prima dei tre), spesso anteriori a qualsiasi intervento educativo, che non possono essere spiegati come influsso dell’ambiente, perché si producono anche in ambienti ostili a qualsiasi religiosità (NOTA 3).
Fra i numerosi documenti di religiosità spontanea (precedente i sei anni), da noi raccolti e in parte pubblicati, ci limitiamo a uno:
Un bambino tra i quattro/cinque anni, una sera d’estate, davanti a una finestra aperta su uno spazio molto ampio di tetti degradanti, sentì a un tratto un grillo cantare; il movimento interiore che si produsse in lui «…mi condusse a una sorta di immateriale e universale rivelazione. Innanzi tutto ebbi il senso dello spazio, o più precisamente ho avuto il senso che una vastità illimitata si sia aperta davanti a me»… Allora si sentì «travolto da un impeto che sorse dal profondo di me, e mi spinse avanti e mi portò ad andare verso quello spazio, quasi esso si fosse aperto unicamente affinché mi ci dilatassi»… Il momento seguente si distinse dal primo perché «mi accorsi che una passionalità irresistibile si accendeva in me a quel movimento. Ero tutto commosso, caldo, intenerito, pieno di fervore; debordavo di affetto; quel movimento era, più intimamente in me, un trasporto violento di tutta la mia affettività» in cui riconosce tutto quello che poi ha conosciuto come amore e gli resta presente «come una seduzione potente»,… «e come un amplesso a cui mi sia aperto appassionatamente dal fondo di me stesso, verso una non immaginabile cosa che mi si era manifestata…Quell’amplesso tentato si trasformò nel cuore in una pienezza assoluta di gioia. Una gioia stupefacente, una specie di entusiasmo di gioia mi invase. Divampai tutto nella luminosità di una felicità così intensa, che mi immobilizzai a quel sentimento in uno stato che resta nella mia memoria come quello dell’appagamento perfetto e dell’adesione assoluta… Sul momento quel fatto non scosse il mio stato infantile. Continuai a vivere del tutto normalmente la mia infanzia. Era certo meraviglioso quello che avevo conosciuto, ma fu come se la meraviglia fosse, allora, cosa del tutto naturale».
Viene qui descritta un’esperienza profondissima di relazione con l’infinito (lo spazio molto ampio), qualificata come relazione d’amore, che è fonte di un appagamento completo e di una gioia straordinaria, che porta a reazioni anche fisiche (il senso del calore del corpo). Tale esperienza è sorta senza nessuna sollecitazione esteriore né immediata, né dovuta a un fatto educativo particolare.
2) Il fenomeno gioia si produce anche di fronte a interventi educativi di carattere religioso e sempre con bambini che vivono un’infanzia del tutto normale tra le occupazioni e i giochi propri della loro età. Propizi a tale fenomeno si sono dimostrati ambienti preparati secondo i principi montessoriani, chiamati ‘atri’ (con riferimento a quel luogo intermedio tra la chiesa e la strada, nelle antiche basiliche romane), diffusi nei Paesi a cui ho accennato, ma non limitati ad essi. La cosa ci induce a pensare che siamo di fronte a un fenomeno proprio dell’infanzia.
Si tratta anche in questi casi di una gioia che si differenzia dalle tante manifestazioni gioiose che un bambino può dare. Si tratta di una gioia che si manifesta in lunghi silenzi, in sguardi intensi, talvolta in canti sommessi o insolite espressioni di affettività; essa si presenta con una particolare intensità, che coinvolge il bimbo nella globalità della sua persona, tanto che Stefania (9 anni, con sindrome down), dopo aver a lungo pregato, può dire: «Il mio corpo è contento». Si caratterizza come uno stato di appagamento, che mette il bimbo in pace e tende a durare a lungo; sembra che una corda profonda sia stata in lui toccata e che egli resti all’ascolto delle sue vibrazioni prolungate. Egli sembra aver trovato l’ambiente vitale che gli è congeniale. Sono questi – a nostro avviso – momenti particolari di crescita interiore; Maria Montessori dice: «La gioia è l’indice della crescenza interiore come l’aumento di peso è l’indice della crescenza del corpo» (NOTA 4).
Noi riteniamo che il fenomeno ‘gioia’ nell’esperienza religiosa indichi l’appagamento di una esigenza vitale profonda, che resta presente anche in ambienti negativi da questo punto di vista. Noi riteniamo che essa indichi tra il bambino e Dio l’esistenza di una connaturalità, che emerge attraverso un annuncio di carattere religioso, o in base a elementi imponderabili, come un ‘incontro’ tipo quello che abbiamo riportato sopra.
Nella tradizione biblica – su cui si è concentrata la nostra ricerca – c’è una figura che sembra rispondere particolarmente alle esigenze del bambino: quella del Pastore buono (Ez 34,11ss.; Sal 23; Gv 10,1ss.) «che (le sue pecorelle) chiama per nome», cioè ha di esse una conoscenza intima e personale, che esse contraccambiano, perché «ascoltano la sua voce» e «lo seguono». Si crea così tra di essi una relazione. Nel linguaggio biblico la relazione tra Dio e il suo popolo si chiama ‘alleanza’. Siamo quindi nel cuore del messaggio biblico.
Molti disegni di bambini anche piccolissimi, rappresentano il Pastore nell’atto di «chiamare per nome» le sue pecore, attraverso ‘fumetti’ che escono dalla sua bocca. Il senso della relazione è così forte e profondo da suscitare il richiamo alla mamma. Giulio (tre anni) lavora con un materiale di legno che rappresenta i personaggi della parabola giovannea; il buon Pastore incontra una sua pecorella e la chiama per nome: ‘Giulio’, e il bimbo risponde: ‘Mamma’. Tale intimo rapporto si esprime anche con richiami al seno materno, per cui la pecorella viene rappresentata dentro il Pastore, talvolta in posizione fetale.
Nell’essere umano c’è un’esigenza essenziale di relazione, perché solo nella relazione diventa persona. Tutta la psicologia lo sottolinea. La parabola citata esprime tale realtà in un’immagine visiva, rendendola così facilmente afferrabile e godibile, ed evitando il linguaggio astratto e le definizione limitanti.
Risposte del carattere che abbiamo descritto sopra sono state notate anche di fronte ad altri testi; per esempio, la parabola del «seme di senapa», che mette in evidenza la sproporzione tra il seme piccolissimo e l’albero che esso diventa (Mt 13,31-32; v. anche la parabola del «lievito», Mt 13,33). Citiamo ancora la parabola della «perla preziosa»: un mercante cerca perle di valore; ne trova una particolarmente preziosa e per averla vende tutte le altre e compra la più pregiata (Mt 13,45-46; v. anche la parabola del «tesoro nascosto», Mt 13,44).
Si potrebbe pensare che queste parabole non dovrebbero interessare i bambini piccoli, per l’assenza o la scarsezza di una ‘storia’ e per la profondità del loro contenuto. Si ignorerebbe in tal caso che i bambini non si appagano di elementi secondari – che troppo spesso vengono loro proposti – ma, con estrema serietà, vanno al nucleo delle cose, con una essenzialità che disorienta l’adulto.
È stato detto che il bambino è l’essere ‘più metafisico’ che esista (NOTA 5). Di lui è ben nota l’esigenza di toccare tutto nell’ambiente in cui si trova, allo scopo di conoscerlo e di poterci vivere; a un altro livello esiste in lui – anche in età molto precoce – l’esigenza di rispondere a domande essenziali, che lo aiutino a situarsi nella realtà, per riuscire a orientarvisi. Evidentemente sono domande che il bambino si pone a un livello del tutto inconscio, ma non per questo meno reali: «Che cosa è la vita? Quanto vale?».
Ci si domanderà come possiamo fare un’affermazione del genere. Come fa una mamma a sapere quale è il cibo necessario al suo bimbo? Ne osserva le reazioni, senza aspettare che egli glielo dica: se mangia volentieri e cresce regolarmente significa che il cibo che la mamma offre è quello giusto. La stessa regola vale per le esigenze ‘metafisiche’: quel cibo che coinvolge il bambino in una esperienza goditiva globale è quello di cui ha bisogno.
I testi citati indicano la vita, che è la realtà di base in cui il bambino si trova, come una forza dal meno verso un più, una forza che è in noi ma non è da noi, che non abbiamo guadagnato né meritato; essa si trova in noi come un dono. Il dono richiama un Donatore, a Lui le parabole danno un nome: si chiama Dio. La realtà si chiarisce come realtà relazionale. Un piccolo messicano di quattro anni, accanto al seme quasi invisibile e all’albero che ne viene fuori, disegna un pacchetto regalo tutto infiocchettato. Il bambino voleva esprimere che la vita è dono. Evidentemente si tratta di un’intuizione che si pone al livello inconscio e il bambino, se interrogato, non avrebbe saputo esprimerla a parole.
Per ragioni di spazio, non possiamo parlare dell’altro pilastro della tradizione cristiana – e quindi della catechesi di cui stiamo parlando –: la liturgia. Di fronte ad essa le reazioni dei bambini non sono meno positive e gioiose di quelle che abbiamo cercato di descrivere sopra.
Essenzialità e gioia sono i due tratti principali che, secondo la nostra esperienza, configurano il bambino davanti a Dio. È stato detto che «La spiritualità è discernere quello che è essenziale da quello che non lo è» (NOTA 6). Se questo è vero, il bambino è maestro di spiritualità.
Mentre spesso l’adulto arriva a Dio attraverso la sofferenza, il bambino indica per andare a Lui la via della gioia. Una via intravista e auspicata da Bonhoeffer, quando diceva: «…Dio non è un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita e non nel morire; nella salute e nella forza, e non anzitutto nella sofferenza; nell’agire e non anzitutto nel peccato» (NOTA 7). La gioia nella esperienza religiosa non è sfuggita alla psicologia: è stato notato in sogni di evidente carattere religioso da parte di persone dichiaratamente irreligiose «un senso estatico di felicità mai provato da svegli» (NOTA 8).
Il bambino va a Dio non per contrasto, ma per assomiglianza. Il suo rapporto con Dio sembra sorgere dall’impatto con una realtà oggettiva che si rivela, e trova un terreno pronto ad accoglierla con spontaneità e naturalezza. Dio, che ha creato l’essere umano «a sua immagine e somiglianza», cerca nel bambino – e lo trova – il suo simile.
Il bambino quindi indica una spiritualità positiva, espressa anche nella preghiera. Che cosa dice Cristina (sette anni) nel suo colloquio con Dio? «Io gli racconto le cose belle della giornata»; fra ‘le cose belle’, Guido (sette anni) gli racconta ‘le parabole’.
Lungi dall’essere un pedissequo imitatore della religiosità dell’adulto, il bambino si pone davanti al trascendente con una personalità ben definita e in piena indipendenza dall’adulto. La piccola messicana Anna (tre anni) alla mamma, che vorrebbe ‘farla pregare’, dice: «Io prego sola e in silenzio».
Quello che abbiamo cercato di dire in queste pagine non può non imporre all’adulto un problema pedagogico, aprendogli gli occhi su una spiritualità diversa dalla sua, che va rispettata nella sua diversità, e che potrebbe anche mostrargli nuove vie per andare a Dio (NOTA 9).
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Note al testo
1) D. Hay with Rebecca Nye, The Spirit of the child, Fount, HarperCollins, 1998, passim.
2) Mi permetto di rimandare a due libri in cui questa esperienza è raccontata: S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino, Città Nuova, Roma 19934; della stessa, Il potenziale religioso del fanciullo, Città Nuova, Roma 1996.
3) Mother Veronica Namoyo Le Goulard, A memory for Wonders, Ignatius Press, San Francisco 1993, in particolare p. 30. L’Autrice descrive un’esperienza religiosa, che ha segnato tutta la sua vita, da lei avuta a tre anni, pur vivendo in una famiglia in cui era proibito anche pronunciare la parola ‘Dio’.
4) M. Montessori, L’autoeducazione, Garzanti, Milano 1970, p. 83.
5) A. Frossard, in Le Figaro del 10 agosto 1970: «Non ci sono che i bambini che siano dei veri metafisici».
6) F. Marc, L’indivisibile bellezza, Il Saggiatore, Milano, 1959, p. 43.
7) D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002, p. 425.
8) V. Frankl, Dio nell’inconscio, Morcelliana, Brescia 1990, p. 75.
9) Vorrei segnalare il numero monografico di Concilium 2/1996, dal titolo «Dove stanno i nostri bambini», con articoli che indicano una nuova sensibilità verso l’infanzia; in particolare N. Mette, Vivere e imparare a credere con i bambini.
3/ Il “bambino metafisico”, da S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un'esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Città Nuova, Roma, 2000, pp. 38-40
Tutto quanto abbiamo potuto osservare in questi anni, sia direttamente che attraverso collaboratori ed ex-allievi, ci fa pensare al bambino come a un essere “metafisico” (l’espressione non è nostra), che si muove a suo agio nel mondo del trascendente, e gode – pago e sereno – nel contatto con Dio.
“Dio e il bambino se la intendono” era l’espressione abituale di Adele Costa Gnocchi, una delle prime collaboratrici di Maria Montessori.
Se volessimo azzardare una spiegazione di tutto ciò, potremmo forse dire che, essendo l’esperienza religiosa fondamentalmente un’esperienza d’amore, essa corrisponde in particolar modo alla natura del bambino. Noi crediamo che il bambino abbia più di chiunque altro bisogno d’amore, perché è egli stesso ricco d’amore; il suo bisogno d’essere amato dipende non tanto da una carenza che va riempita, ma da una ricchezza che cerca qualcosa che le corrisponda.
“L’atteggiamento religioso – osserva il Mencarelli – non è… una risposta esclusiva ad un bisogno. È la strutturazione di tutta la personalità in funzione della sua relazione con Dio”. Ci sembra che una conferma a tale asserzione possa essere trovata nelle conclusioni a cui p. Alberoa Algarra è arrivato dopo un lungo periodo di osservazione nella Casa dei Bambini “Adele Costa Gnocchi” (Roma), e cioè che un bambino, bloccato in qualsiasi aspetto del suo comportamento, troverà grandi difficoltà nell’essere coinvolto in una esperienza religiosa; egli ha osservato che i bambini, a mano a mano che si “normalizzavano”, dimostravano maggiori interessi religiosi e si univano agli altri in manifestazioni di carattere religioso. Non è quindi nella ricerca di una compensazione che il bambino si volge a Dio, ma per una profonda esigenza di natura. Il bambino ha bisogno di amore globale, infinito, tale che nessuno essere umano è in grado di dargli. Nessun bambino – credo – è stato mai amato nella misura che avrebbe voluto e di cui avrebbe avuto bisogno. L’amore è per il bimbo più necessario del cibo; è stato scientificamente provato. Nel contatto con Dio egli sperimenta un indefettibile amore. E nel contatto con Dio egli trova il nutrimento che il suo essere richiede e di cui ha bisogno, per svilupparsi nell’armonia. Dio – che è amore – il bimbo, che chiede l’amore più del latte materno, s’incontrano quindi in una particolare corrispondenza di natura; e il bimbo, nell’incontro con Dio, gode per la soddisfazione di un’esigenza profonda della sua persona, di una autentica esigenza di vita.
Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, lungi dall’imporgli qualcosa che gli è estraneo, rispondiamo a una sua silenziosa richiesta: “Aiutami ad avvicinarmi a Dio da me”.
4/ Brani da S. Cavalletti, Il potenziale religioso tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di un'esperienza, Città Nuova, Roma, 1996
Le domande del “bambino metafisico” (da p. 21)«Chi è Dio?». «Dove stavo prima prima (cioè prima di nascere)?». «Come mai sono qui?». «Con chi stava Dio prima (della creazione)? Stava con se stesso?». «Dove sta la nonna? (che è morta»). «Che cos’è la vita? A te piace la vita?».
La gioia, indice della vera crescita (da p. 22)
La gioia – dice la Montessori – è l’indice della crescenza interiore come l’aumento di peso è l’indice della crescenza del corpo.
Perché le parabole nella catechesi dei bambini (pp. 24-26)
Vorremmo soffermarci innanzi tutto su alcune parabole del regno di Dio e precisamente: il seme di senapa, il lievito, il seme di grano, la perla preziosa, il tesoro nascosto. Non possiamo non domandarci come mai parabole che presentano una forma narrativa così scarna abbiano tanta presa sul bambino a partire dalla prima infanzia.
Si tratta, a nostro avviso, di parabole che presentano temi essenziali per orientarsi nella realtà. Le prime tre citate parlano della natura misteriosa del regno di Dio, le due che seguono del suo valore superiore a qualsiasi altra cosa. Il mistero del regno di Dio è il mistero della Vita, quella prodigiosa energia che si sviluppa da un meno verso un più (parabola del seme di senapa e del lievito) e che contiene in sé tutti i valori (parabola del mercante, della perla e del tesoro nascosto). Il bambino che si sveglia alla vita ha evidentemente bisogno di orientarsi in essa. È nota la necessità che il bambino manifesta di andare toccando gli elementi che trova intorno a sé, per conoscerli e imparare a vivere nell’ambiente. Ma «il bambino metafisico» non si limita a questo bisogno; c'è in lui un’inespressa domanda globale: «Che cos’è la Vita?».
Per percepire la domanda del bambino non dobbiamo aspettare che venga formulata in parole, la dobbiamo cogliere dalla intensità della reazione con cui viene accolta la risposta quando viene offerta. Non è certo una domanda accademica, ma il modo con cui la risposta viene recepita ci dice quanto sia importante per lui. [...]
Le reazioni del bambino davanti a queste parabole sono così forti e profonde che inducono a pensare, come accennavamo, che egli vi trovi il nutrimento adeguato a un bisogno vitale.
A nostro avviso, più piccolo è il bambino e più le sue esigenze sono profonde e vitalmente fondamentali. Si dovrebbe perciò seguire la regola: ai più piccoli le cose più grandi.
Il Vangelo ci dice: quella vita che vediamo spingere l'universo e noi stessi verso un «più» è il regno di Dio. Il donatore si chiama Dio; il nostro Dio è un Dio che dona. Il Vangelo viene così a illuminare un'esigenza fondamentale del bambino con la presenza di una Persona, di un amore. Il Vangelo trasforma in relazione personale un' esperienza fondamentale.
La muta domanda che il bambino ci rivolge trova in alcune parabole del Vangelo la risposta espressa nella forma e nel linguaggio per lui adeguati: la forma della parabola, una forma allusiva che risponde senza definire e sollecita verso una sempre ulteriore riflessione.
È dalla coincidenza tra l'esigenza vitale del bambino di conoscere la realtà in cui vive con il messaggio evangelico che scaturisce quel senso particolare di appagamento e di gioia a cui abbiamo accennato. Messaggio evangelico ed esigenze dell'essere umano coincidono, perché il nucleo della realtà è religioso. Si tratta di un «religioso» che non riguarda una confessione particolare, ma di un «religioso» in cui si esprime l'impostazione globale della persona che rifiuta di lasciarsi chiudere entro limiti, tendendo al «più oltre». Il Vangelo non è iniziazione a un segmento della realtà, ma alla realtà nella sua globalità, nella sua onnicomprensività. Il Vangelo prende la realtà alle sue radici e l'arricchisce con il calore di una Persona. Il bambino recepirà con tutto se stesso la nostra risposta alla sua inespressa domanda a due condizioni: che noi individuiamo il nucleo essenziale di essa e che ad essa rispondiamo con quella essenzialità, che corrisponde alla sua natura e che la grandezza dell'argomento richiede.
Le cose sono in realtà una sola: l’essenziale come contenuto e come forma. Il bambino è esigentissimo su questo punto. Come è generoso nel manifestarci il suo assenso, finché restiamo sul piano essenziale, altrettanto è severo quando ce ne allontaniamo.
Vorrei ripetere qui un’espressione, a me molto cara di Franz Marc: «… per vita spirituale intendo discernere l’essenziale da quello che non lo è». Se questo è vero, come noi crediamo, il bambino è profondamente spirituale ed è anche un esigente maestro di vita spirituale per gli adulti ai quali richiede una essenzialità che si avvicini alla sua.
Il mistero della morte e della Vita (pp. 26-28)
Il mistero della Vita è strettamente connesso con quello della morte: questa è un momento del primo e costituisce una realtà fondamentale del nostro mondo. Come di fronte a tutte le realtà essenziali, il bambino resta in attesa di una risposta alla sua domanda non espressa a parole.
Nel messaggio cristiano morte e vita sono strettamente legate all’annuncio della risurrezione: la vita è più forte della morte. Più volte abbiamo visto i bambini prorompere in un applauso, del tutto spontaneo e inatteso, di fronte a questa proclamazione; è successo per esempio a Roma, di fronte al modellino della tomba vuota; è successo in Messico in un gruppo di oltre quattrocento bambini, radunati nella cattedrale di Chihuahua, quando, durante la celebrazione pasquale della luce, la fiamma del cero ha illuminato il buio.
L’annuncio della risurrezione è costantemente presente nella catechesi, a partire dai tre anni; oltre ai racconti pasquali, è presente quando si parla dell’Eucaristia e del battesimo e in varie altre occasioni. Il discorso morte/vita si imposta così in una visione positiva.
Inoltre, nelle riflessioni con i bambini abbiamo notato uno spontaneo collegamento tra risurrezione e parabola del seme di senapa. La catechista chiede ad Anna (7 anni): «Che cosa ha voluto farci capire Gesù parlando del piccolo seme che cresce?», e Anna: «La risurrezione di Dio». [...]
Tuttavia nella realtà della morte c’è anche l’aspetto del disfacimento del corpo, di fronte a cui i bambini si interrogano. Non si può risolvere il problema dicendo che la persona cara «sta in cielo», perché il bambino intende cielo in senso fisico e: «Come fa la nonna così vecchina a stare attaccata in cielo?». Più adeguata sarebbe l’espressione di Emanuele (5 anni), quando gli comunicarono la morte della sorellina: «Ho capito; è andata con Gesù risorto».
L’interesse di sapere che cosa succede del corpo, che viene messo in terra, è spesso presente e deve trovare una risposta. Ancora una volta il Vangelo ci offre il mezzo per illuminare anche questo aspetto e ancora una volta nella forma della parabola: «Se il seme di grano caduto in terra non muore, resta solo; se muore porta molto frutto» (Gv 12,24). [...]
Con la stessa intensità con cui osserva la forza della vita nel seme di senapa, il bambino contempla il seme di grano che pian piano si disfa e la nuova vita a cui dà origine. Il seme rimasto intero è ancora “solo”; la nuova pianta viene da quel seme di cui non si trova più che un involucro vuoto. Il frutto portato dal disfacimento del seme è evidente.
«Possiamo dire che è morto?», domanda una catechista a un gruppo di bambini dai 3 ai 5 anni; fra di loro Caterina ha vissuto la morte di un cuginetto ed è lei che risponde: «No, si è trasformato».
Il buon Pastore (pp. 29-30)
C’è un’altra parabola fondamentale nel messaggio cristiano che sembra rispondere ad un’altra inespressa domanda del bambino, tanto intenso è il modo con cui egli recepisce: è la parabola (o similitudine che dir si voglia) del buon Pastore (Gv 10,1-16).
Già le parabole menzionate – come abbiamo visto – illuminano il mistero della Vita con la presenza di una Persona: il Dio che dona. La parabola giovannea ci fa conoscere la voce di questa Persona: è il Pastore buono che chiama le sue pecorelle per nome ed esse si abituano alla sua voce e lo seguono, ed egli cammina davanti a loro.
«A che ci chiama il Pastore?», chiede una catechista a un gruppo di bambini, che rispondono: «A vivere».
Questa chiamata fondamentale è rivolta a ciascuno: «Il buon Pastore chiama le sue pecore per nome». Nel suo gregge ognuno ha un nome. Chi mi chiama ha un nome e io che sono chiamato ho un nome. Si mette così a fuoco la relazione personale che lega il Pastore a ciascuna delle sue pecore.
Se osserviamo attentamente le reazioni dei bambini a questa parabola, vediamo che è proprio «l’essere chiamati per nome» ad avere una risonanza molto forte in loro; è una risonanza che non solo si pone accanto a quella - da noi già segnalata – della protezione, ma forse prevale su di essa. Bambini che sanno già scrivere molto spesso indicano nei loro disegni i nomi delle singole pecorelle, legando talvolta i nomi con un segno che li riconduce alla bocca del buon Pastore. Queste espressioni esplicite ci permettono di leggere quelle – per noi meno chiare – di bambini più piccoli, ancora incapaci di scrivere, che legano talvolta con una riga un cerchio centrale di maggiori proporzioni ad altri piccoli, collegandoli insieme. «È il Pastore e le sue pecorelle», spiega Valeria (4 anni, Roma); quello che li lega sono «cordones» spiega Vanessa (4 anni, Messico) che ha fatto un disegno simile.
Quello che i bambini esprimono in questi disegni è il loro sentimento di strettissima relazione con il buon Pastore.
La storia della salvezza (da p. 42)
Il messaggio biblico è un messaggio di speranza.
Non si tratta di un progressismo consolatorio, né di un ottimismo preconcetto, che il pensiero post-moderno rifiuta. Lyotard si domanda se oggi sia più possibile «organizzare la folla degli avvenimenti che ci vengono dal mondo, umano e non umano, mettendoli sotto l’Idea di una storia universale dell’umanità». Vattimo lo nega; per lui «il rendersi conto dell’universalità della storia ha reso impossibile la storia universale».
Perché noi lo affermiamo?Il messaggio biblico si basa su una sapienza, che è così grande da essere considerata rivelata, e su un avvenimento: la risurrezione di Cristo. In lui la vittoria sul male e sulla morte è già una realtà del nostro mondo; ma è limitata alla sua persona. Il progetto di Dio riguarda l’universo. Noi viviamo nel tempo dell’attesa e della speranza.
Perché la liturgia? (pp. 90-91)
Perché la liturgia? È una domanda che ci si può porre soprattutto se si è convinti che la Bibbia è un pilastro essenziale della nostra cultura occidentale, che mette a fuoco realtà fondamentali, appagando esigenze essenziali del vivere umano. Per una solida formazione della persona non basta dunque il Libro? Sappiamo che elemento importantissimo di una formazione cristiana è l’iniziazione alla liturgia; ma entrando nel fatto celebrativo, restiamo allo stesso livello di essenzialità a cui ci troviamo quando ci accostiamo alla Bibbia? Notiamo innanzi tutto che il fatto celebrativo è un’espressione universale, non solo del mondo religioso; esso corrisponde alla necessità di vivere di tanto in tanto in modo particolarmente intenso realtà fondamentali presenti, e spesso latenti, nel nostro quotidiano. Realtà continuative e onnicomprensive della nostra esistenza hanno bisogno di essere messe a fuoco di tanto in tanto e vissute con intensità particolare; si potrebbe dire che siano necessari alcuni momenti che potremmo chiamare di «condensazione». Se amiamo qualcuno, lo amiamo in ogni momento della nostra giornata, ma abbiamo bisogno di momenti speciali di incontro con la persona amata, in cui vederla, parlarle, abbracciarla. Sono i momenti in cui la relazione si esprime e, facendolo, si nutre e si rinsalda; e senza questi momenti rischia di affievolirsi.
Le scienze umane sottolineano che il celebrare è una necessità personale e sociale; le feste sono infatti considerate periodi di «intensificazione della vita collettiva e dell’esperienza sociale» ed assumono così la fisionomia di tempo sacro. Nella celebrazione della festa, parole, atti, gesti significano la realtà celebrata e ne diventano «segno»; in essi la realtà si esprime e si vive. La celebrazione ha un solido fondamento antropologico e sociale, che affonda le sue radici nella realtà stessa, e nella natura del rapporto uomo-mondo. Il celebrare risponde a un’esigenza fondamentale dell’animo umano, tanto che gli psicologi studiano gli effetti negativi, nella cultura e nella Chiese, del venir meno del processo rituale dovuto ad una certa diffidenza diffusa nel nostro mondo verso la ritualizzazione, tanto che si parla di «guerra contro il rituale». Erikson afferma che si diventa umani nella misura in cui si assimila il repertorio rituale di una comunità umana. Questa è la base antropologica e sociale in cui si innesta la ritualità del mondo biblico, con la sua specifica.
Il bambino e le preghiere eucaristiche (da p. 112)
Che i bambini amino il lavoro di copiatura sarà per alcuni una sorpresa, come lo è stato per noi. Ci siamo convinti della sua importanza quando abbiamo visto i bambini di 8/9 anni copiare – con grande entusiasmo e del tutto spontaneamente – tutto l’ordinario della Messa in forma completa. Abbiamo visto bambini ricopiarlo fino a tre volte, senza dare nessun segno di stanchezza.
Questo lavoro ha uno sviluppo particolare. Si comincia con la Preghiera Eucaristica, si prosegue con i riti di Comunione, poi si risale alla preparazione dei doni per terminare con la Liturgia della Parola. Perché questo cammino tortuoso? Perché il fenomeno della perfino triplice copiatura si è verificato da quando i bambini cominciano il lavoro partendo dalla Preghiera Eucaristica; quando si iniziava dalla Liturgia della Parola quasi nessuno è arrivato in fondo. Credemmo allora di proporre la copiatura della sola Preghiera Eucaristica e dei riti di Comunione; allora, e del tutto spontaneamente, nacque l’entusiasmo per copiare l’intero rituale. Evidentemente partendo dal nucleo vitale della celebrazione l’interesse è più forte ed è tale da sostenere tutto il lavoro.
L’immaginazione e lo stupore nella catechesi (da p. 113)
Il pensiero riflesso è essenzialmente un pensiero che scinde e divide. «Ogni progresso verso la riflessione – dice Ricoeur (P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, I, Paris, 1960, p. 37) – è un progresso verso la scissione». Da qui la necessità di non dimenticare di nutrire l’altro approccio alla realtà, la conoscenza di carattere globale, che si indirizza verso l’immaginazione e la infiamma, che suscita lo stupore di fronte a una realtà di cui non riusciamo a vedere i confini.
Le specie eucaristiche (da p.116)
Le specie eucaristiche sono di una semplicità disarmante; che cosa è più semplice di un pezzo di pane? Eppure tutto l’universo vi è concentrato. Fra gli infiniti elementi con cui il Creatore ha imbandito la mensa del mondo per le sue creature, ha scelto un piccolo pezzo di pane per concentrarvi il suo amore e farne lo strumento unico della presenza divina.
Prima di essere pane, esso era un seme, arido e secco, che un giorno è stato messo in terra e la terra era brulla e nuda. Ma i succhi della terra hanno cominciato ad affluire dal profondo verso il seme, mentre il sole e la pioggia dall’alto lo vivificavano con altri succhi e con il calore. Attraverso un lavorio lungo e nascosto, il seme è diventato filo d’erba e poi, quando il sole era ormai caldo, spiga matura. Uomini e donne sono tornati sul campo con grandi macchine, hanno fatto il raccolto, lo hanno lavorato; quello che era stato il seme è passato attraverso tante mani, è diventato farina e infine pane, pronto ad essere portato sulle nostre tavole. Radunati intorno alla mensa uomini, donne e bambini lo spezzano, lo mangiano, se ne saziano; ne godono il sapore e la fragranza. La ricchezza degli elementi della natura che hanno contribuito a trasformare il seme e il lavoro di tante mani, che sono venute preparandolo, confluiscono nelle case degli uomini.
A questo punto le mani dell’uomo non possono fare altro che trasformare il pane; il loro lavoro è arrivato al termine. Eppure il pane è ancora in attesa. Attende una trasformazione che non può più venire dall’uomo, ma solo da Dio e che non può essere altro che invocata nella preghiera: «Manda il tuo Spirito a santificare il pane e il vino, perché diventino il corpo e il Sangue di Gesù Cristo nostro Signore».
In quel pane ritroviamo tutti i livelli della realtà: da quelli nascosti nel profondo della terra all’amore eterno con cui Dio ci ama (cf. Ger 31,3). Man mano che il seme si sviluppa e perviene a livelli sempre più alti non elimina i precedenti, essi si vengono permeando di una vitalità sempre più ricca, fino a raggiungere, nell’Eucarestia, il culmine. In quel Pane, che viene posto nella mia mano, in quel Pane di cui Gesù dice: «Questo è il mio corpo», l’universo è come condensato nella sua totalità.
L’universo e un pezzo di Pane. L’immenso e il piccolo; l’immenso contenuto nel piccolo. Già questo è una meraviglia difficile da afferrare; ma quel Pane va oltre i confini dell’universo, perché «serve di sostrato, e come di arcano e trasparente veicolo, alla presenza reale e sacrificale di Cristo, e così, a suo modo, è profondamente associato a tutto quel flusso di vita divina che il sacrificio eucaristico porta agli uomini, vivi e defunti, di gioia agli angeli e ai santi in cielo e di gloria a Dio» (C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Brescia, 1957, p. 255).
5/ Brani da Maria Montessori sull’educazione religiosa del bambino
da Maria Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano, 1987, p. 324
Religiosi e liberi nelle loro operazioni intellettuali e nel lavoro che il nostro metodo offre, i piccoli si mostrano spiriti forti, robusti eccezionalmente; come sono robusti i corpicciuoli di fanciulli ben nutriti e puliti. Crescendo in tal guisa non hanno né timidezza, né paura. Danno prova di piacevole disinvoltura, coraggio, conoscenza serena delle cose, fede soprattutto in Dio autore e conservatore della vita.
I bambini sono così capaci di distinguere fra le cose naturali e le cose soprannaturali, che la loro intuizione ci ha fatto pensare ad un periodo sensitivo religioso: la prima età sembra congiunta con Dio come lo sviluppo del corpo è strettamente dipendente dalle leggi naturali che lo stanno trasformando. Io ricordo una bambina di due anni, che, messa davanti ad una statuina del Bambino Gesù, disse: «Questa non è una bambola».
da Maria Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, I edizione del 1909, nuova edizione del 1950, pp. 152-153
Anche il problema dell’educazione religiosa, la cui importanza ancora non sentiamo pienamente, dovrà essere risolto dalla pedagogia positiva. Se le religioni nacquero insieme alle civiltà, esse ebbero probabilmente radice nell’umana natura. Noi abbiamo assistito allo spettacolo edificante di un istintivo amore alla sapienza dei fanciulli, che avevamo giudicati [per] un pregiudizio dediti ai divertimenti [e] ai giochi vuoti di pensiero. Il fanciullo che disprezza il gioco dinanzi al sapere si è rivelato il vero figlio di quell’umanità che fu attraverso i secoli creatrice della scienza e del progresso civile. Noi avevamo deturpato il figlio dell’uomo relegandolo invece a giocattolo degradante, nell’ozio e nel soffocamento di una disciplina male intesa.
Ora il fanciullo dovrà […], nella sua libertà, rivelarci se l’uomo è veramente in natura la creatura religiosa. Negando a priori il sentimento religioso nell’uomo, e privando l’umanità dell’educazione di questo sentimento, potremmo incorrere in un errore pedagogico, simile a quello che ci faceva a priori negare nel fanciullo l’amore alla conoscenza e al sapere: e che ci spingeva a domarlo nella schiavitù, per renderlo apparentemente disciplinato. Anche affermando che solo l’età adulta è adatta all’educazione religiosa, potremmo incorrere in un profondo errore, quale è quello che ci fa oggi dimenticare l’educazione dei sensi nell’età in cui essi sono educabili, cioè nel bambino; mentre la vita dell’adulto è poi praticamente un’applicazione dei sensi della raccolta di sensazioni nell’ambiente, dal che risulta il fallimento della vita pratica e uno squilibrio che disperde tante forze individuali.
Non per fare un paragone tra l’educazione dei sensi come guida alla vita pratica e l’educazione religiosa come guida alla vita morale, ma, solo per servirmi a scopo illustrativo di un’analogia, noto come spesso nella vita morale si osservano dei fallimenti nei non religiosi e molte forze individuali, che pur riconosciamo preziose, [si disperdono] miseramente. Quanti uomini hanno fatto l’esperienza di ciò! E allorché alcuni hanno la tardiva rivelazione della propria coscienza religiosa nell’età adulta o sotto la squassante esperienza del dolore, la mente è inabile a stabilirsi un equilibrio, perché fu troppo stabilmente formata in un campo privo di spiritualità. Allora vediamo spettacoli egualmente pietosi o di conversioni a un fanatismo di religiosità formale e inferiore o di lotte intime drammatiche tra il sentimento che cerca tra le tempeste l’unico suo porto e la mente che riconduce inesorabilmente la coscienza tra i flutti travolgenti dell’alto mare senza pace. Fenomeni psicologici di altissima importanza; e problemi umani la cui gravità è forse tra tutti gli altri suprema.
Noi siamo ancora in Europa e specialmente, tra le più civili nazioni, in Italia, pieni di pregiudizi e di preconcetti su tale argomento – veri schiavi del pensiero. Noi crediamo che la libertà di coscienza e di pensiero consista nel negare alcuni principi di sentimento – come per esempio quelli religiosi -, mentre la libertà non esiste mai là ove si combatte per soffocare qualche cosa, ma solo dove si lascia l’espansione illimitata alla vita. Chi veramente non crede, non teme ciò che non crede e non combatte ciò che non esiste: e se crede e combatte, allora diviene soldato contro la libertà.
da Fabio Narcisi, Comunicare la fede ai bambini. Pastorale battesimale ed educazione religiosa in famiglia, Edizioni Paoline, Milano, 2009, p. 140 che rimanda a Maria Montessori, L’autoeducazione, Garzanti, Milano, 2007, p. 310
Maria Montessori rimaneva [...] colpita dall’esistenza di un sentimento religioso in bambini che non avevano ricevuto alcuna formazione in questo campo, o che addirittura provenivano da famiglie atee. È il caso di un suo allievo di 7 anni cui un amico di famiglia, vedendolo particolarmente sveglio, provò a descrivere l’evoluzione secondo i principi di Darwin. Il bambino seguì con attenzione il discorso e poi domandò: Ebbene, l’uomo viene dalla scimmia e questa da un altro animale e così via: ma il primo da chi viene? La risposta che ricevette fu: Il primo si è formato a caso. Allora il bambino scoppiò in una gran risata e disse concitato: Ma senti che grande sciocchezza: la vita si forma per caso! Questo è impossibile. Alla madre che gli domandò come allora si forma la vita, il bambino rispose con convinzione: È Dio.