1/ Alcuni video suggeriti da Gli scritti sulla difficile situazione della Siria e dei suoi profughi 2/ P. Samir: I siriani cercano “cuore e diritti” in Europa, non nei Paesi del Golfo (da Asianews) 3/ Il dramma di Aleppo: manca tutto, di Maria Acqua Simi 4/ La morte del piccolo Aylan e quella di tutto il Medio oriente, di Bernardo Cervellera 5/ L’Arabia censura la copertina di «National Geographic» con il Papa (dal Corriere della sera)
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1/ Alcuni video suggeriti da Gli scritti sulla difficile situazione della Siria e dei suoi profughi
Alcuni video di cui Gli scritti suggerisce la visione. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
-Syrian Boy to Hungarian Police (Al Jazeera English)
- Il papà di Aylan: "Vorrei che i governi arabi, non i paesi europei, vedano cosa è successo ai miei figli e per questo aiutino i profughi siriani". A dirlo è Abdullah Kurdi, la cui famiglia è annegata davanti alle coste turche mentre cercava di raggiungere la Grecia. "Loro sono dei martiri e quello che spero è che la loro morte possa aiutare chi ha ancora bisogno. Basta con questa guerra" ha detto Abdullah ai giornalisti nella città turca di Mursitpinar, sul confine con la Siria
- Siria. Reportage di Tempi (luglio 2015)
2/ P. Samir: I siriani cercano “cuore e diritti” in Europa, non nei Paesi del Golfo (da Asianews)
Riprendiamo dal sito Asianews un articolo a firma DS pubblicato l’11/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
Roma (AsiaNews) - “I profughi siriani pensano essenzialmente all’emigrazione in Occidente”, perché in questi Paesi sperano di trovare “più lavoro e più apertura di cuore”. E se è vero che i Paesi del Golfo hanno chiuso le porte ai rifugiati, vi è anche da sottolineare che essi “non sognano di andare in altri Paesi musulmani o in nazioni arabe ricche come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti dove, se anche c’è lavoro, essi sono trattati come bassa manovalanza”.
È quanto sottolinea ad AsiaNews p. Samir Khalil Samir, gesuita islamologo di origini egiziane, già professore all’università St. Joseph di Beirut e attuale rettore pro tempore del Pontificio Istituto Orientale a Roma. Spiegando l’ondata migratoria che, in queste settimane, si accalca alle frontiere d’Europa, il sacerdote ricorda che è in atto “un conflitto religioso politicizzato, fra sunniti e sciiti” e che in Siria è esploso in tutta la sua portata.
Fra le ragioni primarie dei successi in Siria e Iraq dello Stato islamico, vi è proprio la lotta interna al mondo musulmano e “l’odio secolare dei sunniti” contro le altre fazioni dell’islam. “In Siria hanno approfittato del fatto che il 70% della popolazione è sunnita - spiega p. Samir - gli alawiti il 15%, i cristiani il 9% e poi una piccola percentuale di drusi. La lotta interna all’islam si è quindi allargata ai non musulmani, contro gli yazidi, i cristiani e ancora i curdi, che sono sunniti ma di altra tradizione culturale”.
Ecco dunque perché, prosegue lo studioso, “i siriani che non hanno più casa non sognano certo di andare nei Paesi musulmani o nelle nazioni arabe ricche”. In queste nazioni “vi è un concetto di classe, che si somma a quello religioso” e “trattano i lavoratori immigrati pakistani e indiani come schiavi, stessa sorte per i filippini e non parliamo degli africani”. La manovalanza è all’ultimo gradino della scala sociale, a prescindere dalla fede professata, mentre ingegneri e tecnici (anche cristiani) sono trattati con maggiore rispetto.
Tuttavia, questa emigrazione che trae origine dalla Siria “ha una natura più profonda” e prolungata nel tempo, “non si limita a pochi mesi o a qualche anno, per poi fare ritorno in patria. I rifugiati non sanno se la loro casa, le loro terre, potranno essere ancora disponibili un giorno – sottolinea il sacerdote –, mentre tutti sanno che in Occidente, una volta stabilizzati, non si torna più indietro”. Egli cita al riguardo un esempio personale, vissuto nelle scorse settimane: “Ho trascorso due mesi in Germania, a Riedenburg (paese di qualche migliaio di abitanti nella Baviera, ndr), dove la comunità locale si è adoperata per accogliere i profughi. Si tratta di musulmani, in maggioranza da Siria, alcuni dall’Iran e dall’Afghanistan o Somalia. I siriani con i quali ho parlato mi hanno detto di essere trattati con rispetto, i cittadini [cristiani] hanno instaurato rapporti di amicizia con gli immigrati invitandoli a casa, aprendo le porte in occasione di pranzi speciali o di feste. Tutti i gruppi, sunniti e sciiti, parlano di rapporto positivo… di accoglienza. I bambini sono integrati nella scuola. Tutti ricevono lezioni di tedesco per facilitare la loro integrazione, e ricevono vitto e alloggio fino a che non hanno un lavoro”.
Tornando ai Paesi arabi, p. Samir ricorda che “il problema demografico è un aspetto reale” e i governi non vogliono concedere la cittadinanza “per mantenere gli immigrati in condizioni di sfruttamento per un periodo limitato di tempo”. Basti pensare, aggiunge, al Qatar dove gli operai lavorano per 12 ore sotto il sole cocente per costruire gli stadi del mondiale di calcio del 2022. “Non c’è rispetto per i diritti, non c’è rispetto per la persona, il modello è quello della società islamica del VII secolo che anche l’Isis vuole applicare e riprodurre in scala”.
Nel contesto di una situazione drammatica, l’Occidente non si muove perché finora “non è colpito direttamente nei propri interessi” e non ha una strategia chiara e comune per la regione. “La situazione è delicata - afferma p. Samir - perché l’Isis è ormai diffuso in questi territori, in Siria e Iraq è in mezzo alla popolazione, non un esercito ma un movimento terrorista mescolato alla gente. Se li vuoi combattere devi farlo corpo a corpo, non bombardarlo, e l’Occidente non è disponibile a fare questo”. Inoltre, per i governi europei non vi sono particolari rischi “se si ammazzano fra loro, ma agendo in questo modo fanno venire meno il concetto di protezione del più debole. Per l’Occidente resta valido il principio della difesa del proprio interesse, che in queste aree si traduce nella parola petrolio”.
“In ogni caso - conclude il gesuita - non vi può essere una soluzione militare, perché dalle armi si hanno solo risposte provvisorie. È necessario un progetto di pace che, al momento, nessuno vuole perché vincono le mire espansioniste e gli interessi personali. Un po’ come quanto sta avvenendo da tempo fra Israele e Palestina dove non si riesce a raggiungere un serio compromesso, una soluzione fra le parti. E questa soluzione si può trovare solo nel dialogo, non certo nel potere e nella forza che trovano la loro sponda nell’ideologia fondamentalista”.
3/ Il dramma di Aleppo: manca tutto, di Maria Acqua Simi
Riprendiamo dal blog Ora pro Siria un articolo pubblicato il 13/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
Gli scontri, migliaia di morti, 7 milioni di sfollati: è questa la Siria oggi. La città più colpita diventa però il simbolo della rinascita: tre coraggiosi frati francescani aiutano la gente portando acqua, cibo e aiutando gli studenti.
Quattro anni di guerra, oltre sette milioni di sfollati, metà del Paese in balìa di gruppi di briganti e ribelli islamisti o delle milizie dell’ISIS. Mentre l’altra metà - quando non si combatte nelle città, quartiere per quartiere - è ancora sotto il debole controllo dell’esercito regolare del presidente Bashar al Assad. È questa la Siria da cui centinaia di migliaia di persone stanno fuggendo: cristiani, musulmani, curdi. È la Siria di Aylan, il bambino annegato al largo delle coste turche e la cui foto ha fatto il giro del mondo.
La grande fuga
Qualcuno cerca di arrivare in Europa, altri in Canada o in Australia. Ma sono i più ricchi. I poveracci muoiono per strada, rimangono intrappolati sui confini o nelle città siriane teatro di violenze indicibili. Senz’acqua, elettricità, lavoro, medicine. Sia le forze di sicurezza che i gruppi “ribelli” hanno condotto diverse operazioni su larga scala in villaggi e città, sfociate in esecuzioni di massa, uccisioni, arresti, conversioni forzate, rapimenti e torture. In questo caos molte imprese, specialmente esportatrici e importatrici, hanno chiuso i battenti.
Le folle di turisti che erano la linfa di un’industria moderna e fiorente che aveva creato milioni di posti di lavoro nei trasporti, nel settore dei servizi e degli alloggi, non vengono più. L’embargo internazionale sta impedendo qualunque possibilità di esportare, mentre i prezzi si sono impennati. Aleppo è forse l’esempio più grande di tutto questo. Proviamo a raccontarlo, con gli occhi di un amico francescano che è laggiù, padre Ibrahim, e che vogliamo provare ad aiutare nei prossimi mesi con una colletta del GdP (Giornale del Popolo, quotidiano della Svizzera italiana), proprio come è stato ed è per i cristiani iracheni in fuga dall’ISIS, a Erbil, qualche mese fa.
La vita ad Aleppo
La casa di Bassam e della sua famiglia si trova a Middàn, che in arabo significa “campo”. Da quando è scoppiata la guerra in Siria, quattro anni fa, questo quartiere di Aleppo si è trasformato in un campo, sì, ma di battaglia. La zona è abitata prevalentemente da famiglie cristiane di origine armena, con molti figli ed è un dedalo di strade strette e case costruite una sopra all’altra, i negozi incollati alle abitazioni, le finestre piccole, gli edifici invece alti anche cinque o sei piani.
La casa di Bassam è a metà di una di queste: uno spazio modesto, due stanze e una cameretta dove si possono sedere quattro persone strette strette.
«Era così, prima che una bomba di gas, seguita da alcuni colpi di mortaio, distruggesse lo sgabuzzino e incendiasse l’edificio vaporizzando in pochi secondi le povere cose che arredavano gli interni. La zona di Middàn ha subìto e continua a subire la sorte peggiore.
Le famiglie, in maggioranza poverissime, non ce la fanno ad abbandonare le case poiché non hanno altro luogo in cui rifugiarsi. Se ne stanno rintanate nelle loro case a distanza di solo 100 metri dalle milizie armate. La casa di Bassam ora ha un tetto di zinco, perché rifarlo in muratura è troppo rischioso».
Ce lo racconta padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, francescano siriano parroco della comunità latina di Aleppo. È grazie all’amicizia con lui e ai suoi racconti che possiamo entrare nel cuore della città, incontrare la famiglia di Bassam e la gente di Middàn. Che poi sono le famiglie di Maloula, Raqaa, Latakia, Knayeh, Yakoubieh e di altri nomi antichissimi che popolano i villaggi di questa bella e antica terra. Una terra che oggi ha bisogno di tutto.
L’emergenza sanitaria
Ad Aleppo la parrocchia di San Francesco, quella di padre Ibrahim, si trova nel quartiere di Azizìeh, zona ancora sotto il controllo del l’esercito regolare di Damasco. I frati - che in Siria vivono da secoli - sono presenti anche nella chiesa di Sant’Antonio di Padova, e poco lontano a El Ram, nel Convento di San Bonaventura.
Nonostante la linea del fronte sia ad un passo, con bombe e cecchini in ogni angolo, ospitano dalle 7 di mattina alle 20 di sera studenti universitari e liceali che vogliono studiare ma non hanno più un luogo dove farlo. Accolgono tutti: cristiani, musulmani, curdi.
Aiutano a distribuire l’acqua e il cibo, hanno realizzato un oratorio per i bambini, cercano di aiutare la gente a pagare gli affitti e le rette scolastiche anche se ora si è aggiunta la drammatica emergenza sanitaria.
Occorrono nuovi fondi per fornire cure mediche e comprare medicine: molti medici hanno abbandonato il Paese o sono stati uccisi e imprigionati. Ad Aleppo molto spesso è quasi impossibile eseguire interventi per la mancanza di acqua ed elettricità. Per mancanza di farmaci chemioterapici i trattamenti sono sospesi e i prezzi delle operazioni più banali lievitati: oggi una semplice appendicite costa 1500 dollari invece di 400. Sono in grave aumento le epidemie e così l’impegno più grande dei francescani di Terra Santa è quello di riparare uno dei pochi ospedali rimasti in piedi nella città. Padre Ibrahim e i suoi fratelli non hanno però paura.
«Nonostante i nostri sensi ci dicano che non c’è più speranza e che Aleppo non avrà un domani, con gli occhi della fede continuiamo a vedere una salvezza per il nostro popolo. Continuiamo a sperare che, là dove gli uomini falliscono nella ricerca della pace, il Signore Risorto riuscirà. Noi saremo lì fino all’ultimo, punto di riferimento per i nostri e forse anche per gli altri. Basta guardare a come siamo diventati amici di tanti musulmani che prima - quasi - non guardavamo in faccia. E poi tutta la solidarietà internazionale, che ci permette di sopravvivere. Anche se a volte non è sufficiente, ogni giorno sperimento il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci».
«Ne vale la pena»
Chiediamo a Ibrahim se vale la pena di rimanere, se c’è qualche segno di speranza. Ed è con la sua risposta che vogliamo chiudere questo articolo. «Valeva la pena di visitare le case semi-distrutte con gli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini che le abitano? Ho continuato a pormi questa domanda fino a quando il buon Pastore stesso ha mi dato la risposta, con un’altra domanda che spiega tutto: “Valeva la pena di toccare il lebbroso, prima di guarirlo? Non si poteva cioè guarirlo senza toccarlo?”.
Se si tratta di manifestare la tenerezza di Dio che distrugge tutte le divisioni e le barriere fra l’uomo e il suo Dio, se si tratta di manifestare il Suo Amore verso la Sua creatura colpita e martoriata, sì, stare qui vale la pena, perché ci ricorda come anche oggi Gesù non si vergogna di toccare la lebbra, pur di manifestare quanto Lui è presente».
I 14 frati della Custodia di Terra Santa non hanno mai lasciato il Paese in guerra e operano in diverse zone: Lattakia, Damasco, Aleppo e in alcuni villaggi della valle Orontes.
Portano aiuti alla popolazione locale senza distinzione di appartenenza religiosa o nazionalità. Hanno anche creato quattro centri di accoglienza, che provvedono ai bisogni più immediati dei più poveri della popolazione: acquisto di cibo, indumenti e coperte in vista dell’inverno. Si cerca anche di tamponare l’emergenza sanitaria dispensando medicine e provvedendo all’assistenza medica fondamentale, specialmente attraverso l’ospedale di Aleppo e i dispensari medici dei monasteri francescani. Cercano poi di offrire sostegno agli sfollati trovando loro soluzioni di alloggio in caso le loro abitazioni non siano più accessibili, o ricostruendo le loro case.
4/ La morte del piccolo Aylan e quella di tutto il Medio oriente, di Bernardo Cervellera
Riprendiamo dal sito Asianews un di Bernardo Cervellera pubblicato il 3/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
Roma (AsiaNews) - Anche noi stiamo piangendo la morte di quel piccolo di tre anni che nella fuga dalla Turchia alla Grecia è annegato con il suo fratellino. La marea ha ributtato i loro corpi sulla spiaggia di Bodrum, dove di solito la gente si diverte a bagnarsi e prendere il sole.
Anche noi seguiamo con dolore – e vergogna – l’attesa delle migliaia di profughi siriani e non alla stazione di Budapest: sono delle immagini che ricordano quelle di una guerra, la Seconda guerra mondiale, di cui abbiamo celebrato l’anniversario della fine in modo trionfale, senza sensi di colpa di vincitori o di vinti.
Anche noi missionari del Pime, abbiamo messo a disposizione dei posti di ospitalità – la casa di Sotto il Monte, vicino alla casa natale di Giovanni XXIII – per decine di rifugiati che hanno attraversato il mar Mediterraneo, piangendo la morte per acqua di migliaia, annegati nella rischiosa traversata.
Eppure il pianto per chi è morto, l’ospitalità, le pressioni sull’Unione europea perché cambi in meglio le sue regole di accoglienza forse ci soddisfano in modo sentimentale, ma non tranquillizzano la nostra coscienza, né la nostra intelligenza.
Sembra che il piccolo Aylan provenisse da Kobane, la cittadina curda quasi al confine con la Turchia. Per mesi Kobane è stata sotto l’assedio delle milizie dello Stato islamico, che volevano garantirsi un corridoio fra la zona da loro controllata e il territorio turco, da cui essi ricevono nuove reclute e smerciano petrolio di contrabbando. I profughi che – come la famiglia di Aylan – volevano fuggire da Kobane sono stati ricacciati indietro dai militari turchi; la stessa Turchia ha bloccato i peshmerga irakeni che volevano aiutare i curdi che difendevano la città.
Mi domando allora a che serve piangere su Aylan se non si piange su Kobane e sulla collusione fra Ankara e lo Stato islamico?
E come piangere sulle migliaia di rifugiati ammassati nella stazione di Budapest, senza rendersi conto che la maggioranza di loro sono siriani e la loro venuta in Europa è causata dalle guerre dello Stato islamico, delle milizie fondamentaliste internazionali, ma anche dalla pretesa dei governi occidentali di voler vedere anzitutto la caduta di Bashar Assad?
E a che serve piangere sui morti nel mar Mediterraneo, gridare contro gli scafisti se non si riconosce che agli scafisti proprio l’occidente ha dato una mano intervenendo nell’equilibrio inquieto mantenuto da Gheddafi?
Accogliamo pure i profughi, cambiamo le regole della Convenzione di Dublino, ma andiamo a fondo del loro dramma affrontando le cause. Le cause sono un Medio oriente che va allo sbando, a cui l’occidente ha dato una mano (Afghanistan, Iraq, Siria,…); gruppi estremisti che i Paesi della regione (Turchia, Qatar, Arabia saudita, Emirati,…) sponsorizzano in armi e denaro; grandi potenze che invece di accordarsi a costruire la pace, combattono una guerra per procura usando chi la Siria, chi l’Iran, chi l’Arabia saudita.
E’ tempo che si dica basta ai finanziamenti allo Stato islamico da parte dei governi del Medio oriente; che si attui una pace negoziata in Siria e in Yemen, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu faccia il lavoro per cui è stato fondato: lavorare per la pace delle nazioni, non per la supremazia dell’uno o dell’altro.
Qualche giornale, commentando la foto-simbolo del piccolo Aylan ha gridato “Adesso basta!”. Ben venga questa decisione. Ma cosa dire delle decine di migliaia di bambini che in questi quattro e più anni di guerra sono morti in Siria? E quelli morti in Iraq?
Se non c’è un impegno contro le cause di tutte queste morti, quella di piegarsi sul dolore dei profughi in Europa rischia di apparire come un volersi nascondere da responsabilità mondiali. Ma intanto tutto il Medio oriente rischia di deflagrare, producendo non 200mila, ma 100 milioni di probabili profughi. E se il Medio oriente deflagra, né l’Europa, né tutto il mondo potrebbero salvare se stessi.
5/ L’Arabia Saudita censura la copertina di «National Geographic» con il Papa (dal Corriere della sera)
Riprendiamo dal sito del Corriere della sera un articolo redazionale pubblicato il 10/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2015)
L'Arabia Saudita ha censurato la versione araba del numero di agosto del «National Geographic» che aveva in copertina l’immagine di papa Francesco. In un breve messaggio affidato a Twitter, i responsabili della versione araba della rivista hanno parlato di edizione bloccata per ragioni di «carattere culturale». La notizia è stata ripresa da «Foreign Policy» secondo cui per i wahabiti al potere nel Regno saudita - con un’interpretazione rigidissima del Corano - l’articolo che parla della «Rivoluzione in Vaticano» sarebbe pericoloso in quanto mostrerebbe come anche un «regno assoluto» come il Vaticano riesca a far «adattare» una fede ai tempi.