1/ La tratta delle donne in arrivo dalla Libia, di Ilaria Solaini 2/ Sui migranti non servono sermoni. I timori dei cittadini, di Ernesto Galli della Loggia
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1/ La tratta delle donne in arrivo dalla Libia, di Ilaria Solaini
Riprendiamo da Avvenire del 3/8/2015 un articolo di Ilaria Solaini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (9/8/2015)
Le loro vite appartengono ai trafficanti, che le costringono alla traversata nel deserto del Sahara e del Sahel e poi al viaggio sui gommoni nel Mediterraneo. Vengono vendute più volte, in vari passaggi di mano, subiscono violenze a ripetizione, sono costrette a prostituirsi una volta arrivate nelle città libiche dagli stessi trafficanti che vogliono che siano loro stesse a ripagarsi il “viaggio della speranza” fino all’Italia. Ma la speranza non c’è nel loro futuro. La loro è una tragedia nella tragedia.
Nei grandi flussi migratori, in mezzo alle migliaia di persone che chiedono protezione umanitaria si annida l’orrore di queste donne, che passano dalla povertà del loro Paese di origine, allo sfruttamento sessuale sulle strade d’Europa, e vedono schiantarsi contro il muro della realtà tutte le promesse per un futuro migliore.
Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) le donne nigeriane arrivate in Italia al 30 giugno 2015 sono state 1.471, su un totale di 7.897 arrivi dalla Nigeria. L’anno scorso durante lo stesso periodo le donne erano solo 353 su un totale di 3.311 arrivi di migranti nigeriani (a fine 2014 le donne furono 1.454, su un totale di 9mila arrivi dalla Nigeria). L’aumento del flusso dalla Nigeria va di pari passo con l’aumento delle donne nigeriane che nei primi mesi del 2015 sono letteralmente quadruplicate; ma il racket oramai non fa più vittime soltanto nel Paese più popoloso dell’Africa, quello che detiene la leadership culturale ed economica del Continente nero, ma attinge anche dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale, in particolare Camerun e Mali.
Nuove nazionalità, ma simili meccanismi di controllo da parte dei trafficanti che utilizzano le vie istituzionali dell’accoglienza per inserire le donne destinate alla tratta. «Questa sovrapposizione delle rotte è la nuova strategia dei trafficanti di vite umane» spiega suor Claudia Biondi, dell’Ordine delle Ausiliatrici delle Anime del Purgatorio, che dal 1994 si occupa del settore tratta e prostituzione di Caritas ambrosiana. «Hanno smesso di fabbricare documenti falsi, utilizzare visti turistici e pagare voli internazionali, riescono a fare entrare migliaia di donne attraverso i canali istituzionali dell’ospitalità per i richiedenti asilo. Una volta sbarcate, fanno domanda per l’asilo.
Dopo aver ricevuto dalla Questura il cedolino – aggiunge la religiosa – e in attesa che la Commissione territoriale valuti la loro domanda di protezione, vengono sbattute in strada per ripagarsi il debito che hanno contratto per il viaggio». Si parla di circa 40mila euro, da restituire una volta in Italia. Una cifra che le ragazze neanche comprendono: pensano a 40mila naire nigeriane, un valore di circa 180 euro, e accettano senza sapere a cosa vanno incontro.
«Ricevono delle indicazioni precise su come svicolarsi dai Cara o dai Cie, lì la situazione è incontrollabile e i grandi numeri fanno il gioco dei trafficanti. Sono lasciate sole a se stesse, non sanno di poter denunciare chi le sta sfruttando – sottolinea suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, negli uffici centrali dell’Unione Superiore Maggiori d’Italia (Usmi), come responsabile del settore tratta donne e minori e nel 2012 ha fondato l’associazione Slaves no more, che combatte il traffico di essere umani –. Serve una strategia per intercettare queste donne, fragili e devastate dalla traversata, direttamente al loro sbarco: sono necessari degli operatori formati che possano individuare le vittime del racket. Non possiamo lasciarle morire da sole in strada».
Di fatto, però, quello che manca sono i servizi di identificazione delle vittime in frontiera. «In poche ore le ragazze vengono trasferite in autobus nei centri di prima accoglienza, dove possono essere raggiunte da connazionali già residenti in Italia che le fanno scomparire con la promessa di farle partire verso le città del Nord. Non sono sufficienti gli arresti degli scafisti, senza il pieno coinvolgimento degli attivisti, delle associazioni e degli operatori umanitari esperti in questo settore si rischia di farsi passare sotto il naso la tratta, che costituisce un fenomeno molto più pericoloso del semplice favoreggiamento dell’ingresso» denuncia il professor Fulvio Vassallo Paleologo.
Per portare queste donne e i minori non accompagnati che vivono lo stesso incubo fuori dai meccanismi dello sfruttamento sessuale, si deve lavorare su percorsi di collaborazione: «La distinzione tra tratta di esseri umani (trafficking) e traffico di persone (smuggling) – ha spiegato il giurista palermitano da sempre impegnato nella tutela dei migranti – se è chiara dal punto di vista repressivo, dal punto di vista della sanzione penale degli autori dei correlati reati, appare sempre più sfumata nelle prassi applicate dalla polizia e dai nuclei interforze, e non aiuta a proteggere le vittime, alle quali si richiede immancabilmente la denuncia dei trafficanti, prima di fornire certezze sulla sistemazione in un luogo protetto e su uno stato giuridico legale».
2/ Sui migranti non servono sermoni. I timori dei cittadini, di Ernesto Galli della Loggia
Riprendiamo dal Corriere della sera del 2/8/2015 un articolo scritto da Ernesto Galli della Loggia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (9/8/2015)
L’Italia è un Paese con una forte disoccupazione e un alto indice di povertà. Sono molti gli italiani che vivono male, in abitazioni insufficienti, che anche se hanno un lavoro non sanno come arrivare alla fine del mese, e non godono di nessun aiuto pubblico. Stando così le cose è mai ammissibile che l’Italia abbia davvero bisogno di vedersi arrivare decine di migliaia di immigrati, e che possa permettersi di impiegare le sue risorse per accoglierli? Non solo, ma dopo quanto è accaduto in Gran Bretagna e in Francia, con i giovani africani e asiatici di seconda generazione convertitisi allo jihadismo islamico e al terrorismo, è davvero ancora possibile credere all’integrazione?
Non sono io a fare queste domande. Me le hanno rivolte, in tono spesso infuriato, i lettori del Corriere : dai quali non ho mai ricevuto una quantità di lettere così critiche come quando ho scritto qualche settimana fa un articolo sulla necessità di far posto in Italia agli immigrati e ai rifugiati, praticando a loro favore una larga politica d’integrazione (Corriere , «Il realismo saggio sui migranti», 25 giugno).
Bene: alle domande critiche di cui sopra o ad altre analoghe potrei rispondere ribadendo più o meno le mie ragioni. Ma non voglio farlo, perché penso che ciò servirebbe solo a tacitare, almeno sulla carta, le ragioni dei lettori dissenzienti, che invece esistono e sono l’espressione di problemi e disagi reali, molto reali. Penso che sia più giusto, dunque, cercare di capire che cosa ci dicono tali ragioni, che cosa chiedono, per quali problemi domandano una soluzione. Chi protesta contro l’immigrazione lo fa mosso in genere da due stati d’animo molto forti: il senso d’insicurezza e il bisogno di eguaglianza.
L’insicurezza è prodotta dal vedere un estraneo comportarsi senza alcun riguardo verso la comunità di cui si fa parte. Per esempio orinare a proprio piacere contro i muri, ubriacarsi e schiamazzare a perdifiato, non pagare il biglietto sui mezzi pubblici, accamparsi nei parchi cittadini, vendere dovunque merce contraffatta, invadere gli spazi comuni (stazioni, marciapiedi) per dedicarsi apertamente al taccheggio, o tenere analoghi comportamenti: e però venendo sanzionato, bene che vada, solo una volta su mille. Per simili gesta, infatti, le forze dell’ordine e le polizie locali non solo non intervengono quasi mai, ma quando lo fanno la cosa di regola non ha alcun esito significativo.
Non so se i ministri dell’Interno e della Giustizia, i sindaci, si rendono contro che assecondando questo andazzo essi si assumono la grave responsabilità di contribuire ad esasperare lo spirito pubblico, ad eccitarlo al massimo contro gli immigrati. Se invece si trovasse il modo di intervenire contro le suddette infrazioni con frequenza e in senso immediatamente punitivo (sì, punitivo: guai ad aver paura delle parole), ciò avrebbe un importantissimo effetto di rassicurazione.
Bisognerebbe per questo cambiare le leggi o non lo consente la Costituzione con i suoi tre gradi di giudizio? E allora? Se manteniamo un governo non è forse anche per cambiare le leggi e se occorre la Costituzione? Ad esempio per introdurre la possibilità di comminare, in sostituzione di pene pecuniarie spesso inesigibili, l’obbligo di eseguire lavori socialmente utili? Perché non pensarci?
Il governo neppure immagina, mi pare, la molteplicità di effetti positivi che avrebbe sull’opinione pubblica vedere un passeggero abusivo o una taccheggiatrice costretti, che so, a spazzare una strada per una settimana o a cancellare le scritta dai muri di una scuola: nati in Italia o altrove non importa, naturalmente, ma non nascondiamoci che nel caso degli immigrati il valore di una simile politica sarebbe davvero strategico. Trasmetterebbe loro il messaggio che il primo obbligo che essi hanno, venendo in Italia, è quello di rispettare, come chiunque, le norme che regolano la nostra collettività. E ai nostri concittadini farebbe capire che in una situazione di confronto difficile con estranei che adottano comportamenti impropri (come fanno assai spesso gli immigrati, non nascondiamoci dietro un dito) essi non sono abbandonati a se stessi ma possono, al contrario, contare sull’aiuto efficace dello Stato.
Il secondo sentimento che specie negli strati popolari è colpito più negativamente dall’immigrazione è il sentimento della giustizia, ovvero il bisogno di eguaglianza. Ogni beneficio concesso agli immigrati è visto come qualcosa tolto agli italiani, gettando così le basi per una contraddizione, politicamente micidiale, tra spesa sociale e spesa per l’accoglienza, tra «noi» (che paghiamo le tasse) e «loro».
È sciocco negare che questa sensazione si basi su dati reali, riguardanti soprattutto i rifugiati e i richiedenti asilo: per i quali i regolamenti europei prevedono la concessione di varie provvidenze. Basti pensare che in Germania, quest’anno, la loro accoglienza peserà sul bilancio dello Stato per qualcosa come 6 miliardi di euro. Ma detto che è certamente urgente che l’Unione Europea restringa il numero di Paesi la fuga dai quali possa essere giustificata in base a «ragioni umanitarie» (è ammissibile ad esempio che ben 70 mila cittadini di Kossovo, Albania e Macedonia abbiano chiesto l’asilo in Germania per le suddette ragioni?), mi sembra comunque ancora più urgente un’altra misura.
E cioè - riprendo un’idea lanciata da Giovanna Zincone sulla Stampa - che nel nostro Paese si stabilisca che ad ogni provvidenza erogata dallo Stato per gli immigrati o i rifugiati corrisponda un’erogazione di pari ammontare di beni e servizi ai territori che li accolgono (sotto forma di restauro di edifici, di nuove attrezzature pubbliche, di dotazione di asili e centri sociali, di miglioramento della pulizia e della vivibilità dei luoghi, ecc.).
Per sortire il loro effetto, tali erogazioni, però, aggiungo io, dovrebbero avere alcuni requisiti: essere fortemente e immediatamente visibili, realizzare il proprio scopo in tempi brevi, infine essere gestite direttamente dal governo centrale (magari per il tramite dei prefetti: altro che «rottamarli»!), al fine di evitare loro eventuali «manipolazioni» e occultamenti distorsivi ad opera dei poteri politici locali e di conferire all’iniziativa il suo necessario carattere «nazionale».
Bisogna convincersi che esser ostili in linea di principio al fenomeno migratorio, vederlo con apprensione, può essere sbagliato (come io ritengo), sbagliatissimo, ma è del tutto legittimo. Sta perciò a chi è favorevole pensare e adottare misure concrete per attenuare o cancellare una tale ostilità. Misure concrete però, concrete: non sermoni buonisti sull’obbligo dell’«accoglienza» che lasciano il tempo che trovano.