I cripto-cristiani sotto dominazione turca (da Lucetta Scaraffia)
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Riprendiamo sul nostro sito un brano da Lucetta Scaraffia, Rinnegati. Per una storia dell’identità occidentale, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 3-15. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulla condizione dei cristiani nell'Andalusia musulmana, vedi la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (23/8/2015)
N.B. de Gli scritti. Gli studi storici sono molto attenti al fenomeno degli ebrei e dei musulmani “nascosti” nella Spagna del XVI secolo e XVII secolo, mentre tacciono sui cristiani vissuti sotto dominazione islamica. Fin dall’invasione musulmana della Spagna nell’VIII secolo, invece, il fenomeno è estremamente rilevante. Al momento della Reconquista dell’Andalusia solo il 10% della popolazione era ancora cristiana. Molti cristiani nei secoli erano fuggiti a nord, altri si erano fatti musulmani per convenienza, altri erano stati obbligati alla conversione, altri erano passati alla nuova religione in buona fede, molti erano rimasti cristiani interiormente sotto un’apparenza di convertiti – i 50 martiri di Cordova nel IX secolo mostrano come la fede cristiana nascosta potesse improvvisamente riscoprire il desiderio di esprimersi in un contesto così ostile. Il numero dei cristiani rimasto fedele diminuì via via nei secoli, ma una minoranza non si rassegnò mai a perdere la fede: vengono chiamati mozarabi, cioè cristiani che si esprimono in lingua araba.
I loro monumenti più significativi vennero eretti però solo nella Spagna rimasta cristiana (il più famoso è il complesso di San Miguel de Escalada, ma rimangono le chiese di Sahagún, Peñalba, Wamba, così come le miniature del famoso Beato di Liébana), poiché, una volta riusciti a fuggire, era loro permesso di costruire edifici in libertà, mentre nell’Andalusia musulmana ciò era loro interdetto.
Quanto detto fin qui riguarda i cristiani sotto l’Islam arabo. Lucetta Scaraffia, nel suo studio, si occupa invece dei cristiani sotto l’Islam turco che si sostituì nel Nord-Africa a quello arabo a partire dal XV secolo. La stessa azione militare di Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona per la Reconquista di Granada e della parte ancora arabo-musulmana dell’Andalusia si deve anche alla consapevolezza dei due sovrani che quei territori sarebbero stati occupati a breve dai musulmani turchi: da qui l’urgenza di agire prima che un nemico ben più potente della dinastia nasride se ne impossessasse.
La Scaraffia mostra quali fossero i problemi dei cristiani caduti sotto dominio turco e come si sia evoluta la condizione dei cripto-cristiani nel passaggio alla dominazione turca.
Nell'età moderna il Mediterraneo era diviso in due parti contrapposte - cristiana e musulmana - che si sono trovate per secoli, e soprattutto nel XVI secolo, in una situazione di conflitto pressoché continuo sia nelle forme belliche tradizionali che in quelle delle razzie piratesche.
Mentre la storia politica si è preoccupata di informarci dello sviluppo delle relazioni diplomatiche, economiche e militari fra i due blocchi contrapposti, solo recentemente - sulla scia di Braudel - è stata portata l'attenzione sui rapporti più informali e amichevoli che nel corso del tempo si sono intrecciati fra le popolazioni costiere, e in particolare sul fenomeno dei cosiddetti rinnegati, cioè i cristiani che, più o meno spontaneamente, rinunciavano alla loro religione per convertirsi all'Islam.
Questi studi[1] hanno rivelato l'esistenza di un notevole numero di individui vissuti all'incrocio fra le due culture, che quindi annullavano - almeno nella loro vita - la contrapposizione netta segnata dalle divisioni religiose. Questo particolare modo di vivere, a cavallo fra due culture religiose, testimonia l'esistenza di una sorta di terza dimensione, che annullava la polarità conflittuale.
Il fenomeno dei rinnegati coinvolse un notevole numero di persone: si parla di trecentomila «rinnegati» fra il ‘500 e il ‘600, e ancora di varie migliaia nel ‘700. Un gran numero di questi convertiti erano schiavi che vedevano nell'apostasia un modo di migliorare la loro condizione e di raggiungere la libertà, o per concessione del padrone o attraverso la fuga, resa possibile da una minore sorveglianza. Nella maggior parte dei casi non subivano pressioni violente, al massimo qualche sollecitazione alla conversione.
Ma anche uomini liberi originari delle regioni costiere passavano all'Islam in gran numero e del tutto volontariamente, nella speranza di migliorare la propria condizione economica e sociale. Molti ci riuscivano realmente, come dimostrano i resoconti di fonte cristiana, concordi nel sottolineare il gran numero e le fortune dei rinnegati nei centri principali dell'impero ottomano.
Non abbiamo dati precisi, ma sembra che i periodi di massimo flusso verso Oriente sono coincisi con i momenti di crisi della società europea, di depressione economica e di persecuzione religiosa e politica. Nei paesi conquistati dai «turchi», che come popolo non conoscevano aristocrazie per nascita, c'era la possibilità di arricchire e migliorare il proprio stato, e quindi erano una meta molto invitante.
Nei paesi ottomani c'era bisogno di artigiani specializzati, di medici, di armi, ed è attraverso i rinnegati che, a partire dal XVI secolo, vi vengono diffuse le tecnologie occidentali. Gli stati barbareschi, nonostante la loro povertà e arretratezza (da cui il nome di «barbari» attribuitogli dagli europei) si ritrovarono a un certo punto all'avanguardia del progresso proprio grazie al contributo dei prigionieri razziati nella guerra di corsa e dei numerosi rinnegati.
Ad Algeri, nel 1580, secondo la testimonianza dell'Haedo[2], v'erano circa 6.000 rinnegati, alcuni dei quali con figli; nel 1630, secondo il Dan[3], ve n'erano 8.000, oltre a 1.200 donne. Nella stessa epoca, sempre secondo il Dan, a Tunisi ve ne erano 3 o 4.000 insieme a 6 o 7.000 donne; nel 1588 ad Algeri su 43 rais (cioè comandanti di nave) ben 19 erano rinnegati e 2 figli di rinnegati.
«Li rinegati sono di tre generi - scrive nel 1623 il dragomanno Salvago[4] - volontari, sforzati e fatti da picciolini, tutti accettati nell'ordine di quei Gianiceri Barbareschi, e tanti a rinegare andassero, come a tutti, si dé tosto accetto nella militia».
Oltre nei reggimenti dei giannizzeri - dove venivano accolti i ragazzi cristiani arruolati attraverso il devshirmé, cioè l'obbligo che l'impero ottomano faceva pesare sulle popolazioni cristiane residenti nei suoi confini di consegnare al Serraglio un certo numero di ragazzi che venivano educati nella religione islamica - i rinnegati svolgevano un ruolo di primo piano nella guerra di corsa, spesso utilizzando contro i loro antichi compatrioti la conoscenza di luoghi e abitudini, e ottenevano in cambio ricchezza e spesso avanzamenti sociali.
Accadde per l'appunto in questo mondo che un pastorello sardo diventasse governatore di Algeri, un marmoraio di Lavagna governatore di Tunisi, un barcaiolo calabrese ammiraglio della flotta turca. Troviamo rinnegati presso ricchi musulmani quali segretari di fiducia, nelle rappresentanze diplomatiche europee quali interpreti, nell'esercito, nel consiglio del Sultano e nelle amministrazioni locali, capitani di porto, capi della dogana, governatori di città. Spesso trattavano il riscatto degli schiavi cristiani e attraverso questa via - facendo pagare la somma pattuita direttamente alla propria famiglia - facevano pervenire qualche somma di denaro ai parenti rimasti nella Cristianità.
Alcuni rinnegati approfittarono della relativa facilità con cui si potevano attraversare i confini fra le due religioni per muoversi più volte fra i due mondi, come denunciava al Papa, verso la fine del XVI secolo, l'Ordine dei Cavalieri di Malta: «molti rinnegati dopo essere pervenuti all'intento dell'ottenuta libertà, per via della finta loro conversione, se ne sono tornati in Turchia e diventati sono più perfidi dei turchi e nemici di Cristo».
Le donne, una volta fatte schiave, erano quelle che più facilmente abbandonavano il cristianesimo, spesso trattenute in Oriente dal legame che si creava con i figli che nascevano in schiavitù. Anche per loro, comunque, il passaggio al mondo musulmano poteva significare un miglioramento delle condizioni di vita: ricercate per la loro pelle chiara, infatti, erano acquistate da personaggi facoltosi presso i quali assumevano lo status di concubine «favorite» o, addirittura, dopo la conversione all'Islam, di legittime spose.
In assenza di ricerche negli archivi di Istanbul, che permetterebbero di comprendere meglio la consistenza e il peso sociale dei rinnegati rimasti nei territori ottomani, le fonti primarie su cui studiare questo fenomeno sono gli archivi dell'Inquisizione, dove si trovano i processi di «riconciliazione» a cui erano sottoposti i rinnegati che tornavano, sia volontariamente che come prigionieri, nelle società cristiane.
Lo studio dei Bennassar, che hanno esaminato un consistente corpus documentario relativo a 1.550 rinnegati «riconciliati» dai tribunali dell'Inquisizione spagnola nel periodo 1550-1700, rivela che la maggior parte erano spagnoli (459) o italiani (402), cioè originari dei paesi più vicini e in stato di guerra permanente con i turchi. Si trattava soprattutto di uomini di mare, catturati in seguito a operazioni belliche o piratesche, e quasi tutti convertitisi in età adulta. Non prenderemo in considerazione, nel presente lavoro, i numerosi bambini cristiani convertiti all'Islam per effetto del devshirmé in quanto la loro conversione, ovviamente forzata, era talmente precoce da non poter esser considerata una vera e propria apostasia.
Anche se molto spesso la religione islamica veniva abbracciata da prigionieri ridotti in schiavitù, un gran numero di rinnegati era costituito da uomini liberi, quasi sempre originari di regioni costiere e quindi con una qualche abitudine al contatto con i barbareschi, che passavano nel mondo musulmano per migliorare le proprie condizioni di vita, per sfuggire a un processo in patria o a una offesa subìta, ma anche solo per curiosità e inquietudine, per il desiderio del nuovo.
La presenza dei rinnegati era segnalata soprattutto nelle grandi città: a Istanbul, dove svolgevano importanti ruoli di mediazione fra le ambasciate, i mercanti cristiani e il mondo ottomano, ma soprattutto nelle capitali della corsa barbaresca, Tunisi e Algeri.
Dalle ricerche riguardanti queste zone, dove senza dubbio si addensava il maggior numero di rinnegati, possiamo ricostruire una periodizzazione del fenomeno, e le caratteristiche etniche che via via esso assunse. L'epoca d'oro dei rinnegati fu il XVI secolo, soprattutto la seconda metà, quando ad Algeri i rinnegati arrivarono a costituire quasi la maggioranza della popolazione. Costoro fruivano di uno status sociale e politico identico a quello dei turchi originari, tanto che venivano designati con l'epiteto «turchi di professione», cioè divenuti turchi per aver professato la religione musulmana.
Dopo la morte di Keir el din (Barbarossa), fondatore della reggenza di Algeri nel 1518, i rinnegati occuparono fino alla fine del secolo la carica di Reggente: il sardo Hassan Agà (1535-1543), poi Hassan Corso, seguito, dal 1568 al 1571, dal rinnegato calabrese Euldì Ali, che finirà la sua carriera come Grande ammiraglio della flotta ottomana. A fine secolo il potere fu tenuto da Hassan Veneziano, e pure rinnegati erano la maggioranza dei rais che comandavano le navi da corsa, e i caid (governatori) dei territori interni. Scrive Haedo che nei rinnegati «réside presque tout le pouvoir, l'influence, le gouvernement et la richesse d'Alger e de cette Régence»[5]. In questa fase prevalgono nettamente gli italiani: su 22 rais rinnegati citati da Haedo, 6 sono genovesi, 1 calabrese, 1 siciliano, 1 napoletano, 2 veneziani, 1 corso, 2 albanesi, 3 greci, 1 ungherese, 2 spagnoli, 1 francese e 1 ebreo algerino.
Nel secolo seguente i rinnegati, un po' meno numerosi - padre Dan, nel 1634, non ne conta più di 9.000 - si impegnano soprattutto nelle attività marittime, da cui continuano a trarre immense ricchezze, ma non occupano più alte cariche di stato, con l'eccezione significativa del ligure Osta Morato, che divenne bey di Tunisi nel 1637, grazie agli intrighi orditi da un altro rinnegato, in seguito fatto giustiziare, Mamy Ferrarese. Osta Morato - caso eccezionale - riuscì a trasmettere il potere al figlio Mohammed, dando origine alla dinastia dei bey Mouraditi che mantenne il potere fino al 1702[6].
La comunità dei rinnegati aveva bisogno di continui apporti esterni, dal momento che il loro status non si trasmetteva ai figli, chiamati Kouloughli, che costituivano una sorta di casta intermedia fra i turchi e gli abitanti originari del paese, titolari di privilegi inferiori.
La diminuzione del numero dei rinnegati a cominciare dal '600 dipende da molti fattori, sia economici - la decadenza dei traffici mediterranei, con la conseguente diminuzione del numero dei prigionieri - che politici: un qualche ruolo dovette averlo anche la presenza attiva in Barberìa di ordini religiosi istituiti con lo scopo di provvedere al riscatto dei prigionieri cristiani dei turchi, come i trinitari e i mercedari. Certamente la loro opera contribuì ad abbassare il numero delle conversioni indotte dalla disperazione. Inoltre, nel XVII secolo, i Sultani cominciarono a occuparsi direttamente dei loro possedimenti africani, inviando in qualità di reggenti pascia che appartenevano alla loro corte.
I rinnegati continuarono comunque ad esercitare un ruolo occulto molto importante grazie alle ricchezze accumulate, come Alì Piccinino, di origine veneziana, che dal 1638 al 1645 fu considerato il vero padrone di Algeri[7].
Il loro declino si accentua nel secolo seguente, a causa della decadenza complessiva delle attività legate alla corsa: i rinnegati sono ora relegati nella mediocrità, a svolgere modeste attività artigianali, come constata Peyssonnel: «Aujourd'hui ils sont misérables à Alger où, comme dans toute la Turquie, on n'a de considération pour les renégats qu'autant qu'ils ont du rnérite»[8]. L'unica eccezione è costituita da personaggi celebri che passano all'Islam clamorosamente, per vendetta o per disgusto della società cristiana, come il più celebre rinnegato del XVIII secolo, il conte di Bonneval, aristocratico francese che approda a Istanbul - dove viene nominato comandante dell'esercito - dopo avere combattuto valorosamente per anni a fianco di Eugenio di Savoia[9].
Mentre i rinnegati di origine mediterranea non apportavano alla tecnica navale dei barbareschi sostanziali innovazioni, e il loro apporto alle attività di razzìa era soprattutto legato alla conoscenza di coste, località e abitudini dei paesi cristiani, a partire dal XVII secolo la presenza di rinnegati di origine nordica - soprattutto fiamminghi e inglesi, i cosiddetti «ponentini» - permise invece di realizzare importanti innovazioni nelle tecniche di navigazione. Il padre Dan riprende la notizia leggendaria secondo cui il corsaro fiammingo Simon Dansa avrebbe introdotto ad Algeri, fra il 1606 e il 1609, l'uso dei velieri in grado di affrontare l'oceano e di navigare anche d'inverno, al posto delle galere. Proprietario di una squadra di tre o quattro velieri, in tre anni egli riportò ad Algeri quaranta legni depredati, e il suo esempio fu contagioso. A Tunisi l'inglese Ward si comportò in modo analogo.
Grazie all'apporto di questi rinnegati «ponentini», che permettevano di estendere le zone di intervento all'Atlantico, e quindi attaccare i nuovi circuiti commerciali americani, la corsa barbaresca conobbe una prosperità insperata. Ma nella seconda metà del XVII secolo questi nordici - che preferiscono la più lucrosa pirateria delle Antille - cominciano a essere sostituiti da turchi d'origine.
I rinnegati potevano costituire un gruppo di pressione politica compatto - come a Tripoli, dove si erano impadroniti del potere a detrimento dei turchi - ma più spesso si dividevano in clan rivali, in base alle origini etniche. Questi clan avevano bisogno di ingrossare continuamente le loro file: i rinnegati erano dunque indotti a convincere - o a costringere - all'apostasia i loro compatrioti. Il proselitismo fra i cristiani era opera loro, più che dei turchi, e le motivazioni erano più politiche che religiose.
Se i cristiani erano così fortemente attratti - e in alcuni casi anche costretti - a passare nelle file dei musulmani, avveniva anche un passaggio inverso dei sudditi ottomani verso la religione del Vangelo? Se si guarda all'esterno dell'impero ottomano la risposta deve essere assolutamente negativa. Anche se nelle città cristiane del Mediterraneo non mancavano gli schiavi musulmani, non veniva fatta nessuna pressione per convertirli: in primo luogo per motivi economici, dato che la conversione avrebbe aperto l'imbarazzante problema di un cristiano schiavo, e quindi si sarebbe dovuto procedere alla sua liberazione; in secondo luogo, perché era più fruttuoso tenerli disponibili ad un ritorno in Oriente, come moneta di scambio con schiavi cristiani.
I pochi casi di conversione di schiavi musulmani, che presupponevano un padrone particolarmente generoso e devoto, venivano festeggiati con grande pompa, per sottolineare sia l'eccezionalità del caso che la virtù del padrone. La conversione di due schiavi del conte Silvio di Porcia e Bruguera, subito dopo la battaglia di Lepanto - quasi una forma di festeggiamento del fausto evento - sarà occasione per una celebrazione solenne:
il Reverendo Vescovo li battezzerà lui - scrive il conte alla moglie - sì che faremo questa santa opera e credo si farà solenne. Bisogna che li vestisca tutti dui di bianco, che così si dice esser il solito. Compari saranno li clarissimi Rettori. Et quella mattina io voglio dar da desinar al Rev. Vescovo di Bergamo e al Vescovo di Traù che si ritrova qui: al clarissimo podestà, al clarissimo capitanio, al magnifico camerlengo, alla sua corte et a alcuni getiluomini della città, che saranno in tutto da quaranta a tavola. E vero che io farò una spesa di 25 a 30 ducati, ma con onor mio non posso certo far di mancho: et perciò io l'andava slungando, ma tutta questa città lo desidera e io sono molto tenuto et obbligato in generale et in particolare a tutta questa magnifica città e di lasciar questa memoria, perché concorrerà tutta la città e parte del territorio a questo battesimo[10].
Il Collegio dei Neofiti, istituito a Roma nel 1543 da Paolo III, che nel disegno originario avrebbe dovuto ospitare per due terzi convertiti dall'ebraismo e per un terzo dall'Islam, non incontrò grande fortuna, tanto che qualche decennio dopo - scarseggiando i neofiti veri e propri - si convenne di aprirlo anche ai cristiani delle chiese orientali dissidenti[11].
Nei territori dell'impero turco, invece, nonostante le conversioni al cristianesimo fossero punibili con la pena capitale, i viaggiatori occidentali portano spesso notizie - talora mirabolanti fino all'inverosimile - di convertiti segreti o, almeno, di simpatizzanti. L'umanista francese Guillaume Postel, a Istanbul nel 1536, sostiene di aver saputo da un dotto musulmano che «il y a plus de 300.000 hommes dans cette ville et à la Cour qui sont maintenant convertis comme moi depuis le temps où Selim, le père de notre seigneur Soliman, avait permis à chacun de prêcher sa religion publiquement, et nous ne sommes pas les seuls, mais chaque jour bien des autres se convertissent dans tout le royaumes»[12].
Si narrava anche di cinquanta e più dotti che, al quesito posto loro dal Sultano su quale fosse la miglior religione, avessero risposto la fede cristiana e fossero stati giustiziati per non avere ritrattato la loro affermazione[13]. Anche da parte delle fonti islamiche si segnalano, fra il 1527 e il 1545, a sette riprese, processi centrati su sospette simpatie cristiane: si può ipotizzare che si trattasse di correnti cristianizzanti di tipo eretico che gli osservatori cristiani, scambiando il desiderio per realtà, assimilassero a cripto-convertiti.
Bisogna ricordare inoltre che l'accusa di cripto-cristianesimo poteva venire usata per screditare un individuo, come nel caso di uno sceicco, sospettato di essere sciita e mago, presso cui si trovò «del vino in alcune bottiglie, una cintura da monaco e il Vangelo dei cristiani»[14].
Uno dei rari casi di conversione al cristianesimo è documentato dai carmelitani scalzi di Aleppo nel 1623: Kamar, una giovane musulmana che viveva in un quartiere cristiano della città, morto il padre giannizzero, decide di convertirsi. Con il nome di Padrie (in omaggio al suo nuovo padre, il carmelitano che l'ha convertita) viene sistemata come domestica in una casa armena, perché la madre l'aveva cacciata da casa. Dopo avere resistito per un po' ai tentativi della madre di farla rientrare in famiglia, combinandole un matrimonio con un giannizzero, essa finisce però per cedere e vivere così come una cristiana clandestina, dalle apparenze maomettane[15]. Il suo caso costituisce un'ulteriore testimonianza dell'eccezionalità delle conversioni, e soprattutto della difficoltà a mantenerle nel lungo periodo.
Più che di vere tendenze cristiane, si trattava spesso, nelle popolazioni ottomane, di una spiccata propensione al sincretismo religioso, che non esitava ad accogliere gli elementi dottrinali più diversi e a fonderli in un insieme originale. Potevano quindi venire venerate figure la cui identità religiosa era mal definita, come il celebre eroe dell'epopea turca, Sari Saltik, molto simile a san Giorgio, oppure il culto di Lele Marien (ricordata nel Don Chisciotte) che era simile a quello mariano. I membri di una delle più famose tarikat (confraternite) turche, le Bektashi, apparivano ai fedeli sotto forma di Gesù: un'altra conferma che la nozione di frontiere religiose ermetiche e esclusive, varianti dell'identità di gruppo, è una nozione da rivedere.
Alcuni viaggiatori occidentali rimasero colpiti dallo scoprire che nei territori ottomani esistevano chiese adibite al tempo stesso ai due culti, cristiano e musulmano: S. Giorgio a Lida, in Medio Oriente; S. Giovanni a Sebaste, in Palestina; S. Caterina sul Sinai; Nostra Signora del Buonconsiglio a Scutari, in Albania[16].
Abbiamo detto, però, che esisteva una differenza di comportamento molto spiccata fra i cristiani e i musulmani: mentre questi ultimi si decidevano molto difficilmente alla conversione, pur accettando prestiti rituali e teorici dalla cultura cristiana, i cristiani, meno portati al sincretismo, erano più facilmente inclini all'apostasia.
Note al testo
[1] S. Bono, I corsari barbareschi, ERI, Torino 1964; L. Rostagno, Mi faccio turco, Istituto per l'Oriente, Roma 1983; L. e B. Bennassar, I Cristiani di Allah, Rizzoli, Milano 1991.
[2] D. De Haedo, Topographia e historia general de Argel, Valladolid 1612.
[3] R.P.Fr.P. Dan, Histoire de Barbarie et des Corsaires, des Royaumes et des villes d'Alger, de Tunis, de Salé et de Tripoly, Paris 1649.
[4] G.B. Salvago, Africa ovvero Barbaria, Relazione al Doge di Venezia sulle Reggenze di Algeri e Tunisi, Padova 1937, p. 77.
[5] D. De Haedo, Topographia e historia cit.
[6] J. Pignon, Osta Morato Turcho Genovese dey di Tunisi (1637-1640), in «Les cahiers de Tunisie», 1955.
[7] P. Boyer, Les Renégats et la marine de la régence d'Alger, in «Revue du Moyen Orient et de la Méditerranée», 39, 1985, 1.
[8] J.A. Peyssonnel, Voyage dans les Régences de Tunis et d'Alger (1724-1725), a cura di L. Valensi, La découverte, Paris 1987, p. 197.
[9] Sul marchese di Bonneval vedi A. Vandal, Le pacha Bonneval, Paris 1885, e le memorie apocrife, in 5 volumi, Losanna 1740-1755, e Mémoire sur le comte de Bonneval, pubblicate in Oeuvres du Prience de Ligne, t. I, Bruxelles-Paris 1860.
[10] A. De Pellegrini, Di due turchi schiavi del conte Silvio di Porcia e Bruguera dopo la battaglia di Lepanto, in «Nuovo archivio veneto», 1921.
[11] G. Levi della Vida, Ricerche sulla formazione del più antico fondo dei manoscritti orientali della Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1939, pp. 405-407; vedi anche S. Bono, Schiavi musulmani sulle galere e nei bagni d'Italia dal XVI al XIX sec., in AA.VV., Le genti del mare Mediterraneo, Napoli 1981.
[12] M. Balivet, Chrétiens secrets et martyrs christiques en Islam turco Quelques cas à travers les textes (XIII-XVII siècles), in «Islamochristiana», 16, 1990, p. 93.
[13] Ivi, p. 97.
[14] Ivi, p.107.
[15] B. Heyberger, Les chrétiens d'Alep (Syrie) à travers les récits des conversions des missionaires carmes déchaux (1657/1681), in «Mélanges de l'Ecole Française de Rome - Moyen Age-Temps Modernes», 1, 1988.
[16] H.P. Sthal, Croyances communes des chrétiens et des musulmans balkaniques, in «Buletinul Bibliotecii Romane», voI. VII, Freiburg 1979.