La Sentenza della Corte di Strasburgo. Nozze gay & dintorni, ma il bene decisivo è quello del figli, di Carlo Cardia
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Riprendiamo da Avvenire del 22/7/2015 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (23/7/2015)
Ancora una volta, nello spazio di poche settimane, una pronuncia in materia di unioni civili corre il rischio di essere travisata, e invocata per giungere a un risultato che non è al centro della sua attenzione.
La Corte di Strasburgo, nel censurare l’Italia perché la sua legislazione non tutela «le esigenze fondamentali di una coppia convivente dello stesso sesso impegnata in una relazione stabile», non chiede al nostro legislatore di introdurre il matrimonio gay, conferma anzi quanto più volte ribadito in precedenti pronunce. Il matrimonio per coppie dello stesso sesso non è previsto dall’articolo 12 della Convenzione Europea dei diritti fondamentali del 1950, e gli Stati possono legiferare scegliendo diverse opzioni, perché hanno un margine di apprezzamento in ambito familiare che il giudice europeo non può ignorare.
Anche nella sentenza di ieri si ribadisce questo punto, e si afferma che la violazione riguarda l’articolo 8 della Convenzione del 1950 che tutela la vita privata, aggiungendo che il modo più adeguato per garantire le coppie dello stesso sesso sarebbe quella di riconoscere «un’unione civile o una partnership».
Per completare il quadro, è bene ricordare che la giurisprudenza di Strasburgo è stata nel corso degli anni estremamente oscillante, sostenendo con sentenza del 2001 che il diritto al matrimonio spetta soltanto a persone di diverso sesso, perché «il rifiuto di concedere al convivente omosessuale gli stessi benefici di cui gode il coniuge è giustificato dal legittimo obiettivo di tutela della famiglia fondata sul matrimonio».
Nel 2010, invece, dopo un’evoluzione influenzata da elementi ideologici ha affermato che la Convenzione del 1950 «non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso». La Corte non ha mai spiegato le ragioni di questa inedita "imparzialità" verso l’estensione del matrimonio oltre l’eterosessualità, ma ha tenuto fermo, anche nella sentenza di ieri il riconoscimento del diritto degli Stati di legiferare in questa materia, e sottolineando che debbono essere tutelati i diritti anche delle coppie non eterosessuali.
Si apre sempre più lo spazio per un dibattito serio su un argomento serissimo come quello del matrimonio, della filiazione, dei diritti dei minori. Da tempo, in Italia s’è formata una notevole convergenza sull’esigenza di riconoscere i diritti individuali, e i diritti che nascono nei rapporti tra persone che intendono vivere insieme, anche dello stesso sesso.
Ma l’obiettivo di una parte politica, ispirata acriticamente alle cosiddette "teorie del gender", è un altro: assimilare, a volte esplicitamente, altre volte con accorgimenti tecnico-giuridici o escamotage lessicali, la convivenza gay al matrimonio, con l’inevitabile conseguenza di aprire la strada all’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali.
Questo è lo snodo, il punto di non ritorno – che nulla ha a che vedere con la sentenza di Strasburgo – che porterebbe l’ordinamento a negare i più elementari diritti riconosciuti solennemente dalle Carte internazionali dei diritti umani e dalla Convenzione europea del 1950 in materia di paternità e maternità, e allo stravolgimento del concetto stesso di famiglia.
La debolezza delle ragioni di chi sostiene l’obiettivo è così evidente che lo si vuole nascondere, la gravità delle sue conseguenze è così grande che non se ne vuole nemmeno parlare. Invece se ne deve discutere, guardando alla realtà. Una società che nega al bambino che nasce il calore del corpo e dell’abbraccio della madre, perché in casa ci sono due padri, o nega programmaticamente la presenza e la sicurezza della figura paterna, è una società malata, che emargina la maternità e la paternità a un ruolo secondario nella vita delle persone, che viola quel diritto alla doppia genitorialità che è la culla di tutti i diritti, la base per una crescita armonica della personalità, il presupposto per poter fruire di tanti altri diritti che la società del Novecento ha riconosciuto quando ha combattuto contro tutti i totalitarismi e tutti gli egoismi.
Stiamo parlando di un argomento che investe la vita intera della persona che nasce, che ha bisogno di tutto, e alla quale non si vuole dare niente, negandogli la madre o il padre. Si tratta di un tema cruciale per il futuro della società, che non può essere affrontato in un orizzonte ideologico, o di sperimentazione antropologica sulle generazioni future, ma attraverso un dibattito al quale dia il proprio contributo ciascuna di quelle tradizioni culturali e religiose che hanno favorito una storia più dolce dell’Italia rispetto ad altri Paesi, che l’hanno resa terra e fonte di un umanesimo che non può rinnegare le proprie basi fondamentali.
Trovare la scusa, oggi di una sentenza, domani di un’altra, anche se estranee al tema specifico, per spingere una riforma legislativa verso sponde estremiste, può sembrare vantaggioso. Ma è più serio e proficuo discutere e impegnarsi per tutelare i diritti dei minori che chiedono alla società di poter conservare un solo grande bene: il diritto di avere un papà e una mamma come tutti i bambini del mondo, di qualunque latitudine, colore, religione, siano.