Il Medioevo e lo sghignazzo, di Franco Cardini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /07 /2015 - 22:20 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 24/8/2012 un articolo di Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (19/7/2015)

Frate e monaca suonano e danzano – miniatura da libro d’ore, 
primo quarto del XIV secolo – Londra, British Library.

Nel Medioevo, sono ancora in molti a pensarlo, c’era poco da ridere. Nel suo “romanzo giallo-parastorico” Il nome della rosa, Premio Strega 1981, Umberto Eco proponeva la costruzione di un mondo “medievale” fondato su forti opposizioni (ortodossia ed eresia, virtù e peccato, libertà e costrizione) e incentrato sulla lotta tra un frate inquisitore e a sua volta inquisito, un francescano pieno di dubbi e di umanità, e un mistico benedettino tutto d’un pezzo, convinto non solo che ufficium monachi est lugere ma che tutto quel che abbia nel mondo a che fare col riso e il ridere sia frutto della contaminazione diabolica e che per questo anche le opere delle auctoritates antiche, se e quando parlano del riso e del ridere, vadano occultate e distrutte a qualunque costo: anche a quello di uccidere.

Con il terribile monaco Jorge da Burgos, sembra nelle pagine di Eco che sia l’intero Medioevo verticale e teologico, dogmatico e reazionario a venir condannato in quanto radice di un modo pauroso e irrazionale di concepire il cosmo e la cultura: evidentemente contrapposto alla libertà del quale è paladino Guglielmo da Baskerville, trasparente pseudonimo di un Guglielmo d’Occam promosso a promotore e profeta della Modernità.

Sembra proprio che l’illustre semiologo alessandrino, del resto profondo conoscitore dei testi medievali (eccellente il suo giovanile studio sull’estetica in Tommaso d’Aquino), nel suo primo romanzo di successo s’ispirasse in fondo a un Sessantotto forse non ancor troppo metabolizzato - né da lui né, del resto, da altri -, quello che si riassumeva nello slogan postgoliardico-maoista «Una risata vi seppellirà».

In realtà le cose non stavano proprio così. Nell’austero e “buio” Medioevo si rideva eccome. Molti studiosi hanno proposto un Medioevo faceto, allegro, ridanciano, magari perfino scollacciato, del quale i testi ci lasciano molte e inequivocabili memorie. Il ridere e il riso disponevano (e del resto dispongono ancora) di un campo semantico tanto ampio quanto ambiguo: da un paesaggio che può essere “ridente” e come tale ispirare un misto di serenità e di commozione, a un essere umano o un animale o a una situazione che, visti come “ridicoli” da chi li osserva, sono in sé penosi quando non addirittura tragici; dal dolce o suadente “sorriso”, che può essere strumento di consolazione ma anche di tentazione, all’aperta e liberatoria “risata” che però può sconfinare nella minaccia o, appunto, nell’“irrisione” e nella “derisione”; e confinavano (confinano) con altri campi semantici, dall’allegria alla facezia all’espressione esterna di un mutamento nell’equilibrio di quegli “umori” – il sangue, lo sperma, la bile gialla, la bile nera – che presiedevano alla vita fisiologica dell’uomo (da qui il termine “umorismo”) allo stesso “divertimento” inteso come qualcosa che induce a “divergere” da più serie e importanti cure.

Dalla tradizione antica, ispirata alla Bibbia e ai classici, i dotti del Medioevo traevano la conclusione che vi erano un ridere buono e uno cattivo; il sorriso di Dio, di Maria e degli angeli e lo sghignazzare scomposto dei demoni; che vi fossero modi, tempi e luoghi in cui il ridere era positivo e salutare e altri in cui era illecito e diabolico. Del resto, analogo statuto riguardava il contrario del riso, il pianto. Ma siamo poi sicuri che riso e pianto siano due opposti? Non si dice forse “ridere fino alle lacrime”? Del riso e del ridere discute spesso Dante Alighieri, al quale dobbiamo questa splendida definizione: «E che è ridere se non una corruscazione de la dilettazione de l’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro?» (Convivio III, VIII, 11). Questo subitaneo risplendere (la “corruscazione”) di uno stato d’animo già positivamente predisposto (la “dilettazione”) poteva evidentemente dipendere da un’innata inclinazione dell’animo, secondo gli influssi delle costellazioni e dei pianeti.

Metodo privilegiato dell’arte del far ridere, del provocare un riso consolatorio o liberatorio, era quello di servirsi di parole e mezzi inattesi: ad esempio pronte e facete risposte che potevano risolvere una situazione magari pericolosa o penosa. Si tratta spesso di vere e proprie barzellette come quella, riferita nella piccola raccolta duecentesca italiana detta Il Novellino, di un giullare con il quale amava intrattenersi il terribile - ma intelligente - capo ghibellino Ezzelino III da Romano, il quale tormentava di continuo il suo povero cortigiano chiedendogli di raccontare delle storie. Avendo esaurito il repertorio ed essendo inoltre stanchissimo, una notte il pover’uomo arrivò a descrivere al suo signore un lungo gregge di pecore che guadava un fiume: e, sul più bello del racconto, si addormentò. Ezzelino ovviamente lo pungolò, indispettito, incitandolo a proseguire il racconto; al che l’assonnato giullare rispose, forse sbadigliando: «Abbiate pazienza, messere; date alle pecore il tempo di passare il fiume, poi continueremo». La storia non lo dice, ma forse Ezzelino dette in una gran risata e lo lasciò riposare.

In maniera non diversa dovette comportarsi un aristocratico fiorentino del Trecento, Currado Gianfigliazzi, che secondo il Decameron di Giovanni Boccaccio - un altro formidabile narratore di storielle divertenti - era un cacciatore instancabile e un divoratore di selvaggina. Il Gianfigliazzi amava cacciare uccelli con l’arco nelle paludi a occidente di Firenze, quelle di Peretola (dove oggi sorge l’aeroporto): e in particolare era ghiotto di gru, animale ormai quasi estinto e quindi protetto ma che allora letteralmente infestava le aree umide e ristagnanti. La gru è un trampoliere, di razza simile alla cicogna, e le sue carni – anche adeguatamente frollate - risulterebbero per noi immangiabili. Ma la gente del Medioevo aveva gusti diversi dai nostri. Una volta, presa una gru bella grassa, il Gianfigliazzi dispose che gli venisse preparata per pranzo: ma Chichibio aveva una tresca con una servetta della medesima casa, e cedette alle sue insistenti richieste di farle assaggiare il manicaretto spiccando dalla carcassa del volatile una coscia ben arrostita. Ira del padrone di casa che, vistasi servire una gru provvista d’una sola coscia, ne chiede conto a Chichibio (può darsi che la scena abbia ispirato il Da Ponte per l’atto terzo del libretto del Don Giovanni di Mozart): il quale spudoratamente, ma prontamente, risponde che è normale, poiché tutti sanno che le gru hanno una zampa sola. Messer Currado, ormai furibondo e deciso a punire l’insolente, replica freddamente: «Vedremo». Il giorno dopo, nuova battuta di caccia a Peretola; si avvista un gruppetto di gru in pacifica posizione di riposo: cioè, secondo l’uso dei trampolieri, ben dritte su una sola zampa: «Che vi dicevo?», chiede trionfante Chichibio; «Sta’ a vedere», risponde Currado: e, battendo le mani, lancia uno stentoreo «Oh! Oh!». Spaventati, i volatili posano subito a terra la seconda zampa e s’innalzano rapide in volo. «E allora, cialtrone?», chiede il Gianfigliazzi al famiglio; «Ebbene, messere, ma a quella di ieri voi non avete gridato “Oh! Oh!”», replica pronto Chichibio. Come si fa a non perdonargli?

Ma il ridere e il far ridere sconfinano spesso, nel Medioevo come oggi, nella crudeltà. Anch’essa è una dimensione dell’umorismo: la più tragica, forse. È sempre dal Quattrocento fiorentino che ci arriva la Novella del Grasso legnaiuolo, scritta da Antonio Manetti e corrispondente a uno scherzo - probabilmente, ohimè, autentico - architettato nientemeno che da Filippo Brunelleschi ai danni di un certo legnaiolo, detto il Grasso, per punirlo di un piccolo sgarbo (una cena mancata). Messer Filippo e i suoi amici, quindi, si accordano per far in modo che il Grasso creda di aver mutato identità e di esser diventato un certo Matteo. Il poveretto, vittima di una fitta rete di conoscenti complici di Filippo e di banali circostanze, finisce addirittura in carcere e viene quindi addormentato con l’oppio (anche il Boccaccio aveva adottato uno stratagemma simile per far sì che uno dei suoi personaggi credesse addirittura di essere morto e finito in Purgatorio) e quindi ricondotto a casa. Ma il Grasso, risvegliatosi e incerto sulla natura reale o onirica della sua sconvolgente esperienza, resterà sconvolto per il resto dei suoi giorni. C’è un fondo crudele, amaro, violento in questo tipo di umorismo, destinato a ispirare scrittori e psicanalisti.

La Novella del Grasso legnaiolo avrebbe dato ispirazione circa mezzo millennio più tardi, in un clima di esaltazione per tutto quel che aveva significato il Quattrocento fiorentino, a Sem Benelli per un complesso e lambiccato dramma teatrale, La cena delle beffe, ispirato a un complesso gioco di amori e di vendette. Rappresentato per la prima volta a Roma nel 1909, il lavoro del Benelli divenne un successo mondiale e ispirò addirittura un’opera lirica di Umberto Giordano nel ’24 e un film di Alessandro Blasetti nel ’41. Ma in quella cruda storia di violenza e di perfidia l’iniziale occasione faceta si perde. Lì, c’è davvero poco da ridere.