Romano Guardini a Berlino. Appunti di Andrea Lonardo 2/ Romano Guardini, di Maria Virginia Geremia Borruso 3/ Romano Guardini, uno dei maestri della Rosa Bianca, di Silvano Zucal
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1/ Romano Guardini a Berlino. Appunti di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Sui luoghi di Romano Guardini, vedi anche Romano Guardini sepolto nella chiesa di San Ludovico a Monaco di Baviera (Ludwigskirche): il filosofo fu allontanato nel 1939 dalla cattedra di Katholische Weltanschauung dai nazisti. Breve nota di Andrea Lonardo da Wikipedia.
Il Centro culturale Gli scritti (7/6/2015)
Romano Guardini giunse a Berlino nell’estate 1923. A quel tempo Berlino era, dopo New York e Londra, la città più grande del mondo.
Vi giunse perché chiamato ad insegnare nella Facoltà di Filosofia dell’Università berlinese che si chiamava allora Friedrich-Wilhelms-Universität - prese il nome di Humboldt-Universität dopo la guerra.
Guardini venne chiamato al nuovo incarico dal ministro dell'Istruzione C.H. Becker che, nella prospettiva di dare nuovi spazi al mondo cattolico, gli affidò l'allora istituita cattedra di "Katholische Weltanschauung".
All’interno dell’Università venne subito osteggiato in quanto cattolico, ma riuscì con uno stile teso a non suscitare polemiche, a trovare la sua via per esprimere in modo chiaro ed energico la visione della fede cattolica senza incentivare il clima culturale conflittuale dell’Università berlinese a maggioranza protestante.
Strinse amicizia con Mies van der Rohe e con Werner Jaeger, il celebre autore di Paideia.
Guardini - come egli stesso racconta - si preparava alle lezioni presso la Biblioteca di Stato, la Deutsche Staatsbibliothek in Unter den Linden (fino al 1913 la sede della biblioteca era nell’attuale Alte Bibliothek, detta Kommode - comò - per la sua forma, ma ai tempi di Guardini la biblioteca era già nella nuova sede).
Raggiungeva dalla biblioteca l’aula delle lezioni – un suo alunno ricorda in particolare l’Aula 241 al III piano.
Insegnò anche presso la Lessing-Hochschule, in un’aula che affacciava sulla piazza Lützow, ma queste lezioni erano dedicate a studenti più adulti che non frequentavano il regolare corso universitario.
Celebrava la messa presso la Cappella di S. Benedetto in Schlüterstrasse 72 e presso la Cappella della Scuola sociale Femminile. In particolare nella Cappella di S. Benedetto, per le caratteristiche del luogo, cominciò a celebrare rivolto al popolo. Terminata la celebrazione tornava a casa e dettava la predica, poi usciva a passeggio con il cane. Da queste omelie ebbe i primi inizi il volume Il Signore, che maturò anche con le prediche tenute al Grunewald e al castello di Rothenfels.
Giunto a Berlino, Guardini abitò prima a Potsdam, presso le suore Borromee nella Zimmerstrasse. Racconta lui stesso che amava passeggiare al castello di Sanssouci.
Dalla prima abitazione a Potsdam, si trasferì poi a Zehlendorf, poi a Eichkamp, poi a Grunewald, ed, infine, a Charlottenburg, in Sophienstrasse 4 (Straße des 17. Juni 152), dove acquistò una casa ed iniziarono i lavori di ristrutturazione. I traslochi, però, continuarono a Schlachtensee, a Chamberlainstrasse 50, ed infine nell’odierna Niklasstrasse.
Nel 1939 gli venne vietato l’insegnamento, perché l’unica “visione della vita” che andava insegnata era quella nazista. Nello stesso anno venne requisito il castello di Rothenfels dove si tenevano gli incontri del movimento giovanile cattolico di cui era assistente spirituale (Quickborn).
Guardini racconta che un giorno, nei mesi che seguirono l’interdizione dall’insegnamento, si fosse domandato dinanzi al Monumento a Wilhelm von Humboldt dell’Università: «Come è stato umanamente possibile?».
Gli fu possibile tenere ancora qualche predicazione presso la chiesa di San Canisio, dei Gesuiti di Charlottenburg, e presso la Lega cattolica Femminile di Berlino, in Witzlebenstraße 30. Fra l’altro da questi incontri nacquero anche le riflessioni che confluirono poi ne I Novissimi e in Conoscenza di fede. Nel 1943 ci fu la sua presa di posizione pubblica su Libertà, grazia, destino a Greifswald.
Nello stesso anno, mentre si accrescevano i bombardamenti su Berlino, si trasferì a Mooshausen per ragioni di sicurezza.
2/ Romano Guardini, di Maria Virginia Geremia Borruso
Riprendiamo sul nostro sito la voce GUARDINI, Romano, scritta da Maria Virginia Geremia Borruso per ilDizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003) e disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/6/2015)
GUARDINI, Romano. - Nacque a Verona, il 17 febbr. 1885, da Romano Tullo e da Paola Maria Berardinelli, entrambi appartenenti ad agiate famiglie di commercianti. Un anno dopo la nascita del G. i genitori si trasferirono a Magonza, per gestirvi una filiale della ditta di famiglia; nel 1910, inoltre, il padre vi venne nominato console d'Italia.
Oltre al G. la famiglia era composta da altri tre figli: Gino, Mario e Aleardo. Durante l'infanzia e l'adolescenza il rapporto del G. con i fratelli fu molto stretto; le scelte successive, diverse dalle aspettative familiari, operarono nel senso di un progressivo distacco dai suoi. Inoltre i genitori erano molto legati all'Italia; la madre, che proveniva dalle terre "irredente", non si era mai ben ambientata in Germania: in famiglia si parlava sempre italiano, le vacanze si passavano nella casa dei nonni paterni a Colognola ai Colli. Quando il G., nel 1911, decise di prendere la cittadinanza tedesca, fu una decisione sofferta, contrastata dai genitori.
Nel 1903, terminati con ottimi risultati gli studi secondari, il giovane G. si iscrisse alla facoltà di chimica nell'Università di Tubinga, per poi passare, nel 1905, a quella di scienze politiche a Monaco.
Sebbene egli non si appassionasse neppure a questi studi, il periodo trascorso a Monaco gli servì per ampliare la sfera dei suoi interessi: seguì, infatti, lezioni di logica, gnoseologia e psicologia, e frequentò i circoli artistici e culturali della città.
Già nel 1906 il G. si trasferì a Berlino, dove seguì corsi di filosofia con G. Simmel e di storia dell'arte, giungendo alla consapevolezza che le precedenti scelte non corrispondevano né ai suoi interessi né alle sue capacità; in questo periodo, inoltre, si chiarì la sua vocazione sacerdotale; consultò allora un teologo di Magonza, residente a Berlino, che lo confermò ulteriormente nella sua decisione. Invece di entrare subito in seminario, chiese di poter continuare gli studi e, nell'estate del 1906, si iscrisse all'Università di Friburgo, passando, subito dopo, alla più moderna Università teologica di Tubinga.
Qui venne in contatto con la profonda crisi aperta nella Chiesa dal modernismo; il suo professore di teologia dogmatica, W. Koch, venne privato della cattedra per sospette simpatie moderniste. Il giovane G. fu sicuramente scosso dalla controversia modernista e, pur vedendo i limiti del movimento, ne comprese l'anelito di rinnovamento, il tentativo di superare la divisione che si era creata tra la cultura ecclesiastica ufficiale e il moderno pensiero scientifico.
Nell'ottobre del 1908, il G. entrò in seminario a Magonza e il 28 maggio 1910 ricevette gli ordini nel duomo della città.
Seguirono anni di ministero pastorale come cappellano a Heppenheim an der Bergstrasse, a Darmstadt, a Worms e, infine, a Magonza. Questi frequenti cambiamenti implicarono anche impegni di diverso tipo, come coadiutore, insegnante e cappellano, e furono molto faticosi per il G., sia sul piano fisico (fu sempre piuttosto cagionevole di salute), sia sul piano psicologico e spirituale.
Soprattutto del periodo passato a Magonza, nella chiesa di S. Cristoforo, conservò un ricordo negativo, tanto da definire la città come roccaforte del bigottismo; negli anni di preparazione al sacerdozio, il G. era entrato in contatto, nell'abbazia di Beuron, con il movimento di rinnovamento liturgico e ne era stato fortemente influenzato, tanto da sentirsi molto a disagio di fronte agli atteggiamenti di ottuso clericalismo di alcuni ambienti della sua città.
Nell'ottobre del 1912, anche a causa di queste difficoltà, chiese l'esenzione dall'attività pastorale e ottenne di poter continuare gli studi universitari a Friburgo. Si laureò nel 1915, con una dissertazione sul tema della dottrina della redenzione in Bonaventura.
La stesura del lavoro si prolungò più del previsto, perché l'autore, poco interessato alle parti storiche, di cui peraltro gli fu richiesto di trattare, voleva applicare al tema della redenzione in Bonaventura i principî della sua teoria della opposizione polare, che aveva cominciato a elaborare già dal 1905 e che, nel 1912, trovarono la loro prima stesura (ed. definitiva Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Magonza 1925).
Il 1915 fu un anno molto difficile per la famiglia Guardini: l'Italia era sul punto di entrare in guerra e il padre dovette lasciare in tutta fretta la Germania per rifugiarsi in Svizzera da dove cercò di mantenere i contatti commerciali con la sua azienda; due fratelli prestarono servizio militare in Italia. Il G., costretto a occuparsi delle cose di famiglia, dovette poi svolgere, dall'autunno del 1916 alla primavera del 1918, il suo servizio militare come infermiere nell'esercito tedesco. Intanto, già dall'agosto del 1915, gli era stata affidata la direzione dell'organizzazione giovanile Juventus, che era stata fondata nel 1890 in sostituzione della Congregazione mariana, vietata durante il Kulturkampf.
Vi si radunavano i giovani studenti cattolici di Magonza e, inizialmente, aveva la forma rigida delle organizzazioni ecclesiastiche per la cura della gioventù. Sotto la guida del G. il movimento si aprì al dialogo e all'impegno personale, ma la modernità dei suoi metodi destò preoccupazione nelle autorità ecclesiastiche che, in seguito, non lo vollero come insegnante in seminario.
Dal 1920 al 1922 fu all'Università di Bonn, dove prese la libera docenza con una tesi su Bonaventura (pubblicata nel 1964) e iniziò la carriera accademica. Questo periodo fu molto importante per la formazione del suo pensiero; il G. venne, infatti, in contatto con il circolo di M. Scheler e conobbe e frequentò M. Buber.
Nel 1920, durante la Pasqua, lo stesso sacerdote che lo aveva chiamato alla direzione della Juventus lo invitò al castello di Rothenfels, dove si riunivano i partecipanti al movimento giovanile Quickborn (Fonte viva) che, sorto nel 1913, si era sviluppato fino ad arrivare, nel 1917, a quasi 7000 iscritti, avendo peraltro ottenuto di porre la propria sede appunto nel vecchio castello di Rothenfels. Dopo quest'incontro, l'impegno nel movimento giovanile fu prioritario nella vita del G., che per un periodo sospese anche l'attività accademica, appena iniziata all'Università di Bonn; dal 1927 fu direttore spirituale del movimento sia negli incontri che si tenevano al castello, sia nella conduzione della rivista Schildgenossen.
Rothenfels divenne un importante centro culturale e spirituale per la gioventù cattolica e anticipò di quasi mezzo secolo alcuni degli sviluppi del concilio Vaticano II. Un suo limite, riconosciuto in seguito dallo stesso G., fu la carenza di impegno nella formazione politica che, se durante gli anni della Repubblica di Weimar dette luogo ad atteggiamenti antipartitici e antidemocratici, con l'avvento del nazionalsocialismo impedì pure l'immediata consapevolezza dei rischi gravissimi insiti nelle dottrine naziste. In ogni caso, la convivenza del movimento con il nazismo fu molto difficile: fin dal 1933 subì una serie di restrizioni e infine, nel 1939, il castello venne occupato e requisito dalla Gestapo.
Nel 1923 il G. aveva ripreso l'insegnamento universitario, questa volta su chiamata del ministro dell'Istruzione C.H. Becker che, nella prospettiva di dare nuovi spazi al mondo cattolico, gli aveva affidato, all'Università di Berlino, l'allora istituita cattedra di "Katholische Weltanschauung". Il G. ebbe notevoli difficoltà a inserirsi in un'università prevalentemente protestante, che manifestò sempre un atteggiamento di rifiuto e di disinteresse verso il suo insegnamento. Ulteriori difficoltà incontrò, poi, nel definire la materia del corso.
Importante, a questo riguardo, fu il suggerimento di M. Scheler di partire dal commento a testi della cultura occidentale per spiegare il punto di vista cristiano; non lezioni sistematiche, dunque, ma incontri con figure della storia, della cultura, della letteratura, per farne emergere le aspirazioni della loro epoca e confrontarle con il messaggio cristiano. Da queste lezioni sarebbero nati scritti su Socrate, Agostino, Dante e corsi monografici su B. Pascal, F. Hölderlin, S. Kierkegaard, F.M. Dostoevskij e R.M. Rilke. Questi corsi attirarono un pubblico sempre più vasto di studenti, cattolici e protestanti, e anche di persone estranee al mondo universitario.
Nel 1939 la cattedra venne soppressa dalla polizia nazista e il G. si ritirò volontariamente in pensione. Tentò allora di fondare una specie di università popolare, ma i suoi discorsi, tenuti il secondo martedì di ogni mese nella chiesa dei gesuiti di Berlino, insospettirono la Gestapo che ne impedì lo svolgimento.
Nell'estate del 1943 si rifugiò presso un amico, in una piccola parrocchia dell'Allgau bavarese; là, dopo venti anni di apostolato, ebbe l'occasione di approfondire in solitudine le sue riflessioni sull'esperienza della moderna civiltà europea, considerazioni che vennero sviluppate in due opere: Freiheit, Gnade, Schicksal (Monaco 1948) e Das Ende der Neuzeit (Basilea 1950).
Dopo la guerra, nel 1945, venne istituita, nell'Università di Tubinga, una cattedra ad personam di "Katholische Weltanschauung" che il G. accettò; nel 1948 passò all'Università di Monaco, dove insegnò fino al 1963, molto al di là dei previsti limiti di età. Dopo il suo ritiro intraprese la redazione di una Etica rimasta incompiuta. Nel 1965 Paolo VI gli offrì la porpora cardinalizia, ma il G., ormai ottantenne, la rifiutò.
Il G. morì a Monaco di Baviera il 1° ott. 1968.
Caratteristica del pensiero del G. è l'apertura verso numerosi e specifici problemi del suo tempo, come risulta dalla varietà dei temi che trattò e dall'imponente numero dei suoi scritti (quasi 500 tra libri, articoli, saggi e conferenze). Al centro dell'indagine resta, comunque, la crisi esistenziale e religiosa dell'uomo moderno, che, spezzato il rapporto tra natura e soprannatura, vive nell'angoscia della sua finitudine. Certamente vi è un debito, nella formazione del pensiero del G., verso l'esistenzialismo nella forma in cui si sviluppò in Germania nel primo dopoguerra con la rinascita kierkegaardiana, così come verso il metodo fenomenologico di E. Husserl e di M. Scheler. In queste correnti il G. trovò lo stimolo per tentare di superare l'unilateralità del pensiero moderno, sia nella forma dell'idealismo neo o postkantiano che tutto riduce al soggetto, sia nella forma del positivismo che, attraverso i risultati della scienza e della tecnologia, esalta la potenza dell'uomo e la sua autonomia nel creato. Compito del filosofo è, per il G., cercare di ricostruire su nuove basi l'unificazione del sapere, affinché l'uomo possa riappropriarsi dell'essere nella sua totalità. La sua teoria degli opposti, che, come si è visto, venne definendosi già dal 1914, vuole essere sia metodo del conoscere, sia fondamento di una nuova metafisica. Il principio dell'opposizione polare è un "tentativo per una filosofia del vivente concreto" in cui, attraverso l'oscillazione fra polarità opposte, come unità-pluralità, singolarità-totalità, originalità-regola, immanenza-trascendenza ecc., si renda conto del dinamismo unitario che costituisce la natura dell'essere; ogni polo, infatti, pur opponendosi e distinguendosi dall'altro, ne è allo stesso tempo condizionato. Il destino dell'uomo si compie nella possibilità o di mantenere la vivente unità degli opposti o di distruggerla con la sua libera azione. Gli errori della civiltà moderna nascono dall'unilateralità, dal proposito di annullare un opposto nell'altro, snaturando il movimento polare con lo scambiare gli opposti con i contraddittori (Widersprüche): sono contraddittori il bene e il male, il bello e il brutto, il vero e il falso, e lo spirito tende non già a conciliarli in una sintesi impossibile, ma a negare il male, il falso ecc.; al contrario, la negazione di un opposto porta alla cristallizzazione del movimento e alla snaturalizzazione del concreto.
Il compito che il G., filosofo e teologo, si era prefissato, consisteva, dunque, nell'aiutare l'uomo a ricostruire quell'unità spirituale che si era lacerata nel mondo moderno: determinate le leggi che dominano gli opposti e le metodologie del conoscere in rapporto alla persona intesa nella sua totalità, il G., in altri suoi scritti, indagò sul significato dell'io (Sorge um den Menschen, Würzburg 1958), del mondo (Welt und Person, ibid. 1939) e di Dio (Religion und Offenbarung, ibid. 1958). Di argomento più strettamente religioso è da ricordare Vom Geist der Liturgie (Friburgo 1918), testo di basilare importanza per il rinnovamento liturgico della Chiesa postconciliare.
Per una bibliografia completa delle opere del G. si veda: Bibliographie R. G., a cura della Katholische Akademie in Bayern (compilata da H. Mercker), Paderborn 1978; per la traduzione italiana: Opera omnia, Brescia 1979 ss.
Fonti e Bibl.: H. Kuhn, R. G.: l'uomo e l'opera, Brescia 1963; G. Sommavilla, La filosofia di R. G., Milano 1964; A. Babolin, R. G., filosofo dell'alterità, Padova 1968; H.U. von Balthasar, R. G., riforma dalle origini, Milano 1970; K. Rahner, Pensatore e cristiano. Ricordo di R. G., in Id., Frammenti di spiritualità per il nostro tempo, Brescia 1973; G. Riva, R. G. e la Katholische Weltanschauung, Bologna 1975; R. Gamerro, R. G. filosofo della religione, Milano 1981; P. Chiocchetta, La spiritualità tra Vaticano I e Vaticano II, Roma 1984, ad ind.; G. Faginn, Presentazione e note in R. G.: il significato dell'esistenza, Isola Vicentina 1985; H.B. Gerl, R. G.: la vita e l'opera, Brescia 1988; T. Schreijäck, R. G. (1885-1968). L'opera filosofica, in La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, III, Roma 1995, ad indicem.
3/ Romano Guardini, uno dei maestri della Rosa Bianca, di Silvano Zucal
Riprendiamo dal sito della Cooperativa cattolico-democratica di cultura un testo di Silvano Zucal, pronunciato il 15/5/1995. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/6/2015)
Per tutti noi oggi c’è il rischio tragico di un venir meno, di una eclissi della memoria. Proprio qualche tempo fa in Germania, un giudice con una sentenza scandalosa ha affermato che è perfettamente legittimo negare lo sterminio degli ebrei, questa terribile macchia della coscienza tedesca ed europea. Quando assistiamo a questa eclissi della memoria, quando si rimuove il ricordo che inquieta, tutto può ritornare: anche la violenza più atroce. La pulizia etnica sta del resto riemergendo non come un fantasma, ma come un dato di cronaca e non solo nel lontano Ruanda, ma nell’ex-Jugoslavia, qui alle nostre porte.
Oggi ritorneremo dunque a fare memoria, ricordando i ragazzi della Rosa Bianca, e – dal momento che siamo a Brescia, la città dell’editrice Morcelliana –, ricordando anche il loro Maestro, Romano Guardini, di cui la Morcelliana sta pubblicando tutte le opere, tra cui i due bellissimi testi dedicati proprio ai ragazzi della Rosa Bianca.
Quando la ghigliottina nazista, nel 1943, spezzò le loro vite, Hans Scholl aveva 24 anni, Alexander Schmorell 25 così come Willi Graf, Christoph Probst ne aveva 23 e la ragazza del gruppo, Sophie Scholl, sorella di Hans e studentessa di filosofia e biologia, 21 appena. I ragazzi erano tutti studenti universitari di medicina, inquadrati in una compagnia militare studentesca. Davanti ai giudici del tribunale speciale nazista, si sentirono gettare addosso come massima infamia l’aver «pugnalato alle spalle» l’esercito tedesco, proprio mentre grazie alla magnanimità del Führer potevano continuare a frequentare l’Università, e per giunta con una borsa di studio statale.
Dunque fu davvero una giovane e ardente resistenza quella della Rosa Bianca. E fu anche una breve resistenza, perché nell’azione effettiva del suo nucleo originario durò nemmeno otto mesi, dal giugno 1942 al febbraio 1943. E fu una piccola resistenza, perché produsse complessivamente 6 volantini (di cui i primi quattro stampati in poche centinaia di copie e solo gli ultimi due a tiratura discretamente elevata) e qualche decina di scritte murali contro Hitler.
Quattro aggettivi per definirla: giovane, ardente, breve, piccola resistenza. Forse per questo, nei libri di storia e anche nelle opere specifiche sulla resistenza tedesca, la Rosa Bianca è spesso liquidata in poche righe, come un nobile ma un po’ patetico esperimento di ragazzi di buona famiglia. Insomma, secondo una linea interpretativa pragmatico-realistica (che troviamo esposta nel saggio di Hans Mommsen e nel libro di Christian Petry), la Rosa Bianca sarebbe stata un’avventura giovanilistica e velleitaria, certo una luce accesa nella notte, una pagina straordinariamente poetica, ma di scarso spessore storico.
Giustamente, però, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’arresto dei fratelli Scholl all’Università di Monaco, il Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Richard von Weizsäcker, ha efficacemente confutato queste tesi riduzionistiche, affermando che l’appello al ripristino dell’etica e della legalità – lanciato dai volantini della Rosa Bianca – è in realtà un atto peculiarmente politico.
Ma ci sono perlomeno altre due ragioni per cui la storia della Rosa Bianca merita di essere riletta e analizzata sempre più a fondo, anche in Italia dove è ancora per larga parte sconosciuta.
La prima è metodologica: il valore di una resistenza non si misura sull’efficienza della sua organizzazione e sull’efficacia dei suoi risultati. Se questo fosse il metro di giudizio, che cosa dovremmo dire dei cospiratori del 20 luglio 1944, la cui attività pur giganteggia nelle ricostruzioni dell’opposizione al nazismo in Germania? Non è forse fallito anche quel complotto, che pur disponeva di mezzi organizzativi e finanziari, e di un retroterra politico ben più importanti di quelli degli studenti universitari di Monaco?
La seconda ragione è sostanziale: la Rosa Bianca non può esser valutata solo in base al drammatico epilogo del 18 febbraio 1943 e alle brevi, seppur intense, biografie dei suoi protagonisti. Il gruppo che si era formato attorno ad Hans Scholl e Alexander Schmorell, per quanto fosse di matrice borghese e di ispirazione cristiana, per quanto imbevuto di cultura letteraria e pervaso da inquietudini esistenziali e in certi casi da tensioni mistiche, aveva in realtà un progetto politico. Basta leggere per intero i sei volantini.
Certo che possono apparire ingenui, romantici, a tratti anche retorici. Ma rileggiamo al di là del linguaggio utilizzato, alcuni passaggi chiave.
Dal I volantino: «Ogni singolo, consapevole della propria responsabilità come membro della cultura cristiana e occidentale, deve coscientemente difendersi con tutte le sue forze, opporsi in quest’ultima ora al flagello dell’umanità, al fascismo e ad ogni sistema simile di Stato assoluto. Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate… Non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera!».
Dal II volantino: «Non è ancora troppo tardi per eliminare questo governo, che è il più abominevole e mostruoso di tutti quelli che abbiamo avuto, per non addossarci ancora più colpa. … L’unico ed il più alto dovere, il più santo per ogni tedesco, deve essere quello di sterminare queste belve».
Il III volantino elenca addirittura una serie di azioni di sabotaggio da mettere in atto per intralciare la macchina bellica e intaccare il consenso organizzato dalla propaganda del regime.
E gli ultimi due volantini, proprio a marcare l’esigenza di eliminare ogni equivoco di tipo giovanilistico-romantico, abbandonano lo stesso nome di Rosa Bianca, per definirsi “Volantini del Movimento di resistenza in Germania”.
E sappiamo che, proprio per i giorni immediatamente successivi all’arresto, era stato programmato un appuntamento a Berlino tra Hans Scholl e Falk Harnack, che doveva metterlo in contatto con il circolo Bonhoeffer e, quindi, con gli ambienti più rilevanti della resistenza tedesca.
Dunque erano sì giovani, illusi, ingenui, naïf, ma che comunque non si accontentavano di un “bel gesto”, di una microtestimonianza radicale e profetica: stavano per diventare adulti e lo sarebbe di certo diventata anche la loro resistenza, se Hans e Sophie Scholl non avessero compiuto il fatale azzardo della distribuzione dei volantini dentro l’università, se non avessero alzato il tiro dell’attività clandestina e se la Gestapo, afferrato il filo rosso dei fratelli di Ulm, non l’avesse tirato fino a distruggere un’intera rete di resistenza e complicità.
Si legge nel V volantino: «L’idea imperialista del potere, da qualunque parte essa provenga, deve essere resa innocua per sempre. Un militarismo prussiano non deve più giungere al potere. Solo attraverso un’ampia collaborazione dei popoli europei si può creare una base su cui sarà possibile una costruzione nuova. Ogni potere centralizzato, come quello che lo Stato prussiano ha cercato di instaurare in Germania e in Europa, deve essere soffocato sul nascere». E seguivano le indicazioni di un «sano federalismo» e di un «ragionevole socialismo».
Indubbiamente, aveva qualche ragione il filologo Herder, a cui la Gestapo affidò il compito di tracciare l’identikit dell’autore dei volantini, ancora per poco sconosciuto: non si trattava di un politico con le idee chiare e un programma preciso, bensì di un intellettuale abituato a leggere la Bibbia e i filosofi, incline ad un’enfasi predicatoria. Ma le rivoluzioni ideali non nascono mai da fredde analisi a tavolino, quanto piuttosto da slanci utopici che si incarnano in energie umane reali. «Separatevi in tempo da tutto ciò che è collegato a nazionalsocialismo! Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio di Stati criminali che si fondano sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa», si legge nel quinto volantino, nell’«Appello a tutti i tedeschi».
E allora come si fa a dire che la Rosa Bianca non avesse una strategia politica? Certo, peccò di ingenuità, fece errori di valutazione, dovette soccombere alla sproporzione tra i mezzi e gli obiettivi. Ma non per questo fu meno politica. Come disse il professor Kurt Huber, che fu condannato con i suoi studenti, nella sua apologia davanti al tribunale del popolo: «Mio obiettivo era il risveglio degli ambienti studenteschi, servendomi non di un’organizzazione, ma di semplici parole, per provocare non atti di violenza, ma un giudizio morale sui gravi mali presenti nella vita politica. Il ritorno a principi chiari, morali, allo Stato di diritto, alla fiducia reciproca, non è un atto illegale, ma al contrario il ripristino della legalità».
E c’è forse qualcosa di più politico del ripristino della legalità, della lotta per far rinascere uno Stato di diritto?
Certo, nelle ricostruzioni della Rosa Bianca c’è un altro pericolo di segno opposto in agguato. Quello di lasciarsi conquistare dall’intatta giovinezza dei suoi protagonisti, dalla loro morte coraggiosa, dalle parole così intense e poetiche che hanno lasciato nelle lettere e nei diari, per trasformare una concreta esperienza storica in un contesto atroce come quello della dittatura di Hitler, in una specie di avventura romantica. Non è un caso che, se gli storici hanno per lo più trascurato questa pagina resistenziale, vi si sono dedicati invece numerosi scrittori, giornalisti, registi. Ma dopo aver messo in conto il pericolo di fare della vicenda della Rosa Bianca materiale per un romanzo di azione e commozione, non si può negare (come appare dal bellissimo libro di Paolo Ghezzi) che quella della Rosa Bianca è in sé una storia straordinaria che è, al di qua di ogni stilizzazione retorica e di ogni facile mitologia, resa possibile dall’incontro di forti individualità, che hanno trovato nell’amicizia profonda e nel mistero delle affinità elettive la forza eroica di sfidare il regime della massificazione e dell’annullamento delle personalità. Hanno creduto nella parola perché le parole sono state le loro armi, in un’epoca storica in cui le parole erano state pervertite dalla immane macchina propagandistica del nazionalsocialismo e, come scrissero in un loro volantino, ogni parola che usciva dalla bocca di Hitler era una menzogna. Quando dice pace, vuol dire guerra.
I loro volantini, nella modestia della veste tipografica, nell’appassionato fervore di certi passaggi, diventano così un attentato e un alto tradimento: perché attentano al monopolio della comunicazione e dell’informazione che erano uno dei cardini del sistema nazionalsocialista. Non è da sottovalutare la funzione di “voce alternativa” che intendevano rivestire, come veicolo di notizie altrimenti ufficialmente negate: dallo sterminio degli ebrei in Polonia alla disfatta di Stalingrado, fino alle crescenti difficoltà militari della macchina bellica hitleriana. Non furono i soli strumenti di comunicazione dissidenti, non possono esser dimenticati i volantini dell’opposizione socialista e comunista, soprattutto nei primi anni della dittatura. Ma furono tra le pochissime voci che riuscirono a inquietare le autorità politiche naziste: e non è un caso che proprio un loro volantino fu scelto dagli Alleati per essere lanciato sulle città tedesche da parte degli aerei dell’aeronautica militare inglese insieme alle bombe.
Non sono stati gli unici a sfidare la dittatura, ma sono stati certamente tra i pochi, rispetto alla maggioranza silenziosa che veniva trainata dalla minoranza osannante. All’Università di Monaco i loro compagni di studi festeggiarono il bidello Jakob Schmid, che aveva fatto arrestare i fratelli Scholl, come un eroe, poche ore dopo l’esecuzione della sentenza di morte. Dovette essere uno studente cosiddetto “mezzo-ebreo” che veniva da Amburgo, Hans Leipelt, ad esprimere una concreta solidarietà nei confronti della vedova e degli orfani del professor Huber: e anche Hans Leipelt – che pure non aveva mai conosciuto direttamente gli Scholl e gli altri – pagò con la vita il proprio coraggio.
La storia della Rosa Bianca appartiene al capitolo della Widerstand, termine che in tedesco è una parola di genere maschile, più forte della nostra parola “resistenza”, perché c’è dentro il wider che significa contro, e dunque ergersi, stare in piedi, dritti, in contrapposizione a qualcosa. Non semplicemente in difesa delle proprie convinzioni, ma contro qualcos’altro.
Hans e Sophie Scholl, Willi Graf, Alex Schmorell, Christoph Probst, il professor Kurt Huber, Hans Leipelt e le decine di altre persone che sono state coinvolte e in molti casi processate e condannate per l’attività della Rosa Bianca, ci insegnano proprio che – quando le libertà fondamentali sono calpestate – bisogna individuare il nemico e combattere. Il come appartiene alla sfera della coscienza e delle inclinazioni individuali, ma la lotta è obbligatoria. Quei giovani l’hanno fatto – ha scritto Anneliese Graf – con incondizionata intensità, con inesorabile disponibilità, con coraggio. Tanti riconoscevano i crimini del nazionalsocialismo, ma pochi, troppo pochi, hanno osato agire, proclamare quella verità dai tetti, per usare un’espressione evangelica.
E c’è da sottolineare che la loro scelta comincia quando hanno intorno ai vent’anni: sia Graf sia Scholl vengono processati solo per aver partecipato alle organizzazioni giovanili che si contrapponevano alla Gioventù hitleriana, di cui per altro i fratelli Scholl avevano fatto parte, e con entusiasmo, per un paio d’anni.
Dunque c’è una coerenza che comincia da lontano: c’è una tendenza all’opposizione, al non-conformismo, al pensiero e alla prassi alternativi, che li inquieta ben prima delle drammatiche svolte belliche che spingeranno anche gli aristocratici e gli alti gradi militari, finalmente, a intessere la cospirazione che culminerà nel fallito attentato a Hitler.
Proviamo a tracciare – per grandi linee – una cronologia parallela, che testimonia come questi giovani studenti-soldati abbiano maturato la scelta della resistenza ben prima dell’inizio della crisi militare tedesca.
6 aprile 1941: inizio della campagna contro Jugoslavia e Grecia. Vi partecipa anche Graf, che poi sarà destinato al fronte orientale.
Fine maggio: a casa di Alexander Schmorell, Hans Scholl fa la conoscenza di Christoph Probst.
31 luglio: Heydrich è incaricato di definire i preparativi per una soluzione finale della questione ebraica in Europa.
19 settembre: imposizione della stella di David per gli ebrei che risiedono nel territorio del Reich.
Autunno 1941: Scholl legge le coraggiose prediche del vescovo di Münster, Clemens August Graf von Galen, contro lo sterminio dei “Nichtmenschen”: zingari, handicappati, malati. Il testo era arrivato con la posta, nella loro casa di Ulm. E la sorella Inge ricorda che Hans disse: “Bisognerebbe avere un ciclostile”.
Sempre nell’autunno 1941, Scholl comincia a frequentare la casa di Carl Muth, editore della rivista cattolica aperta Hochland, ne riordina la biblioteca e approfondisce la conoscenza di autori come Maritain, Bernanos, Bloy, Dostoevskij.
11 dicembre: la Germania dichiara guerra agli Stati Uniti d’America.
21 gennaio 1942: controffensiva di Rommel in Libia.
Aprile 1942: Graf torna dal fronte russo.
3 giugno 1942: Hans e Sophie Scholl, Probst e Schmorell parlano a lungo con il professor Huber, in una serata presso la signora Martens.
In quel mese, Graf incontra Scholl e Schmorell nella Studentenkompanie di Monaco, e a fine giugno viene diffuso il primo volantino, seguito – fino al 12 luglio – dagli altri tre, in una tiratura molto limitata: circa 100 copie per ogni volantino, spedite principalmente per posta ad indirizzi dell’università e della zona di Monaco.
23 luglio: partenza di Scholl, Graf e Schmorell per il fronte russo.
20 agosto: la Wehrmacht raggiunge il Volga e Dubovka e tocca le difese esterne di Stalingrado.
30 ottobre: Scholl, Graf e Schmorell tornano dal fronte russo; si intensificano gli incontri e le discussioni su come sviluppare l’attività di resistenza.
11 novembre: le truppe tedesche occupano il territorio francese controllato dal governo di Vichy.
23 novembre: accerchiamento della sesta armata tedesca a Stalingrado.
Fine novembre: Scholl e Schmorell vanno a Stoccarda, da Eugen Grimminger, un commercialista amico del padre di Scholl, che offre loro una consistente somma di danaro per finanziare la produzione dei volantini.
17 dicembre: in casa del professore Huber si decide che anche il docente parteciperà alla preparazione dei testi clandestini.
1 gennaio 1943: Hitler si rivolge alla nazione dicendo: «Popolo tedesco, nazionalsocialisti, nazionalsocialiste, compagni di partito! Per la quarta volta il destino mi obbliga a rivolgere l’appello del nuovo anno al popolo tedesco in uno stato di guerra. In questi quattro anni è però diventato chiaro anche al popolo tedesco che … si tratta davvero di essere o non essere. Noi siamo decisi, dopo che la guerra non era più evitabile, a condurla con tutto il fanatismo di cui noi nazionalsocialisti siamo capaci … Il singolo deve passare e come sempre passerà, solo il popolo deve rimanere».
Vacanze di Natale 1942-1943: Graf a Saarbrücken, i fratelli Scholl a Ulm, cercano di conquistare gli amici alla causa della resistenza, riuscendovi in alcuni casi.
4 gennaio 1943: Göbbels chiede alla stampa di sostenere il morale della popolazione nell’impegno totale di tutte le forze e le riserve.
6 gennaio: il comandante delle SS Himmler invia una circolare sulle modalità di esecuzione capitale da seguire nei campi di concentramento.
7 gennaio: comincia la diffusione del quinto volantino, non solo a Monaco, ma anche a Ulm, Stoccarda, Augsburg. Centinaia di copie vengono spedite anche da Salisburgo, Vienna e Linz, indirizzate tra l’altro a persone di Francoforte. Alcuni esemplari vengono portati anche a Berlino.
13 gennaio: con decreto del Führer, sull’impiego di tutti gli uomini e le donne a difesa del Reich, comincia la “mobilitazione totale” del popolo tedesco.
13 gennaio: tumulti al Deutsches Museum per il discorso maschilista del Gauleiter (capo delle organizzazioni nazionalsocialiste di un distretto). Anneliese Graf ne riferisce al fratello Willi, agli Scholl, e ad altri amici: il gruppo decide di accelerare il programma di azione, per approfittare delle prime, apparenti crepe nel consenso al regime.
Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio, 118 bombardieri tedeschi attaccano Londra.
20 gennaio: prime deportazioni dal ghetto di Terezin al campo di concentramento di Auschwitz.
3 febbraio: annuncio della disfatta di Stalingrado.
Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, Scholl e Schmorell scrivono con vernice al catrame sui muri del centro di Monaco, a caratteri cubitali, slogan come Freiheit (Libertà) e Nieder mit Hitler (Abbasso Hitler).
5 febbraio: a Berlino comincia una conferenza di tutti i quadri del partito nazionalsocialista per organizzare la mobilitazione totale del popolo.
La notte tra l’8 e il 9 febbraio, ancora slogan sui muri.
11 febbraio: comincia l’arruolamento degli studenti che hanno compiuto 15 anni come aiutanti della contraerea.
12-15 febbraio: produzione e diffusione del sesto volantino, redatto dal professor Huber.
14 febbraio: le truppe tedesche in Nordafrica intraprendono l’operazione “Vento di primavera”, un attacco al secondo corpo d’armata americano in Tunisia.
16 febbraio: nuovo “raid” notturno di Scholl, Graf e Schmorell con scritte murali.
18 febbraio: Joseph Göbbels, ministro della propaganda, al palazzo dello sport di Berlino, davanti a migliaia di spettatori scelti ed entusiasti, afferma che «Stalingrado era ed è il grande grido d’allarme del destino della nazione tedesca». Al pubblico pone dieci domande, la prima suona: «Credete con il Führer e con noi alla definitiva, totale vittoria del popolo tedesco?». «Sì» tuona l’immensa platea, e un’ovazione simile risponde ad ogni domanda, che chiede l’impegno totale dei tedeschi per la guerra totale. Nel suo diario, Göbbels annoterà successivamente: «Quell’ora di idiozia. Se io avessi detto loro che dovevano buttarsi dal terzo piano della Columbus Haus, l’avrebbero fatto».
18 febbraio (lo stesso giorno): distribuzione del sesto volantino nell’Università di Monaco ed arresto dei fratelli Scholl. Nell’appello agli studenti si legge: «In nome della gioventù tedesca esigiamo dallo Stato di Adolf Hitler la restituzione della libertà personale … Il nostro popolo si leva contro l’asservimento dell’Europa da parte del nazionalsocialismo».
Questa dunque la loro piccola storia inserita nella grande storia: una storia che a mezzo secolo e più di distanza conserva intatta la capacità di affascinare e contagiare, forse proprio perché – pur essendo incarnata a Monaco e nella Germania meridionale, nell’ambiente universitario e nello strato sociale borghese – ha tratti così autenticamente universali da essere decodificabile anche per altre epoche, altri contesti geopolitici. Tratti universali dovuti al singolare rapporto che questi ragazzi, questi giovani avevano con la verità, al loro ripudio della menzogna. Infatti con incredibile lucidità Sophie Scholl, nel settembre del 1940, dunque a soli 19 anni d’età, scriveva a Fritz Hartnagel, il suo amico ufficiale al fronte: «Come può un soldato avere un atteggiamento fedele alla verità, quando è costretto alla menzogna? … Trovo ingiusto che un tedesco o un francese, o quello che sia, difenda ottusamente il suo popolo solo perché è il suo popolo. Spesso i sentimenti portano a sbagliare».
Uno dei maestri: Romano Guardini
Certo il tribunale del popolo, che aveva condannato a morte i ragazzi della Rosa Bianca per le loro azioni di sabotaggio ideologico, non poteva certo analizzare né tanto meno supporre il retroterra etico e culturale dove la decisione della resistenza era cresciuta. Si trattava di un territorio miracolosamente sopravvissuto all’alluvione della follia nazionalsocialista e coltivato da maestri, letti sui libri o ascoltati di persona: un territorio davvero inimmaginabile ed incomprensibile a chi considerava il Mein Kampf di Hitler il libro per eccellenza, anzi l’unico libro che valesse la pena di leggere.
Tra i molti maestri, trovandoci qui a Brescia, vorrei ricordare soltanto Romano Guardini con cui in particolare Willi Graf aveva un legame personale indiretto (oltre alle frequenti letture dei testi guardiniani) attraverso Hans Eckert (1914-1941), un amico dell’“Ordine Grigio”, che era stato processato con lui nel 1938, davanti al tribunale speciale di Mannheim, per attività illegali nelle associazioni giovanili proibite dal nazionalsocialismo.
Eckert fu assistente di Guardini fra il ’39 e il ’40 nella comunità studentesca di Berlino, proprio nel momento in cui lo stesso Guardini si vedrà togliere dai nazisti la sua cattedra di visione cattolica del mondo (1939). Eckert riferì spesso a Graf le tesi di Guardini e, a sua volta, Graf ne parlava a Scholl ed agli altri amici della Rosa Bianca. Di Graf si può addirittura dire che sia stato formato dall’insegnamento guardiniano.
Basta citare una sua annotazione sul diario scritta mentre si trovava sul fronte russo: «18. 9. 1942. Smette di piovere. Eppure mi riesce oggi, nelle tranquille ore del mezzogiorno, di leggere Guardini». E il 24 novembre a Monaco, in casa di amici: «La sera ne arrivano altri, leggiamo Guardini…»; o il primo dicembre in una lettera ad un amico: «Leggo e rileggo spesso Guardini, che ha così tanto da spiegarci e da dirci. Questo in effetti è il lavoro che in questo momento mi sembra importante». Leggere Guardini per Graf e per gli amici della Rosa Bianca diventerà un antidoto e un supporto immunitario dinanzi alla disumanità ed all’ubriacatura dell’ideologia hitleriana.
Vorrei in particolare considerare due punti del pensiero di Guardini, importanti allora per i ragazzi della Rosa Bianca, ma importanti anche per noi, oggi.
Parola e politica
I ragazzi della Rosa Bianca diffondevano volantini, cioè parole. Ma può la parola avere importanza decisiva in politica?
Uno dei temi fondamentali di Guardini è il silenzio, o meglio il rapporto tra il silenzio e la parola. È indubbio che a fondamento della politica sta la comunicazione, che anche allora disponeva di potentissimi mezzi di espressione. Ma la comunicazione è la possibilità di pronunciare e di ascoltare parole che siano autentiche e che possano essere comprese senza decadere a parole rituali, a slogan, quindi a parole che occultano e creano insuperabili muri di separatezza. C’è una parola autentica e c’è una parola inautentica.
Questa è una dialettica esistenziale, strutturale per l’uomo che sempre può parlare con verità o con intenzione menzognera, sempre può prostituire la parola o elevarla. Ma al di là di questo dilemma umano perenne, il dilemma diventa epocale perché la nostra età, il tempo che Guardini tra i primi chiama “post-moderno”, non solo ha smarrito il silenzio nel trionfo ossessivo del rumore, ma rischia la morte della parola sapida, verace. Di questa situazione, la politica è una testimonianza emblematica. La politica, che è povera di silenzi, è invece ricca di parole stupide e menzognere.
La politica, dice Guardini, ha un rapporto fondamentale con la verità, anzi con la virtù della veracità, ma può esserci una caduta tragica della parola quando si tradisce la comunione nella verità con l’altro e le parole mentono, creando la deleteria e intossicata atmosfera della menzogna. La parola quindi crea la comunicazione e fonda la politica.
Ma questo può avvenire in senso autentico non solo quando si evita la menzogna plateale, dice Guardini, ma positivamente quando uno dice soltanto quello di cui è personalmente convinto e se ne fa anche interiormente garante. Quando il discorso politico è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola e dall’uditore, invece, che sappia di essere messo di fronte a una parola personale e che quindi egli stesso si decida ad assumere un atteggiamento personale.
Proviamo ad applicare questa dimensione alla realtà politica e vediamo quanto sia difficile ad affermarsi. È ancora possibile questo in un’età devastata linguisticamente, dove ognuno parla di tutto ad ogni istante, per cui la parola sorprende, scandalizza, forse eccita, ma è qualcosa di labile, non ne sentiamo più la forza, non urla più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e timbro?
Siamo, infatti, in un’età culturale e politica di parole senz’anima, di parole usa e getta, di parole gettone che trasmettiamo ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra, non si sa che aspetto abbia, non si sa che cosa ci sia sopra, si sa soltanto che per essa si riceve tanto. Così il linguaggio politico è un frettoloso suonar delle “parole-monete”, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse.
Dunque parole esangui, pallide, scarnificate, del tutto prive di forza figurativa. Se le parole che pronunciamo nella dialettica politica fossero per noi qualcosa di più di un suono, che significa genericamente qualcosa, come potremmo sentirne e assorbirne tante? In realtà si tratta di larve di parole, che «godono per breve tempo di una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine, ma ben presto sono ridotte ad un paio di luoghi comuni e nulla più».
L’insegnamento di Guardini è che in un tempo povero di verità testimoniata, anche se ricco di parolai, occorre una vera e propria ascesi della parola: occorre nutrire una pregiudiziale sfiducia per tutte le parole grosse, come si nutre sfiducia per carta-moneta di dubbio valore. Bisogna riamare in politica la semplicità della parola contro gli eccessi, riconciliare parola e persona, parola e cosa.
«Basta con le larve di parole, rimettiamoci di fronte alle cose, evadiamo dalle sabbie infide delle idee abusate ed indeterminate, riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale, deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte».
Certo, questo in un primo momento ci sconcerterà, ci costringerà al silenzio, perché troppe parole non sembrano più utilizzabili, tanto sono devastate e prostituite dal prolungato abuso. La crisi della politica è allora, per Guardini, essenzialmente la crisi della parola. L’esodo da tale crisi è solo l’ascesi della parola.
«Uno può tenere splendidi discorsi politici, ma se dà informazioni false, se giudica alla leggera, se trascura lo stato reale dei fatti, enfatizzando o ridimensionando con la parola, è un pirata dell’opinione pubblica ed è anche un distruttore dello Stato».
Far politica, dunque, significa ridare valore alle parole, essere fedeli alle parole, rispettare la verità delle cose e delle persone, sentire dentro sé l’autorità della coscienza.
Politica e salvezza
C’è una singolare vicinanza tra uno dei più celebri scritti di Guardini, quello su Il Salvatore, sul portatore della salvezza nella politica, chiaro riferimento a Hitler, e l’importante introduzione di don Giuseppe Dossetti al volume di Luciano Gherardi Le querce di Montesole. C’è la stessa analisi che anticipava Guardini: il totalitarismo come esito di una dinamica religiosa, anche se artificiale. Nella realtà dello Stato, è sempre presente il pericolo di esorbitare dalle proprie funzioni, un rischio totalizzante. Questo Guardini lo avverte fino dagli anni ’20. Nel famoso saggio filosofico sull’Opposizione polare, Guardini critica chi vuole sottomettere lo Stato in maniera rigida al benessere dei cittadini.
Lo Stato ha vita propria e non può ridursi a semplice strumento degli individui. Ma è proprio questa autonomia della Stato, questa consistenza propria, che può portare lo Stato a privilegiare il bene del tutto e ad occuparsi del singolo cittadino solo per garantirsi la propria sopravvivenza. Di fronte a questa permanente tendenza totalizzante, per Guardini ciò che solo può porre un limite allo Stato è la fede. La fede, affermando l’extraterritorialità della persona rispetto alla Storia, sottrae e salva l’individuo da un totale assorbimento nello Stato e quindi limita i poteri di ogni ordine costituito. La fede è la forza che relativizza ogni ordine temporale, è l’elemento decisivo che è in grado di mantenere in tensione e di non risolvere mai in una pericolosa sintesi la polarità fra individuo e Stato. Scrive Guardini:
«Solo la fede che innalza i diritti di Dio sull’anima dell’uomo, al di sopra di tutti i diritti di Cesare, può vincere l’egoismo superiore, di sua natura cieco, della collettività».
Il cattolicesimo dunque per Guardini non è una forza che legittima, che sacralizza l’ordine politico, ma è invece la forza che ne afferma e ne rafforza la piena secolarità, è la vera garanzia della laicità dell’ordine pubblico. Questo radicamento teologico della concezione guardiniana della politica costituisce la premessa dell’atteggiamento riguardo al totalitarismo nazista degli anni ’30.
Il giudizio di Guardini sul nazismo è chiaro. Durante la guerra, quando il regime aveva gettato completamente la maschera, in occasione della visita di un amico in uniforme, Guardini indicando la pistola d’ordinanza disse: «Se uno la puntasse contro Hitler, chi potrebbe condannarlo?».
In quanto totalitario, infatti il regime nazista non poteva più considerarsi un regime di diritto, ma era un regime che aveva sconvolto l’ordine ontologico, l’ordine dell’essere. Nel bellissimo scritto uscito a stampa nel ’46, ma concepito negli anni del regime, intitolato Il Salvatore, il portatore di salvezza attraverso il mito, la rivelazione e la politica, Guardini inserisce il nazismo nell’ambito dei miti soteriologici, portatori di salvezza come Osiride, Apollo, Dioniso, Baltur.
Quei miti esprimevano il ritmo del ciclo naturale della vita, il succedersi di vita e morte, di salute e malattia e il disperato bisogno di salvezza che afferra l’individuo di fronte a questa alternanza che sempre incombe e lo inquieta. Sono, dunque, anche miti pacificanti. Ma la salvezza che offrono non è mai quella dell’individuo singolo, è la salvezza della specie, della collettività. La morte si può esorcizzare solo negando la propria individualità, abbandonandosi all’eterna vita della natura che vince la morte e sconfigge la malattia. All’interno di questo orizzonte mitico, il detentore del potere politico, il re, il duce, non è solo il vertice dell’organizzazione statale e l’espressione dell’autorità politica, ma l’incarnazione di un potere, numinoso e sacro, di un salvatore.
La venuta di Cristo spezza la catena dei miti pagani e offre al singolo una possibilità personale di salvezza. L’individuo non è più obbligato a dissolvere se stesso nel ritmo cosmico della natura, ma al contrario sollecitato ad approfondire la propria personalità impegnandola in una decisione per Dio. Cristo distrugge ogni identificazione del portatore di Salvezza, con il sovrano, con il capo politico. Si stabilisce una alterità insopprimibile tra una prospettiva soteriologica di salvezza intra-mondana e l'autentica prospettiva di salvezza.
«Un ordine politico - dice Guardini - sottratto all'arbitrio della natura e affidato alla responsabilità personale dell'uomo dinanzi a Dio. Il potere trova in quest'ordine la sua dignità sovrana, l'uomo trova il suo spazio ontologico e la propria libertà».
Il nazismo, riportando l'uomo alla schiavitù della natura e della razza, ha sconvolto questo ordine dell'essere instaurato dal Cristianesimo. Hitler infatti si presenta come l'autentico portatore di salvezza. Pensiamo al fatto che il tradizionale saluto che un tempo si usava Sia lodato Gesù Cristo, viene sostituito con il motto Heil Hitler. Si insegna addirittura ai bambini a pregare Hitler (la preghiera che si usava, recitava così: «Manine giunte, testolina china, pensa fervidamente al Führer che ti da' lavoro e pane, che ci aiuta in ogni necessità»). Quindi lo stato totalitario che si concepisce come sacrale, ritiene di poter disporre legittimamente dell'uomo e della sua esistenza, perché non vi è più alcun criterio esterno superiore alla politica cui appellarsi. Lo stato non ha più limiti, né vincoli. Il ritorno anche artificiale ai miracoli, ai miti, ai salvatori è un elemento inquietante in questo passaggio storico.
È una lezione per l'oggi.