La Cappella Paolina ed il suo recente restauro: la Conversione di Paolo e la Crocifissione di Pietro, affrescate da Michelangelo Buonarroti, e le storie degli apostoli di Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari. Una raccolta di articoli di Arnold Nesselrath, Antonio Paolucci, Timothy Verdon, con l’omelia di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /10 /2009 - 00:05 am | Permalink | Homepage
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Presentiamo on-line una raccolta di articoli che aiutano a leggere l’iconografia della Cappella Paolina recentemente restaurata in Vaticano. I testi sono tratti dall’Osservatore Romano. I neretti sono nostri ed hanno l’unico intento di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Su Michelangelo, vedi su questo stesso sito Il Mosè di Michelangelo e la “tragedia della sepoltura”: la tomba di Giulio II e le sue vicende, dalla basilica di San Pietro in Vaticano a San Pietro in Vincoli, di Andrea Lonardo Il Mosè di Michelangelo e la tragedia della sepoltura: la tomba di Giulio II e le sue vicende, dalla basilica di San Pietro in Vaticano a San Pietro in Vincoli, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2009)

Il restauro della Cappella Paolina lascia aperti ancora molti interrogativi. Un capolavoro annerito da migliaia di candele, di Arnold Nesselrath

Il 30 giugno alle 11.30 sono stati presentati nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano i restauri della Cappella Paolina, in vista dell'inaugurazione presieduta dal Papa il 4 luglio prossimo. Sono intervenuti il cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, Pier Carlo Cuscianna, direttore dei Servizi Tecnici del Governatorato e il delegato del direttore dei Musei Vaticani per i Dipartimenti scientifici e i laboratori, del quale pubblichiamo una ricostruzione complessiva dell'opera di restauro.

La Cappella Paolina non è soltanto topograficamente collegata con la Cappella Sistina attraverso la Sala Regia, ma come cappella parva del Palazzo Apostolico Vaticano, sta anche in uno stretto rapporto liturgico con la cappella magna, ridecorata da Sisto IV.

Non essendoci nella Sistina un tabernacolo, la Paolina ospita tutte le funzioni di una Cappella del Santissimo Sacramento. Si celebravano qui le Quarantore, per le quali si montava generalmente una grande macchina su cui bruciavano centinaia di candele e torce; in mezzo a queste veniva esposto l'ostensorio con l'Ostia che risplendeva per le luci attorno. Il Giovedì e il Venerdì Santo veniva installato qui tradizionalmente il Santo Sepolcro.

La nuova cappella parva, costruita tra il 1537 e 1539 da Paolo III (1534-1549) e dedicata al suo patrono, l'Apostolo delle genti, aveva anche un'altra funzione specifica. Era destinata a servire durante il conclave come luogo dove si raccoglievano i voti, una tradizione interrotta definitivamente solo nel 1670.

La commissione data a Michelangelo di raccontare sulle pareti laterali in due grandi affreschi storie dei principi degli apostoli, la conversione di Saulo e la crocifissione di san Pietro, aveva quindi in questo luogo un significato programmatico.

Michelangelo mette in scena con la massima tensione il momento di capovolgimento nella vita di Saulo/Paolo sulla via di Damasco: su un raggio di luce, che brilla di nuovo dopo il restauro attraverso tutto l'affresco, Cristo precipita capovolto dall'angolo estremo in alto a sinistra e si lancia verso il persecutore della sua gente schiacciandolo all'estremo bordo inferiore dell'intera composizione.

Conversione di Paolo

Michelangelo impiega la metafora del raggio per dare alla rivelazione un'espressione visiva. Il vuoto profondo, che si sarebbe creato al centro della scena, è stato riempito dal Buonarroti con il cavallo nero sul quale viaggiava il protagonista ora caduto per terra e accecato. L'animale, imbizzarrito per le voci e le luci dal cielo fugge al galoppo come un demone appena esorcizzato verso il paesaggio del fondo lontano, che si è riaperto con la recente pulitura. Il giovane scudiero non riesce più a domarlo e viene trascinato dalla forza del cavallo.

Cristo in alto è accompagnato da una folla di angeli nudi, imparentati chiaramente con quelli nella visione della risurrezione alla fine dei tempi che Michelangelo aveva dipinto sopra l'altare della Sistina. L'artista potrebbe aver utilizzato qui modelli che aveva originariamente preparato per la Caduta degli angeli ribelli, l'affresco destinato alla controfacciata della Sistina. Questa era allora in rovina a causa del grave incidente del fatidico Natale del 1522, ma Paolo III non aveva più fatto eseguire la sostituzione concordata da Michelangelo con il precedente Pontefice, Clemente VII, con grande disappunto dell'artista.

Che Cristo sia circondato dalla gloria degli angeli è un elemento insolito per l'iconografia della conversione di Saulo; il dialogo si svolge normalmente in modo diretto solo tra i due protagonisti. Nel momento in cui Michelangelo rappresenta la visione di Saulo come cielo intero, allude al martirio di santo Stefano che vedeva il cielo aperto mentre Saulo presiedeva alla sua esecuzione e la Bibbia lo stigmatizza come persecutore dei cristiani.

Diverse scelte iconografiche fuori dagli schemi abituali evidenziano l'intensa discussione tra la committenza e l'artista, altre aspettano ancora spiegazioni soddisfacenti: perché Michelangelo ha rappresentato Paolo da vecchio? Perché non segue la tipologia plotiniana con la sua fisionomia sviluppata in epoca tardo antica? Perché decide di vestire le gambe, che aveva inizialmente cominciato a dipingere nude?

Insolito è anche l'abbinamento degli episodi scelti della vita dei santi Pietro e Paolo, perché la conversione di Saulo avrebbe richiesto la consegna delle chiavi a Pietro, mentre alla crocifissione di san Pietro doveva corrispondere la decollazione di san Paolo. Chi ha scelto l'attuale soluzione ha voluto incrociare i confronti tradizionali, portando ancora più vicino i principi degli apostoli. Proprio nella loro unione viene espresso il passaggio dalla conversione al martirio. Inoltre viene evidenziato che la conversione non garantisce ancora di vedere, ma che solo il martirio porta alla visione.

Lo sguardo di san Pietro è forte e deciso. Lui è l'unico degli oltre cento personaggi presenti in questi due dipinti che guarda fuori dall'affresco e prende un contatto, per così dire diretto, con il visitatore, salvo forse due delle donne dolenti in primo piano. Il pittore però le ha collocate come mezze figure apparentemente più in basso, come davanti all'affresco: si troverebbero cioè nella nostra realtà.

Crocifissione di Pietro

Lo sguardo di Pietro è diretto a tutti quelli che entrano in questa cappella, primo di tutti naturalmente al suo successore, una volta persino eletto sotto questo sguardo. Ma è ugualmente diretto ai cardinali che hanno eletto il Papa, così come ai cardinali che non sono stati eletti.
Infine Pietro guarda ogni singolo visitatore, che stabilirà un proprio dialogo e diventerà partecipe degli eventi negli affreschi. Sembra che Michelangelo abbia sentito la necessità di enfatizzare questo rapporto, perché ha modificato la croce e la posizione del primo Papa nel corso dell'esecuzione della pittura. Ne testimoniano i pentimenti nell'intonaco le cancellazioni e i cambi nelle stesure del colore.

Rimane enigmatica anche la questione dei chiodi con i quali san Pietro è ora fissato sulla croce, che non sono autografi di Michelangelo: l'artista li aveva omessi per un motivo ben preciso o no? Mancano comunque nelle prime incisioni che riproducono l'affresco, e nel 1564 era nata un'accesa polemica sull'argomento, documentata nel testo del critico d'arte Andrea Gilio. Sembra che già nel Cinquecento qualcuno abbia voluto intervenire come correttore di questo elemento significativo, perché compaiono nelle incisioni di fine secolo.

Michelangelo ha voluto collocare le due scene in un paesaggio ideale, quasi astratto, e non in una topografia precisa. Non segue nessuna delle due tradizioni medioevali. Una presume la crocifissione di san Pietro nel circo di Nerone, cioè in Vaticano. L'altra interpreta il brano inter duas metas come a mezza strada tra la meta Remi, la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo, quindi sul Gianicolo.

Il pittore si affida soltanto alle sue figure e le colloca nello spazio; o meglio, crea lo spazio collocando le figure, variando le grandezze e le proporzioni, aumentando l'incisione del contorno o la sfumatura dei tratti della fisionomia. Questa è stata la grande rivelazione alle fine dei restauri, quando le figure dipinte che si incontravano tutti i giorni faccia a faccia sui ponteggi avevano preso le loro giuste posizioni nello spazio come su un palco, ed erano entrate nei loro ruoli nella scena da rappresentare.

Soltanto nella Conversione di Paolo Michelangelo sembra aver concesso, forse al consigliere pontificio che seguiva i lavori per il Papa, un elemento iconografico determinante, che però non toglie niente al paesaggio vuoto, quasi astratto, senza piante, case o scenette episodiche che rendono tutto più ameno e distraggono dall'impatto con quello che accade.

In fondo a destra il Buonarroti ha dipinto una piccola veduta della città di Damasco, eseguita non in affresco, ma a secco, sovrapponendola alle colline in fondo. L'originale sottile di Michelangelo era coperto da una ridipintura di una veduta orientalistica simile ai presepi napoletani.

Ispirato alla pittura antica, oggi diremmo pompeiana, il Buonarroti aveva fatto intuire con sublimi pennellate di bianco di san Giovanni in una atmosfera sfumata la meta del viaggio di Saulo. Lo stile dell'architettura con le cupole, le torrette e l'edicola della porta di città allude alle grandi opere che Michelangelo alla sua età avanzata stava ancora per creare.

Già durante i lavori nella Cappella Paolina finiva la tomba di Papa Giulio II iniziato nel lontano 1505, diventava nel 1546 architetto della fabbrica della Basilica di San Pietro e cominciava il grande progetto urbanistico della Piazza del Campidoglio. Quindi il fatto che lavori quattro anni a una parete - in totale otto per le due scene - che Botticelli in Sistina o Raffaello nelle Stanze eseguirono in una media di tre mesi, ha anche un motivo in tutti questi impegni.

Il restauro appena concluso ha sin dall'inizio cercato di restituire Michelangelo nel suo insieme e di presentare la Cappella del santissimo Sacramento del Palazzo Apostolico come grande unità artistica e estetica. Michelangelo non era il protagonista, ma è stato la misura per i pittori Lorenzo Sabbatini, Federico Zuccari e i loro stuccatori, che furono chiamati da Papa Gregorio XIII e hanno cambiato completamente l'aspetto dell'ambiente, così come per gli stuccatori che hanno abbellito con decori raffinatissimi il nuovo presbiterio aggiunto alla navata sotto Paolo v. Lo stesso vale anche per l'attuale restauro, che ha recuperato proprio la solennità della decorazione del tardo Cinquecento.

Il confronto con la storia del monumento guida sempre tutti i restauri dei Musei Vaticani e permette di avvicinarsi al suo significato e alla sua estetica. Per quanto si cerchi di orientarsi a un momento preciso nella storia, le vicende del tempo rimangono visibili e continueranno a esserlo in futuro. La Cappella Paolina rimane, anche dopo l'intervento presente, una storia dei Papi con diverse aggiunte posteriori: cosa manifesta tra l'altro nella controfacciata, nell'arredamento liturgico e in numerosi dettagli.

Nonostante tutto, è la migliore interpretazione che tutti quelli che hanno contribuito all'attuale restauro hanno potuto offrire.
Con l'interesse e l'intervento che il Santo Padre ha voluto dare con le sue due visite al cantiere, vale qui di nuovo la formula usata al tempo di Giulio II: il lavoro è stato eseguito ad praescriptum Benedicti.

(©L'Osservatore Romano 30 giugno-01 luglio 2009)

I restauri pittorici della cappella Paolina alla fase finale. Michelangelo e l'enigma di un'umanità malata e salvata, di Antonio Paolucci

Sono cinque anni che la squadra diretta da Maurizio De Luca lavora al restauro della cappella Paolina. Prima si è intervenuto sul vasto partito decorativo di stucchi dorati e policromi e sugli affreschi di Lorenzo Sabatini e di Federico Zuccari. L'ultimo segmento dei lavori - a far data dalla metà dell'anno scorso, per impegno costante ed esclusivo di De Luca e della sua prima assistente Maria Pustka - ha riguardato e continua a riguardare i due murali contrapposti di Michelangelo con la Conversione di San Paolo su una parete e la Crocifissione di San Pietro sull'altra.

Era importante incominciare l'impresa partendo dalla pulitura e dalla integrazione pittorica di tutto quello che Michelangelo non è. La cappella Paolina è un insieme coerente, una plurima compresenza di stili e di autori che hanno voluto e saputo giustapporsi al supremo maestro con discrezione e con intelligenza, senza competere con lui, ma anche senza contraddire il carattere unitario dell'ambiente. Sarebbe stato un errore mettere l'enfasi sui due affreschi di Michelangelo, presentandoli come testimonianza eccezionale che prevale su tutto il resto e di fatto lo oscura. Se lo avessimo fatto, avremmo fatto torto alla storia.

I pittori, gli scultori, i decoratori che intervennero in Paolina una ventina di anni dopo il Buonarroti, dovevano sentirsi certo lusingati, ma soprattutto intimiditi, dal confronto con un artista che, dopo le Vite di Giorgio Vasari, aveva assunto l'aura del genio ineguagliabile e, quasi, lo statuto della "divinità". Scelsero quindi di tenersi saggiamente sotto tono, mimetici per quanto possibile dello stile di Michelangelo - Sabatini nella Caduta di Simon Mago, lo stesso Zuccari nei nudi allegorici della volta - attenti però a non creare disarmonie nel contesto stilistico generale.

Il restauro - ci hanno insegnato i nostri maestri - è prima di tutto un atto critico, discende cioè dalla interpretazione della storia che si è fatta figura. Questa interpretazione della storia ha prodotto la filosofia di intervento che, elaborata e messa a punto dalla direzione dei lavori - Arnold Nesselrath con Maurizio De Luca e con chi scrive - sta alla base dell'attuale restauro della Paolina.

La pulitura in corso sui murali di Michelangelo ne tiene conto e viene modulata in modo tale da risultare coerente con i livelli cromatici, con il tono e con la "patina" dell'insieme.
Ma per capire le ragioni - e le difficoltà - dell'attuale restauro, bisogna prima conoscere le vicende costruttive complicate e contraddittorie della cappella Paolina; vicende che sono la conseguenza diretta del carattere e della destinazione di un luogo sacro carico di valori simbolici del tutto speciali.

La Paolina è cappella papale da sempre - la più privata, la più intima fra i luoghi di culto dei Palazzi Apostolici - ma è anche la cappella che, più della Sistina, è chiamata a rappresentare la missione e il destino della Chiesa universale. Quando sull'altare veniva presentato all'adorazione il Santissimo Sacramento, il messaggio teologico custodito e proclamato dal Papa di Roma vi era compiutamente ed efficacemente significato.

I Papi del Cinquecento, fra riforma e riforma cattolica, erano ben consapevoli dello straordinario significato simbolico del luogo e questo spiega la complicata vicenda costruttiva e decorativa della cappella, interessata nel corso del secolo da interruzioni, ripensamenti, rettifiche.

All'inizio, fra il 1537 e il 1542 sotto il pontificato di Paolo III Farnese, è Antonio da Sangallo l'architetto incaricato della costruzione dell'edificio mentre a Perin del Vaga vengono commissionati stucchi poi abbattuti al tempo di Gregorio XIII Boncompagni.

Negli anni quaranta del secolo troviamo all'opera Michelangelo appena reduce dall'impresa del Giudizio in Sistina. Sono anni difficili questi per il Buonarroti, impegnato nel cantiere di San Pietro, nella progettazione della cupola, ormai avanzato negli anni e in cattiva salute. I documenti parlano di massicci acquisti di azzurro oltremarino - quanto ne abbiamo trovato e di splendida qualità durante la pulitura!... - ma testimoniano anche di lunghe interruzioni del cantiere - nell'estate del 1544 e nell'estate del 1546 - per malattia del maestro.

Nel 1550 Michelangelo terminava il suo impegno. Per la Paolina si apriva un periodo di sospensione lavori lungo più di vent'anni. La svolta, poderosa e decisiva, la diede il grande Papa Gregorio XIII Boncompagni, il riformatore del calendario, il committente della Torre dei Venti e della Galleria delle carte geografiche, uomo di profondi studi e di gusto squisito. Sotto il suo pontificato la cappella Paolina è un ronzante cantiere gremito di professionisti di ogni genere; sono all'opera i pittori freschisti Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari insieme a decine di decoratori, scultori, stuccatori, doratori i cui nomi - Andrea Svolgi, Bartolomeo Fiorentino, Cesare Romano, Prospero Bresciani, Giacomo Casagnola, e così via - affollano i registri di pagamento.

L'immagine attuale della Paolina con i grandi murali di Sabatini e di Zuccari che descrivono gli episodi salienti della vita di san Pietro e di san Paolo, con i decori in stucco dorati e policromi della volta così simili a quelli contemporanei dispiegati nella Galleria delle carte geografiche, deve a Gregorio XIII più che a qualsiasi altro.

La storia della cappella Paolina continua con i pontefici successivi perché sono documentati interventi nella controfacciata e nel presbiterio al tempo di Alessandro VIII (1690) e poi di Benedetto XIV (1741). Restauri e rifacimenti importanti si registrano ancora con Pio VI, con Gregorio XVI, con Pio IX, con Leone XIII, con Pio XI. Si può dire che non c'è stato papa negli ultimi quattro secoli che non si sia interessato alla cappella parva dei palazzi apostolici.

L'ultimo intervento di rilievo è stato quello che negli anni di Paolo VI (1974-75) ha visto il radicale riordino dello spazio presbiteriale. Quest'ultimo rifacimento - in accordo con l'arcivescovo James Michael Harvey e con monsignor Paolo De Nicolò, prefetto e reggente della Casa pontificia, con monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, e con l'approvazione del Santo Padre che ha reso visita al cantiere della Paolina il 25 febbraio scorso - è stato rimosso, al fine di ripristinare, per quanto possibile, lo stato di origine. I Servizi tecnici del Governatorato, diretti da Pier Carlo Cuscianna, provvederanno a ricomporre il vecchio altare marmoreo, staccandolo però dalla parete di fondo così da rendere possibile la celebrazione eucaristica sia versus populum che versus crucem.

Intanto procede con infinite cautele - confortata anche dalla consulenza di Gianluigi Colalucci il capo restauratore dei Musei Vaticani, ora in pensione, che "fece" vent'anni fa la grande impresa della Sistina - la pulitura dei due affreschi di Michelangelo.

Li abbiamo immaginati e così li presentavano i manuali di storia dell'arte sub specie nigra; colori di polvere e di cenere sotto il segno della malinconia e del pessimismo. Il vecchio Michelangelo ormai al termine della vita che si confronta con l'assoluto e con la storia, impegnato nell'ultimo duello con "l'affettuosa fantasia che l'arte mi fece idolo e monarca". Così, alla luce dei sonetti degli anni estremi, in spirituale contiguità con la Rondanini, amavano pensare al Buonarroti della Paolina.

La pulitura sta portando alla luce un Michelangelo dolente e tragico però di straordinaria saldezza plastica e di ferma imperiosa evidenza cromatica. I colori sono quelli del Giudizio e servono a esaltare una umanità terribile, violenta, disperata. Non si erano mai visti prima, nella pittura del Buonarroti, volti così stravolti dalla stolidità e dall'odio, positure così disarticolate ed eccentriche, una altrettanto grande esibizione di ferina energia e di oscuramento della ragione. Solo il Goya dei Capricci Neri e della Quinta del Sordo saprà, fra più di due secoli, muoversi su questi registri inquietanti.

Sembra quasi che il pittore si interroghi sull'enigma teologico della salvezza misteriosamente offerta a una umanità immeritevole, immersa nel male e impastata di peccato come quella che qui è rappresentata. Se lo chiede Michelangelo e abbiamo l'impressione che se lo chieda anche san Pietro il quale ci guarda irato nel momento stesso in cui viene issato a testa in giù sulla croce, quasi dubbioso della utilità del suo martirio. Come sappiamo quella idea terribile era destinata ad affascinare un altro Michelangelo, il Merisi da Caravaggio che la ripeterà fra mezzo secolo nella tela della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.

La pulitura in atto sta dando risultati consolanti, superiori alle nostre prudenti attese. Si rimuovono con estrema cautela, per non manomettere le finiture a secco, le sostanze accumulate nei molti interventi del passato. Si risarciscono con mano leggera le mancanze e le lacerazioni più evidenti. Liberati dalla scura camicia oleosa che li opprimeva e li offuscava, gli affreschi di Michelangelo riemergono nella loro coerenza figurativa e verità cromatica.

Quando il 29 giugno prossimo, festa dei santi Pietro e Paolo, il Santo Padre inaugurerà la cappella parva dei palazzi apostolici, nessuno dirà, spero, che abbiamo restituito al "primitivo splendore" - come spesso scrivono i cattivi giornalisti - gli affreschi della Paolina. Questo restauro ha inteso consegnare gli affreschi di Michelangelo, insieme agli altri dello Zuccari e del Sabatini, insieme al decoro dell'intera cappella, al meglio della loro attuale condizione conservativa e al meglio della leggibilità e quindi del godimento possibili. È tutto quello che è giusto chiedere a un buon restauro. Niente di più e niente di meno.

(©L'Osservatore Romano - 15 marzo 2009)


N.d.R. In un articolo sullo stesso Osservatore Romano, intitolato I restauri della Cappella Paolina in Vaticano. L'ultima fatica di Michelangelo pittore e pubblicato il 18/6/2009, il Paolucci ha ripreso i temi esposti nell’articolo del 15/3/2009, con alcune riflessioni ulteriori che riportiamo:

[...] Michelangelo lavorò in Paolina con faticosa pazienza, per poco meno di dieci anni, dipingendo prima la Conversione e poi la Crocifissione. Aveva ormai settanta anni ed era in cattiva salute. Era uscito spossato dalla immane fatica del Giudizio, lo preoccupava il progetto della cupola di San Pietro, intorno a lui vedeva sparire il suo mondo. Nel 1547 moriva la poetessa Vittoria Colonna, l'amica e la confidente degli anni tardi, e due anni dopo veniva a mancare Paolo III Farnese, il "suo" Papa.

Procedendo per "giornate" piccole, da solo, con lunghe interruzioni e molti pentimenti nella stesura pittorica, Michelangelo concluse, nel 1550, la sua ultima fatica. È una specie di testamento spirituale, improntato a una vasta mestizia, a un profondo pessimismo. La gamma cromatica e la saldezza plastica delle figure sono ancora quelle del Giudizio ma ancora più forti vi appaiono la tensione drammatica e l'oltranza espressionistica.

Si ha l'impressione che il mistero della Grazia misteriosamente offerta a una umanità immeritevole angosci l'anima dell'artista che vive e testimonia, da cristiano, la crisi religiosa della sua epoca divisa e lacerata dalla Riforma. [...]

(©L'Osservatore Romano 18 giugno 2009)

Polemiche sul restauro della "Crocifissione di san Pietro" nella Cappella Paolina. La storia non si cancella. È semplicemente ridicolo pensare che Benedetto XVI sia intervenuto,
di Antonio Paolucci

Avrei immaginato che il restauro della Cappella Paolina venisse valutato e eventualmente criticato per ragioni tecniche ed estetiche. Succede sempre quando si interviene sui grandi capolavori della storia dell'arte. C'è sempre qualcuno che dice: "Era più bello prima". Oppure, con motivazioni più professionali o pseudo-professionali: "Hanno distrutto le velature" o "hanno rimosso le integrazioni a secco" o "hanno usato solventi micidiali" e via dicendo.

Chi come me ha seguito, all'epoca, il restauro della Sistina sa bene quali furiose polemiche sono state scatenate allora. Polemiche poi rientrate come ognuno sa, perché l'intervento di Gianluigi Colalucci negli anni Novanta del secolo scorso oggi è unanimemente ritenuto esemplare. Questa volta le cose sono andate diversamente. Di fronte all'intervento tecnico nella Cappella Paolina non ci sono stati che complimenti ed elogi.

Dal momento che io di mestiere faccio lo storico dell'arte e nella mia carriera mi sono assunto la responsabilità di interventi di restauro su opere di straordinaria delicatezza e di suprema notorietà (dalla Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova fino al Giotto di Assisi), degli apprezzamenti dei colleghi sono ovviamente contento.

Mai però avrei immaginato che qualcuno avesse avuto da dire qualcosa su una questione squisitamente storico-teologica come quella dei chiodi e del panno di san Pietro sulla croce. Non si può dire nulla perché non c'è nulla da dire, se non bene, sulla qualità del restauro, e allora saltano fuori i chiodi del povero san Pietro.

Il problema dei nostri giorni è la visibilità. Tutti ne hanno bisogno come dell'ossigeno. Ne ha bisogno l'illustre professore Frommel che pure è famoso per tanti assai cospicui meriti. Ne ha bisogno il bravo Maurizio De Luca, maestro restauratore dei Musei Vaticani, che con Maria Pustka ha portato a compimento la bella e degna impresa del restauro.

Quanto all'articolista e al titolista del pezzo uscito sul "Venerdì di Repubblica" - articolo nel quale si adombra, nella conservazione dei chiodi e del "pannetto" di san Pietro, addirittura una bieca operazione controriformista e quindi reazionaria di Papa Ratzinger - beh, "questo è il giornalismo bellezza", verrebbe da dire. A noi che siamo vecchi del mestiere la cosa non sorprende.

Tuttavia, poiché rendere testimonianza alla verità è sempre e comunque un dovere, nel mio ruolo di responsabile primo di quel restauro oltre che di presidente della commissione internazionale di esperti che ha accompagnato e monitorato l'intervento in tutte le sue fasi, posso assicurare che le cose sono andate così.

Si è discusso naturalmente delle integrazioni post-michelangiolesche - forse di Federico Zuccari o di Lorenzo Sabatini o forse più tarde - e si è deciso di non rimuoverle. Per la semplice ragione che sono testimonianze della storia, e la storia non la si cancella.

Diversa sarebbe stata la decisione se quelle integrazioni fossero state invasive e deturpanti se avessero offuscato e deformato la comprensione estetica dell'opera d'arte. Ma nel caso specifico questo non si dava, e quindi, in accordo con la moderna teoria del restauro si è optato per la non rimozione delle aggiunte tardocinquecentesche o seicentesche. Si è trattato di una decisione tecnica e quindi, di un dibattito che ha consumato le risorse dialettiche dei colleghi membri della commissione internazionale, ma nessun altro retropensiero di ordine teologico-politico ci ha sfiorato.

Il nostro mestiere di storici dell'arte ci obbligava a conservare le modifiche consegnateci dalla storia. Altri che hanno diverse competenze e fanno differenti mestieri, ci diranno, da storici, le ragioni di quelle modifiche.

Certo è che nella nostra decisione, da me totalmente condivisa, Benedetto XVI non c'entra per niente. È semplicemente ridicolo pensare che il Papa intervenga in una questione di teoria e prassi del restauro.

(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2009)

Paolo III, Michelangelo e le cappelle palatine. Chi è veramente quel vecchio caduto da cavallo?
di Timothy Verdon

Nell'occasione del solenne vespro presieduto da Benedetto XVI nella restaurata Cappella Paolina la sera di sabato 4 luglio, una parte del pubblico era sistemata all'interno della Cappella stessa, l'altra parte - la più consistente - nell'antistante Sala Regia. Tutti i presenti però hanno visto sia l'uno che l'altro ambiente, e - dopo tanti anni in cui la Paolina era rimasta inagibile - hanno "riscoperto" quest'unica enfilade di monumentali spazi di rappresentanza, che - con l'attigua Cappella Sistina - costituiscono l'area forse più riccamente decorata dell'intero complesso vaticanense.

Come tutti sanno, poi, le due cappelle palatine, la Sistina e la Paolina, sono legate, sia per le opere di Michelangelo in esse eseguite, sia per la committenza di Paolo III.

Ci sono inoltre legami umani tra questi progetti della vecchiaia dell'artista come del committente: Michelangelo lavorò per ben sette anni al Giudizio universale, dal 1534 al 1541 - una lentezza dovuta, almeno in parte, all'età dell'artista, che nel 1534 era cinquantanovenne e soffriva di vari acciacchi, perfino cadendo dal ponteggio durante i lavori sull'affresco.

Era vecchio anche il committente - Paolo III aveva sette anni più di Michelangelo - e, tra molte considerazioni a cui la grandiosa visione escatologica del Buonarroti induce, dobbiamo certamente leggere il Giudizio come un'opera voluta e dipinta da uomini che, secondo i criteri del XVI secolo, avevano un'età avanzata: uomini il cui sguardo era ormai rivolto alla fine. Si racconta infatti che, quando il Giudizio universale fu inaugurato nella solennità di Tutti i Santi del 1541, Paolo III cadde in ginocchio, pregando il Signore di perdonargli i peccati nell'ultimo giorno.

Dobbiamo probabilmente leggere l'opera a cui il Papa chiamò Michelangelo subito dopo il Giudizio, l'esecuzione di due affreschi per la Paolina, nella stessa ottica personale e confessionale. Lo stile rimane fondamentalmente quello del Giudizio, e anche qui i tempi d'esecuzione sono protratti - più di due anni per due soli affreschi - con interruzioni dovute ai problemi di salute di Michelangelo.

Nuovo invece è l'approccio al tema tipicamente romano, gli apostoli Pietro e Paolo, perché - mentre Pietro viene raffigurato al momento del martirio, com'era solito nell'iconografia papale - Paolo appare fulminato e steso per terra da Cristo che lo converte alla sua sequela.

Ora la decisione di non abbinare alla Crocifissione di san Pietro l'analoga scena di martirio di san Paolo, come la tradizione richiedeva e come altri artisti al servizio dei papi avevano fatto, ma di contrapporne piuttosto la conversione, spettava di diritto al committente, che del resto portava il nome "Paolo".

L'inusuale scelta di Michelangelo di far vedere poi un san Paolo "vecchio", mentre storicamente la sua conversione era avvenuta in relativa gioventù, invita a chiedersi se nella figura dell'apostolo fulminato da Cristo non abbiamo un ritratto ideale dello stesso Paolo III.

Nonostante i vizi di nepotismo e d'ambizione famigliare, papa Farnese era in effetti un "fulminato da Cristo" che nel 1513 - cardinale quarantenne ma non ancora sacerdote - s'era convertito dalla vita mondana, allontanando la madre dei suoi figli per vivere integralmente i doveri della condizione clericale.

Conversione e cambiamento di vita erano poi temi di bruciante attualità negli anni 1540 contrassegnati dall'approvazione della Compagnia di Gesù e dai preparativi per un concilio generale per affrontare i problemi delineati nel documento De emendanda Ecclesia. E nessuno meglio di Michelangelo poteva capire Paolo III, almeno sul piano umano e personale, perché anche il vecchio artista stava vivendo allora un'intensa esperienza di conversione.

Grazie all'amicizia di una nobildonna credente, Vittoria Colonna, Michelangelo era a contatto con la spiritualità dei più accesi riformatori cattolici dell'epoca, tra cui alcuni membri della commissione pontificia che aveva stilato il De emendanda Ecclesia, nonché con le idee dei riformatori d'oltralpe. Come il suo mecenate Paolo III, l'artista cioè conosceva personalmente il dramma della morte al peccato e della rinascita in Cristo.

La "terribilità" dei personaggi del Giudizio universale e degli affreschi della Paolina, come la disadorna maestosità degli interventi michelangioleschi alla basilica in questi anni, furono tuttavia eccezioni in un'epoca che preferiva le complicazioni stilistiche del manierismo, del resto più adatte agli scopi puramente decorativi della maggior parte dei programmi.

Tra questi, il più importante riguardava il maggiore ambiente di rappresentanza dei papi, l'aula situata all'ingresso della Cappella Sistina nella parte medievale del complesso dei palazzi, la cosiddetta Sala Regia. Infatti, nonostante le bramantesche logge di facciata e i corridoi a collegamento del nucleo antico del Vaticano con il Belvedere, al Palazzo mancava ancora uno spazio moderno in cui ricevere imperatori e re, ambasciatori ed alti dignitari; così nel terzo anno del suo pontificato, 1537, Paolo III aveva commissionato a Antonio da Sangallo la trasformazione della vecchia "prima aula" del palazzo di Niccolò III: impresa che si rivelò difficile e costosa, appunto perché l'architetto dovette intervenire sul tessuto costruttivo preesistente.

Il progetto del Sangallo, che prevedeva la sostituzione del vecchio soffitto ligneo con una volta a botte alta 18 metri in chiave, obbligava al massiccio rinforzamento delle mura perimetrali, che ora dovevano assorbire il peso e la spinta della nobile, ma pesante volta.

Per l'impianto decorativo, Sangallo chiamò la bottega di Perin del Vaga: il maestro con almeno 13 assistenti che lavorarono quattro anni, tra il 1541 e il 1545, ai soli stucchi! Furono coinvolti anche Daniele da Volterra ed altri, ma i lavori procedettero lentissimamente.

I successori di Paolo III, Giulio III (1550-55), Marcello II (1555) e Paolo IV (1555-59) non erano interessati a completare la sala, ed è solo con Pio IV (1559-65) che il progetto venne riavviato. Vasari, invitato a prendere parte a questa prima fase, declinò, e gli affreschi furono finalmente eseguiti negli anni 1560 da vari maestri, tra cui i fratelli marchigiani Taddeo e Federico Zuccari. I soggetti celebrano la preminenza della Chiesa nei suoi rapporti con imperi e regni attraverso i secoli.

Col senno di poi, l'iconografia palesemente trionfalistica della Sala Regia, suggerisce la difficoltà della corte romana tardo-cinquecentesca ad adeguarsi a situazioni ecclesiali e politiche ancora in evoluzione. La pesante enfasi sull'autorità del passato, in un'Europa che stava già colonizzando il mondo nuovo, indica inoltre un'incomprensione delle mutate regole del gioco diplomatico, un ripiegarsi su altre "regole" che poi, nel loro proprio tempo, non erano mai state rispettate.

Saranno l'energia evangelizzatrice dei nuovi ordini religiosi sostenuti dai Papi, e il successo degli sforzi missionari della Chiesa del tempo, a tracciare l'orizzonte positivo di questa prima stagione della riforma cattolica.

(©L'Osservatore Romano - 1 agosto 2009)

Dall’omelia del papa Benedetto XVI nei vespri del 4/7/2009, in occasione della riapertura della Cappella Paolina

[...] Si realizza quest’oggi, a pochi giorni dalla solennità dei Santi Pietro e Paolo e dalla chiusura dell’Anno Paolino, il mio desiderio di poter riaprire al culto la Cappella Paolina. Nelle Basiliche Papali di San Paolo e di San Pietro abbiamo vissuto le celebrazioni solenni in onore dei due Apostoli; questa sera, quasi a completamento, ci raccogliamo nel cuore del Palazzo Apostolico, nella Cappella che è stata voluta dal Papa Paolo III e realizzata da Antonio da Sangallo il Giovane, proprio quale luogo riservato di preghiera per il Papa e per la Famiglia pontificia. Aiutano a meditare e a pregare in maniera quanto mai efficace i dipinti e le decorazioni che la abbelliscono, in particolare i due grandi affreschi di Michelangelo Buonarroti, che sono gli ultimi della sua lunga esistenza. Rappresentano la conversione di Paolo e la crocifissione di Pietro.

Lo sguardo è attratto innanzitutto dal volto dei due Apostoli. È evidente, già dalla loro posizione, che questi due volti giocano un ruolo centrale nel messaggio iconografico della Cappella. Ma, al di là della collocazione, essi ci attirano subito "oltre" l’immagine: ci interrogano e ci inducono a riflettere.

Anzitutto, soffermiamoci su Paolo: perché è rappresentato con un volto così anziano? È il volto di un uomo vecchio, mentre sappiamo – e lo sapeva bene anche Michelangelo – che la chiamata di Saulo sulla via di Damasco avvenne quando egli era circa trentenne. La scelta dell’artista ci porta già fuori dal puro realismo, ci fa andare oltre la semplice narrazione degli eventi per introdurci ad un livello più profondo.

Il volto di Saulo-Paolo - che è poi quello dello stesso artista ormai vecchio, inquieto e in cerca della luce della verità - rappresenta l’essere umano bisognoso di una luce superiore. È la luce della grazia divina, indispensabile per acquistare una vista nuova, con cui percepire la realtà orientata alla "speranza che vi attende nei cieli" – come scrive l’Apostolo nel saluto iniziale della Lettera ai Colossesi, che abbiamo appena ascoltato (1,5).

Il volto di Saulo caduto a terra è illuminato dall’alto, dalla luce del Risorto e, pur nella sua drammaticità, la raffigurazione ispira pace e infonde sicurezza. Esprime la maturità dell’uomo interiormente illuminato da Cristo Signore, mentre attorno ruota un turbinìo di eventi in cui tutte le figure si ritrovano come in un vortice. La grazia e la pace di Dio hanno avvolto Saulo, lo hanno conquistato e trasformato interiormente. Quella stessa "grazia" e quella stessa "pace" egli annuncerà a tutte le sue comunità nei suoi viaggi apostolici, con una maturità di anziano non anagrafica, ma spirituale, donatagli dal Signore stesso.

Qui dunque, nel volto di Paolo, possiamo già percepire il cuore del messaggio spirituale di questa Cappella: il prodigio cioè della grazia di Cristo, che trasforma e rinnova l’uomo mediante la luce della sua verità e del suo amore. In questo consiste la novità della conversione, della chiamata alla fede, che trova il suo compimento nel mistero della Croce.

Dal volto di Paolo passiamo così a quello di Pietro, raffigurato nel momento in cui la sua croce rovesciata viene issata ed egli si volta a fissare chi lo sta osservando. Anche questo volto ci sorprende. L’età rappresentata qui è quella giusta, ma è l’espressione a meravigliarci e interrogarci.

Perché questa espressione? Non è un’immagine di dolore, e la figura di Pietro comunica un sorprendente vigore fisico. Il viso, specialmente la fronte e gli occhi, sembrano esprimere lo stato d’animo dell’uomo di fronte alla morte e al male: c’è come uno smarrimento, uno sguardo acuto, proteso, quasi a cercare qualcosa o qualcuno, nell’ora finale. E anche nei volti delle persone che gli stanno intorno risaltano gli occhi: serpeggiano sguardi inquieti, alcuni addirittura spaventati o smarriti.

Che significa tutto questo? È ciò che Gesù aveva predetto a questo suo Apostolo: "Quando sarai vecchio un altro ti porterà dove tu non vuoi"; e il Signore aveva aggiunto: "Seguimi" (Gv 21,18.19). Ecco, si realizza proprio ora il culmine della sequela: il discepolo non è da più del Maestro, e adesso sperimenta tutta l’amarezza della croce, delle conseguenze del peccato che separa da Dio, tutta l’assurdità della violenza e della menzogna. Se in questa Cappella si viene a meditare, non si può sfuggire alla radicalità della domanda posta dalla croce: la croce di Cristo, Capo della Chiesa, e la croce di Pietro, suo Vicario sulla terra.

I due volti, su cui si è soffermato il nostro sguardo, stanno l’uno di fronte all’altro. Si potrebbe anzi pensare che quello di Pietro sia rivolto proprio al volto di Paolo, il quale, a sua volta, non vede, ma porta in sé la luce di Cristo risorto. È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo. Ecco allora che in questo senso le due icone possono diventare i due atti di un unico dramma: il dramma del Mistero pasquale: Croce e Risurrezione, morte e vita, peccato e grazia.

L’ordine cronologico tra gli avvenimenti rappresentati è forse rovesciato, ma emerge il disegno della salvezza, quel disegno che lo stesso Cristo ha realizzato in se stesso portandolo a compimento, come abbiamo poc’anzi cantato nell’inno della Lettera ai Filippesi. Per chi viene a pregare in questa Cappella, e prima di tutto per il Papa, Pietro e Paolo diventano maestri di fede.

Con la loro testimonianza invitano ad andare in profondità, a meditare in silenzio il mistero della Croce, che accompagna la Chiesa fino alla fine dei tempi, e ad accogliere la luce della fede, grazie alla quale la Comunità apostolica può estendere fino ai confini della terra l’azione missionaria ed evangelizzatrice che le ha affidato Cristo risorto. Qui non si fanno solenni celebrazioni con il popolo. Qui il Successore di Pietro e i suoi collaboratori meditano in silenzio e adorano il Cristo vivente, presente specialmente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

L’Eucaristia è il sacramento in cui si concentra tutta l’opera della Redenzione: in Gesù Eucaristia possiamo contemplare la trasformazione della morte in vita, della violenza in amore. Nascosta sotto i veli del pane e del vino, riconosciamo con gli occhi della fede la stessa gloria che si manifestò agli Apostoli dopo la Risurrezione, e che Pietro, Giacomo e Giovanni contemplarono in anticipo sul monte, quando Gesù si trasfigurò davanti a loro: evento misterioso, la Trasfigurazione, che il grande quadro di Simone Cantarini ripropone anche in questa Cappella con forza singolare.

In realtà però tutta la Cappella – gli affreschi di Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari, le decorazioni dei numerosi altri artisti convocati qui in un secondo momento dal Papa Gregorio XIII –, tutto, potremmo dire, qui confluisce in un medesimo unico inno alla vittoria della vita e della grazia sulla morte e sul peccato, in una sinfonia di lode e di amore a Cristo redentore che risulta altamente suggestiva.

Cari amici, al termine di questa breve meditazione, vorrei ringraziare quanti hanno cooperato affinché noi potessimo nuovamente godere di questo luogo sacro completamente restaurato [...]

San Paolo


San Pietro