“Diventar di nuovo bambino” significa imparare a dire di nuovo Abba, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2015)
I contemporanei di Gesù erano talmente colpiti dal modo di pregare di Gesù che ci hanno conservato in aramaico la parola con la quale pregava: Abba. Gli studiosi sostengono a ragione che Gesù conoscesse l’ebraico – era in grado di leggere il rotolo di Isaia in sinagoga – ed anche il greco, che era la lingua internazionale del tempo, come oggi l’inglese. Si trovano ovunque, infatti, iscrizioni greche del I secolo in Terra Santa come nelle catacombe ebraiche di Roma, ma soprattutto nella Galilea, la regione da cui proveniva Gesù, il greco doveva essere diffuso come prova il nome ellenistico di alcuni degli apostoli come Andrea.
Ma abitualmente Gesù parlava in aramaico, perché tale era la lingua utilizzata nelle relazioni private e personali. E in questa lingua, appresa fin da bambino, Gesù si rivolgeva a Dio, chiamandolo appunto Abba che potremmo tradurre come “padre mio”, “padre caro”.
Tutta l’intimità, la vicinanza, la coscienza di un’infinita misericordia è espressa da questo termine che anche gli scrittori del Nuovo Testamento ci vollero trasmettere esattamente come Gesù lo pronunciava: non si limitarono, infatti, a tradurlo in greco, ma lo conservarono proprio in lingua aramaico: «Abbà! Padre!» ci ricorda Marco (Mc 14,36) ed anche Paolo, in Gal 4,6, ricorda la duplice versione in aramaico ed in greco.
Nel chiamare Dio Abba, Gesù non intendeva proporre una visione infantilistica della preghiera e conseguentemente della vita. Sapeva bene che ognuno è chiamato a scelte adulte, come quella di amare il fratello e di offrire la vita per lui. Intendeva piuttosto sottolineare la propria figliolanza, il proprio legame mai interrotto con il Padre da cui tutto aveva ricevuto e riceveva.
Così ha scritto in maniera straordinaria il grande esegeta Joachim Jeremias, commentando l’invito di Gesù a tornare come bambini: per il Cristo «“diventar di nuovo bambino” significa imparare a dire di nuovo Abba».
Gli apostoli erano evidentemente stupiti dalla preghiera di Gesù, oltre che dalle sue parole, dai suoi gesti di carità, dai suoi miracoli: Egli sempre chiamava Dio Abba, come il Figlio che tutto riceve e si fida. Chiesero così al maestro che insegnasse loro a pregare, intuendo che egli avrebbe rinnovato in maniera decisiva la grande e splendida tradizione di preghiera che Israele possedeva. Gesù non si sottrasse a questa richiesta, insegnando la preghiera nuova, la più grande che mai sia esistita e che mai esisterà in terra, il Padre nostro.
I Padri della Chiesa e poi tanti santi e maestri nei secoli espressero in tanti modi l’enormità della preghiera nuova. Tertulliano scrisse: «La preghiera del Signore è veramente la sintesi di tutto il Vangelo». Come a dire che chi comprende quella preghiera ha compreso tutta la novità del Vangelo. Non una “preghierina”, quindi, come talvolta tragicamente si insegna ai bambini, ma la più grande preghiera dell’universo.
Possediamo i commenti al Padre nostro di San Cipriano, di Sant’Agostino, di San Tommaso, di Lutero, come di infiniti altri maestri. Tutti compresero che una catechesi che non spiegasse il Padre nostro mancherebbe in maniera grave al suo compito di far crescere una fede matura e per questo filiale.
Addirittura la Consegna del Padre nostro divenne uno dei passaggi fondamentali del cammino dei catecumeni, perché coloro che si preparano al Battesimo si soffermassero a meditare e a fare proprio quel testo parola per parola. Infatti è con il Battesimo che si diventa figli nel Figlio, tralci di un’unica Vite. È per il Battesimo che in noi prega lo Spirito di Gesù, è per il Battesimo che in noi lo Spirito grida Abba. È per il Battesimo che noi diciamo Padre nostro e non Padre mio, perché anche quando preghiamo nel segreto della nostra camera, non possiamo mai separarci dai fratelli che fanno parte con noi dell’unico corpo di Cristo.
Merita soffermarsi almeno sul commento che Francesco d’Assisi scrisse al Padre nostro - perché egli glossava il Vangelo! -, un testo che è probabilmente il canovaccio delle predicazioni che egli teneva nelle piazze delle città d’Italia per insegnare a pregare.
Il poverello d’Assisi commentava le prime parole del Padre nostro dicendo:
«O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.
Che sei nei cieli: negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce, infiammandoli all'amore, perché tu, Signore, sei amore, ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene».
Egli insegnava, cioè, la bellezza del rivolgersi a Dio in chiave trinitaria, perché il Padre nei cieli si era rivelato nel Figlio e nello Spirito. Dio era perciò non solo Creatore, ma anche Redentore e Consolatore. Ed è il Dio trino che illumina la conoscenza, infiamma d’amore e viene ad abitare nel cuore donando la sua beatitudine.
Francesco spiegava poi che quando preghiamo «Sia santificato il tuo nome» non intendiamo che si accresca la santità di Dio – poiché essa è già perfetta: preghiamo piuttosto che «si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, Dio, affinché possiamo conoscere l'ampiezza dei tuoi benefici, l'estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi», santificando cioè noi stessi a gloria di Dio.
Francesco voleva che tutti fossero coscienti che quando si prega «Venga il tuo regno» non si chiede che Dio inizia a regnare, come se questo non fosse già reale oggi: si prega piuttosto affinché «tu, Dio, regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli, l'amore di te è perfetto, la comunione di te è beata, il godimento di te senza fine». La preghiera chiede che l’uomo accetti che Dio regni su di noi.
Quando preghiamo «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» Francesco spiegava che noi dobbiamo chiedere che «ti amiamo, Dio, con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno». Cioè che noi possiamo amare Dio ed amare “i nostri prossimi” trascinandoli all’amore di Dio.
Quando chiediamo «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», non chiediamo solo il cibo di ogni giorno – e San Francesco non era vegetariano, ma godeva di ogni cibo, così come sapeva digiunare e privarsene per i poveri. Per Francesco con quella richiesta chiediamo soprattutto: «Il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì».
E quando preghiamo «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» noi chiediamo – spiegava il Santo di Assisi - che tu, Dio, li rimetta «per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l'intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti. Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa che pienamente perdoniamo sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti».
Ed infine, quando chiediamo «Non ci indurre in tentazione, liberaci dal male» chiediamo - diceva il Poverello: «Non ci indurre, Dio, in tentazione: nascosta o manifesta, improvvisa o insistente. Ma liberaci dal male: passato, presente e futuro». Dove appare evidente che è importante pregare perché esiste una tentazione voluta dal diavolo ed una prova che la vita stessa, guidata dalla provvidenza divina, ci impone ed in entrambe abbiamo bisogno che Dio sia con noi e ci venga in soccorso.
Dio, insegnandoci tramite il suo Figlio il Padre nostro, porta a compimento l’anelito alla preghiera che è in ogni uomo e ci dona di pregarlo non più solo come creature o come sudditi, ma ormai come figli, che si rivolgono personalmente al loro Padre, da cuore a cuore, aprendo il loro animo a colui che è Abba, a colui che è misericordia, forza e tenerezza.