Chi non rinuncia a tutto, non può essere discepolo, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (31/5/2015)
Domenico Ghirlandaio, Convocazione del popolo
della Nuova Alleanza, Cappella Sistina
Più volte Gesù volle proporre le beatitudini in una serie, per mostrarne la ricchezza e l’ampiezza, perché tutti ne fossero consolati e insieme provocati. Le due versioni di Matteo e Luca indicano che più e più volte egli dovette ripetere il suo annunzio tanto era importante. Ebbene all’inizio di esse c’è la beatitudine per i poveri: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3) e «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20).
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Non si tratta, quindi, solo di amare i poveri, ma anche di esserlo. L’uomo è spesso povero per ragioni indipendenti da colpe determinate. Lo è per il suo essere creatura, lo è per la brevità della sua vita e per la sua debolezza intrinseca. Ma lo diviene anche per l’ingiustizia degli uomini, per la differenza delle sorti per la quale è sufficiente nascere in un popolo o in un altro, in una famiglia o in un’altra, per avere tutto o niente.
Ebbene Dio spalanca il suo Paradiso proprio a chi è povero e a Lui si affida. La storia non giudica se stessa: anzi proprio chi in terra è stato ingiustamente umiliato, sarà esaltato. L’atteggiamento moderno sprezzante verso il giudizio finale, dimentica che senza di esso non vi sarebbe alcuna speranza per chi ha subito ingiustizia. Il giudizio, invece, è fonte di grande speranza e pace, perché assicura con certezza il rovesciamento delle sorti del malvagio e del giusto ad opera di Dio. Nell’accettazione della propria povertà è nascosta una beatitudine che è impossibile al ricco.
Ma, proprio per questo, Gesù, proclamando la beatitudine dei poveri, non intende promuovere una supina accettazione di tale condizione, bensì desidera che gli uomini vivano la vita impegnandosi per alleviarne il peso con la carità personale e con scelte sociali, conoscendo il cuore di Dio.
Ha così proposto la povertà a tutti, ha così proposto di divenire poveri come condizione della beatitudine, anche a chi non vi è soggetto per colpa di altri. Addirittura ha chiesto di rinunciare a tutto per seguirlo ed annunziare il suo Vangelo: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 33).
Ce ne ha anche mostrato la via. Gesù ha donato tutto per amore del Padre e degli uomini. Ogni sua ora, ogni incontro, ogni gesto sono stati una rinuncia e un’offerta.
E proprio per questo la sua povertà è ben diversa dal pauperismo, dove ciò che emerge è il disprezzo del possesso. Gesù, invece, non disdegnava i beni: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni» (Lc 8,1-3).
Il Cristo accettava l’invito a cena di benestanti, come erano alcuni pubblicani o farisei. E, nei trent’anni di vita nascosta, accettò un onesto lavoro da manovale - Gesù era tekton, ricorda Marco, cioè propriamente manovale e non falegname (dal termine tekton proviene il vocabolo architekton, architetto, capo di chi lavora come tekton).
Gesù di tutto faceva uso, ma tutto utilizzava perché divenisse segno di amore, Gesù tutto accoglieva, ma di tutto era pronto a spogliarsi nel dono e nella condivisione.
Ancora una volta sono i santi a mostrarci come vivere tale povertà. San Francesco d’Assisi, il santo che sposò “sorella povertà”, non volle che tutti vivessero come lui senza toccare denaro, ma fondò, oltre ai frati e alle clarisse, anche il Terz’ordine francescano, perché era consapevole che non esisteva un'unica modalità di vivere il Vangelo.
Possono appartenere al Terz’ordine francescano , secondo la sua intenzione, i laici e gli sposati, ma anche i preti. Francesco capiva bene che per un laico sposato non avrebbe avuto senso spogliarsi di tutti i beni, perché altrimenti egli sarebbe venuto meno all’amore per il coniuge e per i figli. Chi è sposato deve mettere da parte del denaro perché esso servirà per i momenti difficili della famiglia o, più ancora, per gli studi ed il futuro dei figli.
Ma, proprio per questo, anche la persona sposata dona i suoi beni ed è pronto a privarsene, poiché non li utilizza per il proprio egoistico godimento, bensì per le persone della famiglia di cui si sente responsabile. È provato dalle statistiche che chi ha tanti figli diviene povero. La povertà di una coppia di sposi è diversa da quella di una clarissa, perché essi possono - ed anzi, se Dio li aiuta, debbono avere anche un conto in banca.
Eppure gli è simile, perché essi sanno che tutto ciò che guadagnano non è per il beneficio di uno dei due, ma per permettere all’intera famiglia di vivere e crescere. Ed inoltre essi non pensano solo alla loro famiglia, ma lavorano, guadagnano ed educano perché tutti in casa crescano nell’apertura del cuore e nel servizio agli altri, attraverso l’aiuto alle missioni, attraverso il servizio della carità nella comunità cristiana, attraverso l’elemosina personale e così via. Lo stesso si deve dire di una gestione giusta di un’attività lavorativa: quanto persone, con grande generosità, continuano a condurre una vita sobria per reimpiegare il denaro guadagnato e salvare od aumentare i posti di lavoro per i dipendenti che hanno bisogno di lavoro.
Si comprende la peculiare povertà di chi vive donando tutto stesso nel sacramento del matrimonio anche dal punto di vista della castità e dell’obbedienza. Anche chi è sposato è tenuto alla castità, ma vivere la castità vuol dire per lui rifiutare di desiderare persone diverse dal coniuge, godendo invece della gioia della sessualità nel matrimonio. Allo stesso modo chi è sposato obbedisce alla Parola di Dio ed, insieme, al coniuge, rimettendo la sua volontà nelle mani della persona che ama, mentre il consacrato obbedisce oltre che a Dio, al suo superiore ed alla comunità. Nella Chiesa tutti sono tenuti all’obbedienza a Dio ed alla vita, tutti vivono la castità nel loro stato, tutti vivono il dono e la povertà, ma non allo stesso modo.
La Chiesa non è così chiamata dalle beatitudini solo a servire i poveri, ma anche ad essere essa stessa povera: la sobrietà nell’uso dei mezzi e la condivisione in famiglia e con chi è nel bisogno costituiscono uno stile di povertà per i laici cristiani, così come lo stile povero di una parrocchia consiste nella sobrietà dei mezzi utilizzati e nella loro finalizzazione al bene di tutta la comunità, perché essa possa servire nell’annunzio del Vangelo, nella condivisione e nel cammino di maturazione di tutti e della società stessa.