«Beati voi»: una morale per vivere la vita bella
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Il Centro culturale Gli scritti (31/5/2015)
Beato Angelico, Discorso della montagna,
Firenze, Convento di San Marco, Cella 23
Il discorso della montagna si conclude affermando che «quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» ( Mt 8,28-29).
La novità della parola di Gesù risuona nelle orecchie dei suoi ascoltatori ed essi percepiscono che testimonia di Dio in maniera assolutamente nuova, come mai si era udito. Pur non perdendo nulla della ricchezza della rivelazione veterotestamentaria, Gesù la porta ad un compimento assolutamente nuovo ed inatteso. Ed anche i discepoli di Cristo, come Matteo, potranno perciò essere «scribi che estraggono dal loro tesoro cose antiche e cose nuove» (Mt 13,52).
Proprio il tempo in cui viviamo desidera parole chiarificatrici, capaci di illuminare il cammino. Dovunque c’è qualcuno che responsabilmente e con passione si fa carico dell’“insegnamento”, sia i giovani che gli adulti ritrovano il coraggio delle domande, della ricerca, del confronto, che invece si spegne dinanzi a parole non significative, ripetitive o confuse.
In questa prospettiva, una peculiarità del linguaggio di Gesù, che scaturisce dalla sua conoscenza di Dio e dell’uomo, non deve essere mai dimenticata: il Cristo parla annunziando in ogni momento la beatitudine, annunziando che la sua proposta di vita è per la vita beata, anzi è l’unica via per raggiungere l’allegrezza piena.
Già il Libro dei Salmi si apre con la parola “beato” e il secondo Salmo si chiude con lo stesso termine, perché ciò che Dio vuole è la beatitudine dell’uomo. E proprio questo è il modo peculiare di parlare di Gesù: non dice «Voi dovete», ma dice piuttosto: «Beati voi quando» o all’opposto: «Guai a voi quando». È un modo assolutamente nuovo di comprendere la vita morale: le scelte sono il luogo dove ognuno realizza o perde se stesso, perché la morale è un essere, molto più che un fare e chi ama è nella gioia, mentre chi non ama si prepara una via di solitudine e di morte.
La Chiesa prima di canonizzare un santo, lo proclama “beato”: questo termine indica proprio la certezza che quella persona, vivendo nella volontà di Dio, ha gustato la vita buona proposta dal Signore, vita talvolta anche faticosissima, ma carica della bellezza del bene.
Il paradosso delle beatitudini è proprio quello di una presenza già reale, anche se incompleta, della felicità che promettono, ma insieme, dell’attesa di un compimento senza il quale esse non avrebbero senso. È il Cristo che se ne fa garante, egli che rese grazie nel momento di offrire se stesso nell’ultima cena che anticipava la croce mentre, insieme, ne sentiva tutto il peso che solo l’attesa della resurrezione consentiva di portare.
Le beatitudini proposte da Gesù sono tantissime, si pensi solo a «Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Lc 7,23), «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28), «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12,37-38), «Perché mi hai veduto, tu hai creduto, Tommaso; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29), «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35).
Se le beatitudini si rivolgono a tutta l’umanità, a coloro che sarebbero stati poveri di spirito così come puri di cuore, operatori di pace così come miti, affamati di giustizia così come misericordiosi, nondimeno l’espressione finale ne mostra l’immediata verità nella vita dei discepoli di Gesù: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11).
Quel “voi” è la parola rivolta espressamente ai discepoli di Cristo, chiamati a soffrire per la testimonianza del vangelo. Proprio i cristiani che subiscono il rifiuto e la condanna, se incompresi non per loro colpa, bensì per la fedeltà al loro Signore, partecipano della beatitudine del regno. Ecco che le beatitudini non solo un programma astratta, ma la vita che i discepoli concretamente vivono con Gesù, una vita che non è solo proclamata, ma già realizzata e visibile: le beatitudini sono la vita vissuta dalla stessa comunità cristiana che si realizzerà in Pietro, Giovanni, Giacomo, Paolo e gli altri.
Con quel “voi “ si aprono anche le parole immediatamente successive di Gesù: «Voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14). Gesù ama i suoi e conferisce loro un mandato che non può essere disatteso. Essi sono “luce” e “sale”. E sono luce e sale “della terra” e del “mondo”, proprio perché di sapore e di luce ha bisogno l’uomo. Non avrebbe senso essere sale e luce di una vita già pienamente gustosa e totalmente rischiarata.
Dietro i cliché di facciata, anche l’uomo del nostro tempo si accorge di un sapore che manca e di una luce che deve ancora rischiarare. Sapore e luce che non riguardano solo questa o quella situazione particolare, ma più radicalmente l’esistenza stessa.
Un intellettuale del settecento - Rudolf Erich Raspe - si divertì a scrivere le avventure del Barone di Münchhausen, una serie di avvenimenti inverosimili occorsi al suo personaggio. Oltre ad un viaggio sulla luna, ad un volo a cavalcioni di una palla di cannone, l’episodio più famoso è quello relativo al suo uscire salvo da una palude di sabbie mobili nella quale era caduto. Non essendoci alcun punto cui aggrapparsi per uscire dalla palude nella quale stava affondando, non essendoci né un ramo di un albero, né una roccia sporgente, il Barone del racconto uscì dal pericolo tirandosi fuori per i capelli.
Se un uomo, nella fantasia, può sollevarsi da solo a partire dai suoi stessi capelli, ben diversamente stanno le cose nella realtà. L’uomo si accorge ben presto che quel gusto e quella luce che egli cerca non può darseli da se stesso, bensì deve riceverli in dono. Tutta la grandezza del suo essere “soggetto” non sta nell’assolutizzarsi, bensì nel rivolgersi a Dio ed ai fratelli.
Di questo debbono essere testimoni i discepoli di Gesù. Senza quel sale e quella luce, l’insipido e le tenebre saranno la regola della vita. Per questo le “opere” che i discepoli sono chiamati a compiere non hanno valore in quanto pure azioni, bensì molto più come segni di una presenza più grande, quella del Padre.
Come ebbe ad affermare il grande Pavel Florenskij, matematico e teologo russo che morì fucilato dal regime comunista: «I vostri ‘atti buoni’ non vuole affatto dire ‘atti buoni’ in senso filantropico e moralistico: ymón tà kalà érga vuoldire ‘atti belli’, rivelazioni luminose e armoniose della spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d’una bellezza per cui si espande all’esterno ‘l’interna luce’ dell’uomo, e allora, vinti dall’irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini’ lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora».