Amare Cristo senza riconoscerlo immediatamente, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (21/5/2015)
Tante parabole di Gesù hanno illuminato e continuano ad illuminare la vita del mondo intero ed orientano scelte e comportamenti. Fra di esse una delle più famose è quella che il Cristo raccontò sulla spianata del Tempio. Quella parabola parla del giudizio finale ed in essa Gesù stesso si pone al centro del racconto affermando che il Figlio dell’uomo verrà e che il criterio del suo giudizio sarà la separazione tra coloro che hanno servito i poveri e coloro che non se ne sono curati.
Gesù presenta in sequenza sei categorie di gesti: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi, visitare gli infermi, visitare i carcerati. Ed afferma: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Le sue parole sono sconvolgenti ed assolutamente nuove. Gesù ne è consapevole ed aggiunge, infatti, al suo racconto il particolare apparentemente strano che nessuno di coloro che vengono giudicati ricorda di averlo mai servito, né di aver omesso di prestargli soccorso.
«Lo avete fatto a me», ecco la questione nuova. Utilizziamo espressioni simili quando affidiamo un figlio ad una persona lontana nella cui città si recherà a vivere: «Trattalo come se fossi io stesso. Abbine cura come se si trattasse della mia stessa vita». Anche quando diciamo di una persona che è la “pupilla dei nostri occhi” quegli occhi le cui palpebre si chiudono immediatamente quando c’è un pericolo, a protezione della “luce dei nostri occhi” - intendiamo qualcosa di simile: far del male a quella persona è come ferire la nostra vita.
Gesù si identifica ancora di più con il povero di quanto noi facciamo con una persona quando usiamo espressioni analoghe.
Sono i santi a mostrarcelo pienamente. San Filippo Neri diceva che «il lasciare i suoi gusti per aiuto del prossimo, cioè spirituali, era atto di gran perfezione et era lasciar Christo per Christo» (ricordo n. 53 del Maffa). Intendeva dire che chi si allontana dalla preghiera per servire una persona in difficoltà in realtà non sta abbandonando Cristo, ma sta incontrando Cristo in un altro modo, nel povero. Il Santo «soleva dire alle persone che andavano a servir gli infermi degli hospedali che non bastava far il servitio semplicemente a quello infermo, ma che bisognava, per farlo con maggior charità, imaginarsi che quello infermo fosse Christo e tener per certo che quello che faceva a quell'infermo lo faceva all'istesso Christo» (ricordo n. 40 del Maffa).
Merita ricordare anche San Giovanni Crisostomo: sebbene egli non abbia mai chiamato il povero espressamente “sacramento del Cristo”, tuttavia nei suoi scritti è evidente un parallelismo insistito tra l’eucarestia e la presenza di Gesù nel fratello.
Anche l’arte cristiana ha espresso questa identificazione: in un bellissimo affresco del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze, ancora oggi visibile nella porta di accesso alla foresteria dove si accoglievano i pellegrini, sono rappresentati due domenicani che ricevono un forestiero che è chiaramente il Cristo. Così in San Francesco, così in San Benedetto, così nell’esperienza di tante semplici persone di cuore.
La novità cristiana è proprio in questa identificazione di Gesù stesso con la singola persona nel bisogno, di modo che tutto ciò che è fatto ad uno solo di questi piccoli è fatto allo stesso Figlio di Dio, al punto da essere il discrimine del giudizio eterno - ancora una volta emerge la pretesa di Gesù di essere il discrimine.
Papa Francesco ha insistito su questo sguardo assolutamente nuovo, che è lo sguardo della carità: «Il povero, quando è amato, “è considerato di grande valore” e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che “i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come ‘a casa loro’”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?» (Evangelii Gaudium 199).
Questo sguardo assolutamente personale ha, allo stesso tempo, un enorme valore sociale, poiché libera dall’indifferenza e dall’egoismo di assolutizzare i propri presunti diritti.
Spesso si evoca a torto la libertà di coscienza per difendere, in realtà, un egoismo ed un disinteresse verso gli altri. La coscienza, invece, è una voce nel nostro intimo che ci obbliga ad impegnarci per i bisogni dell’altro. Se c’è qualcuno che non ha da mangiare o se ci sono migranti che fuggono da un luogo di guerra, la coscienza obbliga a mettere mano al proprio portafoglio o ad elaborare politiche di vera accoglienza e integrazione. La coscienza ordina, esige e non lascia tranquilli. Quanto è importante, proprio oggi: insegnare ai giovani che esiste una tale voce che parla in loro e che, se si pongono in ascolto di essa, è questa voce che chiede loro di dividere ciò che hanno con chi non ha niente così come è la stessa voce interiore che chiede loro di mettere a buon frutto le possibilità di studio che vengono loro offerte, mentre sono negate ad altri. Ma ovviamente è il mondo degli adulti, delle professioni e della politica che deve dare testimonianza di questa obbedienza alla voce imperiosa della coscienza che vieta di disinteressarci del nostro prossimo. La coscienza è proprio l’appello interiore a guardare il mondo con gli occhi dell’altro e, perciò, obbliga a conseguenti azioni sociali e politiche in difesa ed in aiuto del povero.
La coscienza, infatti, ricorda che non è la legge a fondare i diritti inalienabili dell’uomo, quanto piuttosto è il diritto che è obbligato a riconoscerli, poiché essi sono iscritti nella natura umana: non a torto si dice che la vita umana è sacra e tale affermazione è fatta propria anche da non credenti, perché intende difendere l’assolutezza della dignità umana e, quindi, anche del povero. Per l’uomo non vale la legge della selezione naturale, bensì ogni essere umano, soprattutto il più debole, deve essere protetto e sostenuto nella sua vita.
Il mondo è oggi come sconvolto da un utilizzo di parte dei diritti a beneficio dei più ricchi e a discapito dei più poveri. Papa Francesco ha scritto in proposito: «Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Bisogna ripetere che “i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri”» (Evangelii Gaudium 190). Ad esempio il diritto alla proprietà privata non può coprire la mancata condivisione con chi non ha niente. Allo stesso modo il desiderio di avere un figlio non può passare sopra il diritto di un bambino ad avere un padre ed una madre e sopra il diritto di una donna a non dover affittare il proprio utero per vivere.
Se Gesù con la parabola del giudizio fa riferimento al momento ultimo nel quale saranno rivelati i segreti dei cuori e delle azioni nascose, nondimeno le sue parole intendono proporsi come luce per rinnovare gli atteggiamenti dell’uomo di ogni tempo. Per questo dimenticarsi delle immediati ripercussioni sociali di tale parabola vorrebbe dire fraintenderla e relegarla in un ambito spiritualista.
Merita, infine, sottolineare un ultimo, ma decisivo aspetto dell’annunzio del giudizio. Abbiamo già visto come la presenza di Gesù nel povero sia un annunzio così nuovo che egli stesso racconta che nessuno dei protagonisti della sua parabola sembra essersene accorto in vita. Con questo rilievo Gesù intende annunziare che entreranno in Paradiso anche persone che non sono state cristiane. È meravigliosa questa larghezza di Dio nel giudicare: l’amore è talmente centrale che chi avrà amato i poveri ignorando il cristianesimo potrà essere lo stesso fra gli amici benedetti del Figlio.
Ed è importantissimo considerare, al contempo, che questo non vuol dire l’equivalenza di tutte le posizioni religiose. Perché almeno nel momento del giudizio tutti si accorgeranno che Cristo è il giudice e che il Paradiso consiste esattamente nello stare con Lui e con Dio Padre. Se uno non riconoscesse Cristo in quel momento ecco che sarebbe di fatto già precipitato nel nulla eterno.
Gesù annunzia, infatti, la sua venuta nella gloria. Gesù annunzia che in quel giorno tutti i suoi angeli lo accompagneranno e nessuno potrà sottrarsi al suo sguardo. Annunzia che il suo giudizio è stato previsto dal Padre suo fin dalla creazione del mondo - confermando la fede ebraica nel Dio Creatore, ma insieme annunziando che l’ultima venuta del Cristo è desiderata dal Padre prima ancora che il mondo fosse creato: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. […] Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”» (Mt 25,31-34).
Insomma quella parabola non è solo un’esaltazione della carità, ma è anche un testo cristologico dove, nuovamente, si dice che il Signore Gesù è il rivelatore della misericordia del Padre, perché il Padre e il Figlio dell’uomo tutto vedono a partire dall’amore per colui che ha bisogno di essere amato. Meglio: si potrebbe dire che questa parabola è un’esaltazione della carità esattamente perché è un testo cristologico, perché è Cristo a rivelarci che Dio è misericordia!
La vita eterna - annunzia questa parabola - è precisamente questo essere insieme a Cristo che è misericordia, essere da Lui giudicati, essere da Lui salvati.
Per tutti noi verrà il momento nel quale sarà manifesto il male che avremo compiuto ed il bene che non avremo saputo vivere integralmente. Eppure la misericordia ci esorta ancora a confidare in Cristo, perché sarà Lui a presentarci al Padre aggiungendo il merito del suo sangue versato sulla croce: perché abbiamo bisogno del suo amore.
È assolutamente sconvolgente accorgersi che nell’esperienza di vita degli uomini di Dio avviene esattamente così: più un Santo si avvicina a vivere la carità più piena, più riconoscerà che la sua salvezza non dipende dalle opere, ma dalla grazia e dalla misericordia con la quale si è amati dal Cristo. Gesù, insomma, se ci insegna l’importanza delle opere, non dimentica di insistere sul fatto che è per grazia che siamo salvati.