L’invito ad un banchetto che non sarà ricambiato, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (17/5/2015)
El Greco, Banchetto in casa di Simone (1608-1614)
Gesù ha amato banchettare. Il Cristo ha annunziato la possibilità reale della comunione, anzi la comunione come l’unica possibilità vera offerta all’uomo per essere felice. Gesù ha proposta a tutti di sedersi alla stessa mensa come figli dell’unico Padre, scoprendosi legati da una viva fraternità.
Ogni vero banchetto è costituito sia dal cibo e dal vino che lo allieta, sia, ancor più, dal sedersi insieme, scambiandosi il dono dell’affetto. Anzi proprio il banchettare esprime tale affetto, proprio il sedersi alla stessa mensa permette a coloro che si vogliono bene di parlare, di confidarsi e di condividere.
Proprio per questo Gesù accetta gli inviti ai banchetti e vuole che ad essi siedano come invitati privilegiati i piccoli ed i poveri. Così disse ad un fariseo che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,12-14).
Gesù vive una fraternità caratterizzata dal fatto che si offra senza attendersi alcuna ricompensa. Anzi egli da inizio a questa nuova fraternità e, così facendo, insegna a tutti che questa è la caratteristica della fraternità: «Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,46-47).
Gesù vuole che siano invitati quelli che non potranno ricambiare - il suo amore che guarda a tutti, ma sempre mette al centro i poveri, sarà giustamente chiamato con termine tecnico l’“amore preferenziale per i poveri” (o “opzione preferenziale per i poveri”). Gesù accoglie tutti come fratelli, come in una famiglia dove non si scelgono i fratelli, ma si accetta di vivere con loro e per loro chiunque essi siano, ma con un posto particolare riservato a chi è più in difficoltà: in una famiglia dove ci si vuole bene, tutti sono pronti a sostenere ed incoraggiare il più debole, il più piccolo. Così deve avvenire nella nuova comunità cui Gesù da inizio.
Anzi il Signore annunzia che accogliendo i più poveri non solo si realizza la vita nuova di chi ama, ma, ancor più, si riceve il dono di vedere il mondo con uno sguardo nuovo.
Infatti, sottolinea come siano proprio le persone che si affidano a Dio, siano proprio quelle che mostrano di avere bisogno del suo amore come i bambini e i poveri, che ci richiamano a quella necessità di Dio che è così vera e decisiva per tutti: «I discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”. Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”» (Mt 18,1-5.10).
Questo comprendere che i poveri sono un dono, perché obbligano tutti a cambiare vita, è decisivo. J. Vanier - il canadese fondatore dell’Arca e di Fede e Luce che pongono al centro la condivisione di vita con persone disabili - ripete spesso che se ci si limitasse ad essere generosi verso chi vive nella difficoltà, si giungerebbe al risultato di far sentire ancor più sole e inutili tali persone: ogni persona, infatti, si sente amata non solo perché c’è qualcuno che si sacrifica per lei, ma soprattutto perché c’è qualcuno che si sente arricchito da quell’incontro. Solo chi vede la bellezza di un’altra persona la ama davvero.
Papa Francesco ha scritto parole bellissime su questo dono di cui i deboli sono portatori: «I poveri hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole
comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium 198).
Il loro sguardo ci purifica e ci converte, se ci lasciamo toccare. Ricordo una riunione in cui con ragazzi di famiglie borghesi si stava discutendo di scelte lavorative che valorizzassero gli studi fatti ed una ragazza sudamericana, che dopo aver studiato nel proprio paese, lavorava come colf in Italia per pagare gli studi ai fratelli, disse: «Ma credete che la mia vocazione sia fare la colf? Voi parlate senza capire come funziona la vita, come ci siano dei sacrifici che si accettano per amore». E quel giorno tutti tacquero in silenzio. Esiste un diverso sguardo sul mondo che ci può liberare dalle nostre prospettive egoistiche.
Lo sguardo dei poveri chiede a tutti di iniziare a lottare per un mondo più giusto, perché è ingiusto che taluni possano realizzare i loro sogni e altri ne siano impediti, solo perché nati in una famiglia od in un popolo più povero.
Allo stesso modo, quello stesso sguardo ci ricorda che ogni uomo diventerà “povero” per la malattia, la vecchiaia, la morte che si avvicina, gli imprevisti. I poveri ricordano a tutti che il bisogno di essere aiutati appartiene alla condizione umana: perché siamo nati per essere amati e per amare.
È ancora J. Vanier che ama sottolineare come tutti nascondano il loro bisogno di essere amati dietro tentativi di apparire, di avere successo, di raggiungere il potere, di essere reputati colti ed intelligenti, al punto che quasi nessuno osa ammettere che è triste perché non sta amando e non è amato. E ricorda la libertà di un amico down che, invece, ti chiede, senza peli sulla lingua: «Tu mi vuoi bene?». Perché voler bene non vuol dire solo passare oggi qualche ora insieme, ma sapere che io sono bello per te e prezioso, e che domani e poi dopodomani e poi ogni giorno che verrà potrò contare su di te e potrò godere della tua amicizia. Questa libertà di chiedere e di offrire l’amore è uno dei doni che i “piccoli” ci fanno.
La fraternità con i poveri è un dono, ma è anche impegnativa: è un dono anche perché obbliga a convertirsi. Da questa fraternità nasce l’esigenza di condividere i beni anche materiali. La Chiesa ha sempre ricordato che, se da un lato la proprietà privata è un diritto, dall’altro i beni ci sono donati in vista di una destinazione universale, perché tutti abbiano il necessario per vivere e per crescere.
Gesù ha parole giustamente durissime per chi non si apre alla carità ed alla condivisione. Il ricco della parabola che non si è nemmeno accorto dell’esistenza del povero Lazzaro, che giaceva ai piedi della sua mensa, non avrà parte nel regno dei cieli e sarà estromesso dal Paradiso. Non si può essere cristiani senza sentire il grido di chi non ha l’essenziale per vivere, senza sentirsi chiamati a vivere in prima persona la condivisione.
I frati francescani che propongono ad Assisi itinerari di formazione cristiana per giovani sono soliti chiedere ad un certo punto del cammino una scelta: decidere di vendere qualche oggetto prezioso cui si tiene tanto, per avere il quale tanto si è penato e atteso, e di dare il ricavato ai poveri, tenendo il segreto sulla cosa, senza dirlo ad altri. E raccontano che questo gesto è un momento decisivo del cammino. La libertà dai propri beni, la disponibilità a toccare le proprie cose per amare, allarga veramente il cuore e rende capaci di successive rinunce.
Quando diventa ordinario il dono di ciò che si ha, il dono del proprio tempo, il dono della propria persona, ecco che si spalanca la possibilità di una vita nuova. Giungere a sposarsi un giorno vuol dire essere maturati al punto di essere in grado di spendere la propria vita nell’amore.
La carità verso i piccoli rende così capaci di scoprire che la carità abbraccia via via ogni ambito dell’esistenza. Il profeta Isaia aveva già proclamato questo: «Il digiuno che io [Dio] desidero non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?» (Is 58,7).
L’esperienza ci dimostra ogni giorno che chi accetta la nascita di un bambino in più nella propria famiglia diventa più povero, chi compie con professionalità il proprio lavoro e rifiuta di accettare denaro disonesto paga di persona, chi resta fedele all’amore ed all’amicizia promesse dona se stesso. Gesù ci annunzia che l’amore è dono, sempre e comunque e che la carità abbraccia tutto: abbraccia la nostra relazione con i poveri, così come la fatica intellettuale – Rosmini arrivò a parlare di “carità intellettuale” – come la vita familiare e professionale.
Mons. Di Liegro, che è stato direttore della Caritas diocesana di Roma, amava chiedere ad ogni professionista di donare alcune ore della propria professione gratuitamente a servizio di persone che non erano in grado di pagare quel servizio: che un dentista offra ai poveri di curare la loro bocca senza chiedere un compenso o che un avvocato si metta a disposizione per difendere la causa di persone non in grado di pagare una parcella, e così via, unendo così l’amore alla propria professione e la cura dei più “piccoli”.
Nella vita cristiana tutto può e deve essere trasfigurato dall’amore, di modo che - per fare i due esempi più grandi - un coniuge si accorgerà di donare ogni giorno se stesso, senza avere più niente di assolutamente proprio, così come un presbitero od una consacrata scoprirà di aver donato tutta la propria vita.