E Kant disse: selvaggi senza morale. Questione di pelle. Il razzismo moderno trova le sue prime fondamentali formulazioni fra i pensatori dell'Illuminismo, di Giuseppe Bedeschi
E Kant disse: selvaggi senza morale. Questione di pelle. Il razzismo moderno trova le sue prime fondamentali formulazioni fra i pensatori dell'Illuminismo, di Giuseppe Bedeschi
Riprendiamo da Il Sole-24 Ore un articolo di Giuseppe Bedeschi, apparso il 7/12/2003. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli Scritti (10/10/2009)
Non c'è bisogno di appoggiarsi alle osservazioni erudite di Cavalli Sforza per rendersi conto che la "razza", come entità tassonomica, è come minimo una nozione non chiara.
Del resto, coloro che hanno creduto nelle "razze" umane non sono mai stati capaci di mettersi d'accordo sul loro numero: al punto che gli splitters hanno trovato opportuno modificarle, mentre i lumpers hanno sostenuto l'esistenza di pochi, ben differenziati, gruppi razziali.
Verso la metà del XIX secolo il numero delle "razze" umane poteva variare da due a sessanta, a seconda dell'autore, come già rilevava ironicamente Darwin nell"Origine dell'uomo. E ciò non a caso: la definizione delle "razze", infatti, è assolutamente arbitraria, come sottolinea opportunamente Gianfranco Zanetti nel suo stimolante saggio La retorica della razza (pubblicato sul numero 3, della rivista "Filosofia politica", insieme ad altri «materiali per un lessico politico europeo: ghenos/razza, ai quali facevo riferimento).
Può essere utile ricordare a questo proposito - dice ancora Zanetti - che la differenza genetica fra un Africano e un Europeo non è poi molto superiore alla divergenza media tra gli Europei. Le variazioni visibili sono notoriamente fuorvianti: per esempio, il colore della pelle - il fattore più ovvio per le suddivisioni razziali - è molto simile nel caso degli Africani e degli Aborigeni australiani, ma fra i due gruppi la divergenza genetica è massima. L'Europa è relativamente omogenea, ma - con buona pace di Gobineau e seguaci - il continente è il risultato di una mescolanza genetica tra Africa e Asia avvenuta circa trentamila anni fa.
Detto ciò, il punto da spiegare è questo: se la nozione di "razza" non ha solide basi scientifiche («per quel che riguarda l'uomo le razze non esistono» ha dichiarato nel 1972 al College de France l'ematologo Jacques Ruffié), perché mai tale nozione si presenta sempre come dotata di un alone di oggettività, come sostenuta dal supporto indiscutibile di una altrettanto indiscutibile evidenza empirica?
La risposta a questa domanda deve essere cercata nella storia culturale dell'Occidente. In questa storia il concetto di "razza" emerge assai tardi. Esso non è rintracciabile nel pensiero antico. Nel suo bellissimo saggio I "barbari" di Platone e Aristotele, Enrico Berti mostra assai bene, attraverso un attento esame dei testi, che Platone e Aristotele, pur professando la distinzioni tra Greci e "barbari", e pur riconoscendo l'esistenza di alcuni fattori "naturali" che possono aver influito su di essa (ad esempio il clima), non attribuiscono mai la superiorità complessiva dei Greci sui "barbari" a quei fattori naturali, bensì a fattori che oggi diremmo di carattere "culturale", quali l'educazione, le leggi, la costituzione politica.
È solo con l'espansione europea oltre oceano, a partire dalla scoperta di Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco de Gama nelle Indie nel 1498, che la visione europea del mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento viene investita da una crisi profonda, e la civiltà europea entra in contatto con gruppi umani che non rientrano nella classificazione biblica. Si cerca allora di concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a un'umanità diversa e sino allora sconosciuta.
Su questa concettualizzazione hanno avuto un peso decisivo, naturalmente, il dominio degli Spagnoli sugli Indios trovati in America e la schiavitù dei neri importati dall'Africa. Poi, con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire dalla metà del Seicento, sono state Olanda, Inghilterra e Francia ad assumere un ruolo preminente tanto nel campo dell'espansione coloniale, quanto in quello delle teorie razziali.
Queste ultime si impongono con forza anche in alcuni eminenti rappresentanti dell'Illuminismo, e mostrano subito i veleni di cui sono intrise. Così David Hume, in una nota per l'edizione del 1754 dei suoi Essays, presentò in forma condensata gli argomenti tipici del razzismo moderno: egli diceva che i neri erano per natura inferiori, privi di un ingegno superiore, e quindi privi di civiltà.
Kant, a sua volta, introdusse in Germania il concetto di "razze", distinguendone quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o indostanica. Il criterio in base al quale egli operava questa distinzione era in primo luogo una caratteristica fisica: il colore della pelle. Ciò però non impediva a Kant di attribuire alle "razze" precisi connotati intellettuali e morali: asseriva infatti l'inferiorità dei neri, perché «i negri d'Africa non possiedono per natura alcun sentimento più elevato della stupidità», e «il negro si colloca infatti al livello più basso tra quelli individuati in termini di diversità razziali».
Oppure, trattando delle popolazioni del Nord America, Kant affermava che «tutti questi selvaggi hanno scarso sentimento del bello in senso morale». (Si veda il bel saggio di Maria Lalatta Costerbosa, Kant e la teoria delle razze). Più tardi, poi, sarebbero venute le "teorie" su una "razza" considerata pericolosissima, gli Ebrei, dei quali già nel Settecento un altro eminente filosofo, il Fichte, proponeva l'espulsione dal suolo tedesco.
Riprendiamo da Il Sole-24 Ore un articolo di Giuseppe Bedeschi, apparso il 7/12/2003. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli Scritti (10/10/2009)
Non c'è bisogno di appoggiarsi alle osservazioni erudite di Cavalli Sforza per rendersi conto che la "razza", come entità tassonomica, è come minimo una nozione non chiara.
Del resto, coloro che hanno creduto nelle "razze" umane non sono mai stati capaci di mettersi d'accordo sul loro numero: al punto che gli splitters hanno trovato opportuno modificarle, mentre i lumpers hanno sostenuto l'esistenza di pochi, ben differenziati, gruppi razziali.
Verso la metà del XIX secolo il numero delle "razze" umane poteva variare da due a sessanta, a seconda dell'autore, come già rilevava ironicamente Darwin nell"Origine dell'uomo. E ciò non a caso: la definizione delle "razze", infatti, è assolutamente arbitraria, come sottolinea opportunamente Gianfranco Zanetti nel suo stimolante saggio La retorica della razza (pubblicato sul numero 3, della rivista "Filosofia politica", insieme ad altri «materiali per un lessico politico europeo: ghenos/razza, ai quali facevo riferimento).
Può essere utile ricordare a questo proposito - dice ancora Zanetti - che la differenza genetica fra un Africano e un Europeo non è poi molto superiore alla divergenza media tra gli Europei. Le variazioni visibili sono notoriamente fuorvianti: per esempio, il colore della pelle - il fattore più ovvio per le suddivisioni razziali - è molto simile nel caso degli Africani e degli Aborigeni australiani, ma fra i due gruppi la divergenza genetica è massima. L'Europa è relativamente omogenea, ma - con buona pace di Gobineau e seguaci - il continente è il risultato di una mescolanza genetica tra Africa e Asia avvenuta circa trentamila anni fa.
Detto ciò, il punto da spiegare è questo: se la nozione di "razza" non ha solide basi scientifiche («per quel che riguarda l'uomo le razze non esistono» ha dichiarato nel 1972 al College de France l'ematologo Jacques Ruffié), perché mai tale nozione si presenta sempre come dotata di un alone di oggettività, come sostenuta dal supporto indiscutibile di una altrettanto indiscutibile evidenza empirica?
La risposta a questa domanda deve essere cercata nella storia culturale dell'Occidente. In questa storia il concetto di "razza" emerge assai tardi. Esso non è rintracciabile nel pensiero antico. Nel suo bellissimo saggio I "barbari" di Platone e Aristotele, Enrico Berti mostra assai bene, attraverso un attento esame dei testi, che Platone e Aristotele, pur professando la distinzioni tra Greci e "barbari", e pur riconoscendo l'esistenza di alcuni fattori "naturali" che possono aver influito su di essa (ad esempio il clima), non attribuiscono mai la superiorità complessiva dei Greci sui "barbari" a quei fattori naturali, bensì a fattori che oggi diremmo di carattere "culturale", quali l'educazione, le leggi, la costituzione politica.
È solo con l'espansione europea oltre oceano, a partire dalla scoperta di Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco de Gama nelle Indie nel 1498, che la visione europea del mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento viene investita da una crisi profonda, e la civiltà europea entra in contatto con gruppi umani che non rientrano nella classificazione biblica. Si cerca allora di concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a un'umanità diversa e sino allora sconosciuta.
Su questa concettualizzazione hanno avuto un peso decisivo, naturalmente, il dominio degli Spagnoli sugli Indios trovati in America e la schiavitù dei neri importati dall'Africa. Poi, con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire dalla metà del Seicento, sono state Olanda, Inghilterra e Francia ad assumere un ruolo preminente tanto nel campo dell'espansione coloniale, quanto in quello delle teorie razziali.
Queste ultime si impongono con forza anche in alcuni eminenti rappresentanti dell'Illuminismo, e mostrano subito i veleni di cui sono intrise. Così David Hume, in una nota per l'edizione del 1754 dei suoi Essays, presentò in forma condensata gli argomenti tipici del razzismo moderno: egli diceva che i neri erano per natura inferiori, privi di un ingegno superiore, e quindi privi di civiltà.
Kant, a sua volta, introdusse in Germania il concetto di "razze", distinguendone quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o indostanica. Il criterio in base al quale egli operava questa distinzione era in primo luogo una caratteristica fisica: il colore della pelle. Ciò però non impediva a Kant di attribuire alle "razze" precisi connotati intellettuali e morali: asseriva infatti l'inferiorità dei neri, perché «i negri d'Africa non possiedono per natura alcun sentimento più elevato della stupidità», e «il negro si colloca infatti al livello più basso tra quelli individuati in termini di diversità razziali».
Oppure, trattando delle popolazioni del Nord America, Kant affermava che «tutti questi selvaggi hanno scarso sentimento del bello in senso morale». (Si veda il bel saggio di Maria Lalatta Costerbosa, Kant e la teoria delle razze). Più tardi, poi, sarebbero venute le "teorie" su una "razza" considerata pericolosissima, gli Ebrei, dei quali già nel Settecento un altro eminente filosofo, il Fichte, proponeva l'espulsione dal suolo tedesco.