Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso (a cura di Giorgio Bernardelli)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /05 /2015 - 08:36 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo alcuni articoli dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso, pubblicato sulla rivistaTerrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti vedi la sotto-sezione Ebraismo nela sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2013)

1/ Il puzzle dell’ebraismo

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso,Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, pp. 28-31

Ashkenaziti - ovvero discendenti dagli ebrei dell'Europa dell'Est - oppure sefarditi, cioè «di rito spagnolo», ma nel senso ampio di provenienti da tutte quelle comunità del Nord Africa e Medio Oriente che accolsero gli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492. E poi hassidim o lituani, modern orthodox o appartenenti al movimento del sionismo religioso. Il primo dato di fatto da tenere bene in mente è che gli ebrei religiosi a Gerusalemme sono un mondo molto più stratificato rispetto allo stereotipo dell'uomo col soprabito nero e il cappello a larghe tese che è facilissimo incontrare per le strade della Città Santa. Proviamo, dunque, a iniziare questo viaggio fissando alcuni punti di riferimento per orientarsi dentro a quella che - come vedremo - è una vera e propria galassia.

Intanto quanti sono gli ebrei religiosi oggi in Israele? È difficile dirlo con precisione, perché le stime si basano su sondaggi legati alla percezione di se stessi e dunque variano anche di parecchio. Un ordine di grandezza abbastanza attendibile, però, è quello che identifica come religioso circa un terzo della società israeliana. Bisogna comunque intendersi bene anche rispetto a questa proporzione: non vuole automaticamente dire che tutti gli altri sono hilonim, cioè laici nell'accezione di non religiosi. Nel mezzo c'è infatti il vasto gruppo di coloro che si sentono ebrei per tradizione (masorti in ebraico) ma non per questo seguono tutti i precetti dell'ebraismo. Ed è uno spettro che ha sfumature tra loro molto diverse: c'è chi accende le candele all'arrivo dello shabbat ma non si reca in sinagoga, chi mangia comunque cibo kosher,chi celebra solo il seder - la cena rituale - nella Pasqua ebraica (ben l'85 per cento degli ebrei israeliani dichiara di farlo) o chi guarda al proprio ebraismo solo come ad una serie di gesti che preservano un'identità.

Alla fine il dato forse più significativo per capire quanto conti davvero la religione in Israele è quello delle scuole. Perché puoi barcamenarti fin che vuoi tra uno stile di vita laico e i precetti, ma quando si pone la questione dell'educazione dei figli devi comunque compiere una scelta. Che a Gerusalemme non è solo tra scuola pubblica o scuola religiosa: anche nel sistema di istruzione pubblico, infatti, si può decidere tra un insegnamento di impronta laica e quello religioso. I dati dicono che la maggioranza dei ragazzi frequenta tuttora scuole laiche; ma il trend è quello di una forte crescita nelle iscrizioni alle scuole religiose: su un totale di 1.148.429 alunni presenti oggi negli istituti di ogni ordine e grado in Israele, gli iscritti alle scuole pubbliche non religiose sono 660.412 (che vuol dire circa 2 mila in meno rispetto all'anno scorso). Sono invece aumentati sia quelli iscritti alle scuole pubbliche di impronta religiosa (209.310) sia quelli che frequentano le scuole gestite direttamente dai religiosi (230.692). E in quest'ultimo settore il balzo in avanti rispetto all'anno precedente è stato addirittura del 3,76 per cento, con oltre 8 mila studenti in più in soli dodici mesi.

Crescono i religiosi e calano i laici, dunque. Ma bisogna aggiungere subito un'altra domanda fondamentale: che cosa significa essere ebrei religiosi in Israele? La risposta è: tante realtà tra loro molto diverse. Perché, appunto, per ragioni storiche, per le provenienze composite, per una serie di atteggiamenti diversi di fronte al mondo circostante, l'ebraismo ha preso tante strade variegate. Un fatto che per il mondo ebraico non è per niente strano: non esistendo una gerarchia ogni rabbino interpreta la Torah a partire dagli insegnamenti dei maestri; lo stesso Talmud - ad esempio - è un'opera dialettica, in cui intorno allo stesse parole fondamentali si discute, si offrono letture differenti. Per cui è in qualche modo normale per un ebreo che ogni comunità segua la sua strada.

Non significa, però, che dentro a questa grande pluralità non siano identificabili correnti ben precise. A livello globale oggi se ne indicano essenzialmente tre: la prima è l'ebraismo ortodosso,quello cioè rimasto più strettamente legato alla tradizione. La sua idea di fondo è che occorra mantenere immutate l'etica e l'applicazione delle norme della Torahcosì come sono state tramandate dai padri. In contrapposizione a questa visione, nell'Ottocento - nel solco dell'illuminismo e dell'emancipazione ebraica, prima in Europa e poi negli Stati Uniti - sono nati invece altri due modi di vivere l'ebraismo, molto più sensibili al confronto con ciò che ebraico non è: l’ebraismo riformato si colloca all'estremo opposto rispetto a quello ortodosso; ha alla sua base, infatti, l'idea che occorra riformare la tradizione ebraica, spogliandola di buona parte dei suoi precetti per mantenere intatti solo i principi di fondo. È sorta, però, anche una via mediana, quella dell'ebraismo conservatore (aggettivo in questo caso privo di connotazioni politiche): secondo questa corrente la tradizione ebraica va sì conservata,ma non in maniera letterale; si tratta piuttosto di rileggerla storicamente, distinguendo tra ciò che era legato a un certo tempo e ciò che resta valido.

Riformati e conservatori oggi rappresentano di gran lunga le correnti più importanti negli Stati Uniti, la grande comunità che con i suoi oltre 5 milioni di ebrei è l'altro grande polo dell'ebraismo mondiale. Ma se parliamo di Israele ebraismo significa tuttora essenzialmente ebraismo ortodosso.Non che a Gerusalemme manchino le sinagoghe riformate o conservatrici,ma sono comunque avvertite come comunità «straniere». Anche perché l'ebraismo istituzionale nella Città Santa - quello del Gran Rabbinato, per intenderei - è un ebraismo rigidamente ortodosso: matrimoni e conversioni celebrati in sinagoghe non ortodosse, ad esempio, non vengono affatto riconosciuti. E dal momento che - come spieghiamo in un altro articolo - da sempre per lo Stato di Israele sono matrimoni solo quelli attestati dal Rabbinato, riformati e conservatori sono costretti al paradosso di doversi sposare all'estero per vedere riconosciuta nel proprio Paese la propria unione. Anche al di là di questi problemi pratici, però, per gli stessi ebrei laici israeliani religioso è sinonimo di ortodosso.

Per dirla con una battuta: la sinagoga in cui non vanno - o a cui si accostano solo per il Bar Mitzvah o per qualche funerale - è comunque una sinagoga ortodossa. Stabilito questo, va subito aggiunto che pure l'ebraismo ortodosso in Israele ha le sue ramificazioni. E anche in questo caso occorre distinguere tre grandi gruppi. Ci sono innanzi tutto gli haredim, quelli che definiamo gli ultra-ortodossi, che sono uno dei volti degli ebrei religiosi in Israele. La parola letteralmente significa «timorati di Dio»: sono quelli che a Gerusalemme vivono in luoghi come il celeberrimo quartiere di Meah Shearim e che si presentano tuttora anche nell'abbigliamento come se vivessero in una comunità lituana o ucraina di inizio Novecento. Come già detto sui numeri bisogna andarci molto cauti, ma la stima è che rappresentino intorno al 10 per cento dell'attuale popolazione ebraica israeliana. Hanno un rapporto abbastanza conflittuale con le istituzioni laiche dello Stato d'Israele ed è stato così fin all'inizio. Il motivo non è difficile da capire: per loro l'unica legge è la Torah. Inizialmente erano addirittura antisionisti, proprio perché il sionismo era un movimento laico, mentre per loro l'indipendenza politica degli ebrei sarebbe potuta giungere solo con l'era messianica. Poi la storia del Novecento li ha portati a scendere a patti con lo Stato ebraico (anche se un piccolo gruppo di loro abbastanza famoso - i Neturei Karta - tuttora non lo accetta e pur di portare avanti il proprio antisionismo è diventato filo-arabo). Vivono comunque come un gruppo a sé nei propri quartieri e - soprattutto a Gerusalemme - non è raro che scoppino conflitti anche violenti con i laici o con la polizia, accusata di non far rispettare come loro vorrebbero le norme dello shabbat o la separazione tra uomini e donne sugli autobus.

Dal punto di vista spirituale gli haredim si dividono tuttora nelle due grandi correnti che si fronteggiavano nell'Europa Orientale del XVIII secolo: gli hassidim -letteralmente «i pii», che sulla scorta degli insegnamenti di Baal Shem Tov propugnano un ebraismo incline più al misticismo che al legalismo - e i misnagdim (gli «oppositori» indicati anche come i lituani) che sulla scia tracciata dal Gaon di Vilna si opponevano agli hassidim riaffermando il primato dello studio della Torah. Entrambe queste tendenze sono evidentemente di impronta ashkenazita:non c'erano gli haredim in comunità come quelle di Djerba, Tripoli o Baghdad, dove l'ebraismo era cresciuto in un contesto molto meno isolato rispetto all'ambiente esterno. Giunti in Israele, però, anche i sefarditi hanno cominciato a frequentare le scuole ultraortodosse. E così si è andato affermando anche un altro gruppo, quello degli haredim sefarditi,legati comunque ai propri rabbini e alle proprie sinagoghe.

Da questa prima grande corrente degli haredim se ne è andata progressivamente staccando una seconda, quella dei cosiddetti hardalim:la parola è una fusione dei termini haredi e leumi e significa haredim nazionalisti. Sta a indicare un gruppo che è rimasto sì molto legato a un'osservanza strettissima dell'ortodossia più tradizionale, ma a differenza degli altri haredim l'ha declinata nel segno di un sionismo di matrice religiosa. Qui il punto di riferimento spirituale fondamentale è la figura di Avraham Yitzhak Kook, il primo rabbino capo ashkenazita di Gerusalemme al tempo del Mandato britannico. Il loro è un ebraismo in cui l'abitare la terra di Israele ha un peso molto forte: non a caso molti hardalim oggi vivono in Giudea e Samaria, cioè nei Territori contesi ai palestinesi. Ed è in questo stesso alveo che è nato il Gush Emunim,il «blocco dei fedeli», punto di riferimento ideologico per il movimento dei coloni. Altra grossa differenza: molti uomini all'interno di questo gruppo non chiedono l'esenzione dal servizio militare per dedicarsi allo studio della Torah - come fanno gli haredim.Si arruolano invece nel Nahal Haredi,l'unità speciale creata per conciliare l'attività nell'esercito con la vita spirituale e l'osservanza delle più strette regole dell'halakha,le norme religiose ebraiche.

Da entrambi i gruppi, infine, si distingue quello che si definisce l'universo dei dati leumi («nazionalisti religiosi»), che è sostanzialmente di impostazione modern orthodox:sono gli ebrei osservanti dei precetti della tradizione ebraica, ma che ambiscono a vivere la propria religiosità dentro l'orizzonte della modernità e non in un ambiente separato. Anche all'interno di questa definizione molto generale le forme possono essere assai diverse, a seconda della sinagoga o della yeshiva (la scuola rabbinica) frequentata. Ci sono, però, alcuni tratti fondamentali comuni: a differenza degli haredim - ad esempio - lo studio non è solo studio della Torah,ma è più aperto anche alle altre discipline del sapere. La professione o il modo di vestire sono uguali a quelli di qualsiasi israeliano non religioso (eccetto il fatto che indossano la kippah).Alle ragazze sono offerte le stesse opportunità d'istruzione (anche se nelle sinagoghe non si pratica l'egualitarismo tra uomini e donne, come avviene invece nell'ebraismo conservatore).Soprattutto non esiste alcun conflitto con l'idea dello Stato di Israele: in un certo senso, dunque, il mondo dati leumi è sionista per definizione.

Per concludere questa prima carrellata vale infine la pena di aggiungere che tra le leggende metropolitane molto in voga tra i turisti a Gerusalemme c'è quella secondo cui i diversi gruppi si riconoscono a seconda della kippah che indossano. Leggenda che - come sempre - contiene una parte di verità: ad esempio gli haredim solitamente indossano una kippah di velluto nero, mentre un modern orthodox è più facile che in testa ne abbia una realizzata all'uncinetto. Di qui, però, a stilare un manuale ce ne corre. In fondo sarebbe solo un altro modo per banalizzare una complessità che forse è un po' più interessante dell'eterno gioco delle divise dei soldatini.

2/ Un Paese per due rabbini

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso,Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, p. 32

Se l'ebraismo non contempla al suo interno l'idea di una gerarchia, che cosa rappresenta in Israele il Gran Rabbinato? E che ruolo hanno le figure dei due rabbini capo, quello ashkenazita e quello sefardita? Il Gran Rabbinato è un organo ufficiale dello Stato cui è affidata l'autorità riguardo alle materie che hanno a che fare con l'applicazione dell'halakha,la legge religiosa ebraica. Le sue origini risalgono ancora alla legislazione ottomana, che seguiva il principio della millet: a ogni comunità religiosa era garantito l'esercizio di una giurisdizione propria per le materie che riguardano lo statuto della persona (matrimoni, dispute di famiglia, regole alimentari...).

Per questo motivo fin dal XVII secolo, per gli ebrei orientali che già prima dell'immigrazione sionista vivevano a Gerusalemme, l'autorità riconosciuta dal sultano turco era il Rishon LeZion (il «primo di Sion»), cioè il leader spirituale della (allora piccola) comunità: era lui a giudicare sulle controversie legate alla sfera religiosa ebraica.

Quando nel 1921 agli ottomani subentrarono gli inglesi fu quello stesso sistema a essere sviluppato nell'idea del Rabbinato. Apportando - però - una modifica importante, legata al volto nuovo che andavano assumendo le comunità ebraiche in Palestina: accanto al Rishon LeZion sefardita, infatti, fu istituita la figura del rabbino capo per gli ashkenaziti, gli ebrei immigrati dall'Europa a partire dal 1880. Per evitare poi fratture con i religiosi - che guardavano con sospetto all'ideologia sionista di matrice laica e socialista - quando nacque lo Stato di Israele David Ben Gurion optò per mantenere il sistema ereditato dagli inglesi. Così nel 1947 negoziò con i partiti religiosi un accordo intorno al principio dello status quo:in forza di questo patto - passato indenne a ogni cambio di governo a Gerusalemme -, il Rabbinato ha tuttora giurisdizione esclusiva su parecchi aspetti della vita degli ebrei in Israele. Ad esempio l'unico matrimonio valido davanti alla legge è quello religioso (per di più solo se certificato da una sinagoga ortodossa). Ed è sempre il Rabbinato a fornire le certificazioni della kasherut (l'osservanza delle norme alimentari ebraiche, requisito fondamentale per le industrie alimentari o per i pubblici esercizi in Israele), a sovrintendere ai cimiteri, a sancire le conversioni all'ebraismo, a stabilire chi è ebreo oppure no (particolare molto importante per via del diritto automatico di cittadinanza ai figli di madre ebrea garantito dalla Legge del Ritorno). Dal 1953, inoltre, sono state istituite le corti rabbiniche che giudicano su tutti i casi legati all'halakha;questi tribunali - in particolare - sono gli unici ad avere competenze in Israele riguardo a matrimoni e separazioni.

Dunque il Rabbinato è più un insieme di funzionari pubblici che un punto di riferimento spirituale, funzione svolta molto di più dal rabbino della comunità che ciascuno sceglie di frequentare. Tanto più che è proprio una legge dello Stato a stabilire le norme per il funzionamento dell'organismo. I due rabbini capo - che si alternano alla guida del Gran Rabbinato - sono eletti ogni dieci anni da una speciale assemblea formata da 150 componenti, 80 dei quali rabbini e 70 rappresentanti pubblici (due membri del governo, i sindaci delle 25 maggiori città israeliane e una serie di rappresentanti di tutti gli altri organi locali). L'ultima elezione si è svolta nel 2003 e ha designato gli attuali due rabbini capo: l'ashkenazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Amar. Nella guida del Gran Rabbinato sono coadiuvati da un Consiglio che comprende altri tre membri di diritto (i rabbini capo di Tel Aviv, Haifa e Beer Sheva) e dieci che vengono eletti per un mandato di cinque anni (rigorosamente distinti in cinque rappresentanti ashkenaziti e cinque sefarditi).

3/ Rabbi Kook. Tra terra e Scrittura

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso, Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, p. 35

Se nell'Europa Orientale il sionismo in origine era un'ideologia laica e socialista, come ha fatto poi in Israele a nascere il sionismo religioso? Per capirlo bisogna tenere a mente una figura fondamentale nella storia religiosa di Israele: quella del primo rabbino capo ashkenazita Avraham Yitzchak Kook. Era nato in Lituania nel 1865 e si era subito distinto tra gli studenti della yeshiva di Volozhin. Fu lui a elaborare l'idea che il ritorno in terra di Israele, non avesse un significato solo politico ma anche religioso. Era convinto che persino i pionieri più antireligiosi che hanno dato vita ai kibbutz stessero inconsapevolmente realizzando un disegno divino di redenzione per il popolo ebraico dopo i secoli dell'esilio. Così nel 1904 Kook parti lui stesso per la Palestina dove diventò il rabbino di Jaffa: il porto di approdo dei sionisti, ma anche il posto più vicino a quelle nuove comunità di pionieri che presto avrebbero dato vita a Tel Aviv, la prima moderna città ebraica in
terra d'Israele. Fu così che - a stretto contatto con quella comunità in piena crescita - portò avanti la sua idea guida: quella che l'abitare e coltivare la terra non potesse essere separato dalla lettura e dallo studio della Torah.

Quando poi, subito dopo la prima guerra mondiale, diventò il primo rabbino capo a Gerusalemme, nel 1924 diede anche vita alla yeshiva Mercaz HaRav, una scuola rabbinica pensata con al centro proprio il tema dell’amore per la terra di Israele. Un luogo di studio che sorgeva in quella che oggi è HaRavKook Street, significativamente a metà strada tra Meah Shearim, il quartiere degli ultra-ortodossi, e Zion Square, la piazza sionista per eccellenza. E che nasceva in contemporanea all’Università Ebraica, quasi a indicare l'insufficienza del grande centro di cultura laico per dare futuro agli ebrei a Gerusalemme. Per Avraham Kook il tema della terra di Israele aveva, comunque, ancora una valenza più spirituale che politica. A imprimere la svolta in questo senso fu invece suo figlio Zvi Yehuda Kook che assunse la guida della Mercaz HaRav alla morte del padre nel 1935. Divenne celebre per le sue invettive su Hebron, la città della tomba di Abramo, che gli ebrei erano stati costretti dagli inglesi ad abbandonare dopo la strage del 1929 ed era poi rimasta fuori dallo Stato di Israele dopo l'armistizio del 1949. «Dov'è la nostra Hebron, ce ne stiamo forse dimenticando?», tuonava dalla sua yeshiva Zvi Yehuda Kook. Non stupisce, dunque, che proprio dalle fila della Mercaz HaRav siano usciti gli ideologi del Gush Emunim,il movimento che negli anni Settanta e Ottanta è stato il principale motore della nascita della colonie in Giudea e Samaria, che per loro erano la parte della terra d'Israele da strappare ai palestinesi di Cisgiordania. Tuttora questa scuola rabbinica resta il punto di riferimento per la destra religiosa israeliana.     

La yeshiva oggi non sorge più nel centro della città, ma in un grande college in grado di ospitare 700 studenti nella zona del modernissimo ponte progettato da Santiago Calatrava. Nel marzo 2008 è stata oggetto di un attacco terroristico costato la vita a otto suoi studenti. Il segno più visibile all’ingresso sono alcuni alberi che con le loro targhette stanno lì a ricordare i nomi degli insediamenti sgomberati dal primo ministro Ariel Sharon a Gaza e nel nord della Samaria nel 2005. Un pezzo di terra di Israele che ora non c’è più, ma che qui non si vuole affatto dimenticare.

4/ La culla del pluralismo

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso,Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, pp. 40-41

«Ci considerano l'ala sinistra del mondo modern-orthodox. E probabilmente hanno ragione...». Nel suo studio all'interno del bellissimo campus dello Shalom Hartman Institute,a due passi dal Jerusalem Theatre, ci spiega così dove siamo il professar Loberbaum Menachem. Se c'è un posto in Israele dove cercare un ebraismo esattamente agli antipodi rispetto a Meah Shearim,è da qui che probabilmente bisogna partire. Da un centro accademico voluto da David Hartman, un rabbino immigrato dal Canada nella Città Santa nel 1971 con un obiettivo quanto mai ambizioso: studiare e promuovere a Gerusalemme la via ebraica al pluralismo religioso. Dare vita a un posto dove sia normale studiare il pensiero ebraico in rapporto a tutti gli altri volti del pensiero contemporaneo. Un progetto divenuto realtà nel 1976 e che oggi - sotto la guida di suo figlio Donniel - è cresciuto fino a diventare un sistema che comincia da una high school frequentata da 350 ragazzi e comprende anche realtà come la rivista filosofica e i seminari estivi organizzati per gli studenti delle scuole rabbiniche.

«Il nostro impegno è quello di far crescere un pensiero ebraico che rafforzi il pluralismo religioso - conferma Loberbaum -. Siamo qui ormai da 35 anni. Non c'è dubbio che siamo una minoranza, ma abbiamo creato un'alternativa educativa dentro all'ebraismo ortodosso israeliano. E la nostra presenza ha anche un grande impatto sugli studi accademici in Israele». Proprio chi ci parla ne è una prova lampante: oltre a essere infatti un membro del comitato esecutivo dello Shalom Hartman Institute il professar Loberbaum dirige il corso di laurea in filosofia alla laicissima Università di Tel Aviv. E da grande esperto del rapporto tra giudaismo e filosofia politica, è anche il curatore della traduzione in ebraico del Leviatano di Thomas Hobbes.

Viene spontaneo, dunque, chiedergli come veda le tensioni crescenti in Israele intorno al tema dell'halakha, lalegge religiosa ebraica, con i partiti religiosi che cercano sempre più apertamente di affermarne il primato sulle leggi dello Stato. Loberbaum ci risponde spiegando che il problema nasce da lontano; e mette l'accento su due passaggi cruciali che hanno cambiato le carte in tavola negli ultimi quarant'anni.

«Il primo è stato nel 1973 l'esito della guerra dello Yom Kippur - osserva-. Ha dato origine a due movimenti in qualche modo speculari: a sinistra i pacifisti di Peace Now,a destra i coloni del Gush Emunim. Sono due realtà create dalla stessa generazione, dalle stesse esperienze, dalla stessa idea che quella guerra avesse rappresentato un fallimento non solo politico, ma anche culturale. E il Gush Emunim ha trasformato profondamente l'ebraismo modern-orthodox:da quel momento non è stato più il partner debole del sionismo socialista, ma un movimento d'avanguardia di destra che lotta per un massimalismo territoriale. L'altro evento importante, poi, è stato l'avvento dello Shas,all'inizio degli anni Ottanta. Una forma di ortodossia popolare sefardita è stata traghettata come membro a pieno titolo nella politica israeliana, cosa che la leadership ultra-ortodossa ashkenazita non era mai riuscita a fare. Queste due novità, insieme al problema della frammentazione del sistema politico israeliano, hanno fatto sì che i partiti religiosi oggi abbiano un potere superiore rispetto al loro peso reale all'interno della società».

Non è stato comunque un passaggio indolore per il mondo degli haredim. «Il successo dello Shas ha costretto anche Agudat Yizrael a cambiare - continua il docente dello Shalom Hartman -. Dentro a un contesto complessivo che sta mutando: negli anni Cinquanta e Sessanta gli ultra-ortodossi vivevano in piccole comunità; oggi - anche per via dell'alto numero di figli per famiglia - sono invece esplose: le loro yeshivot non sono in grado di contenere tutti e così i rapporti con l'esterno aumentano. E questo genera una tremenda pressione al cambiamento. Per certi versi proprio il loro grande successo sta in parte smantellando il tipo di vita che vorrebbero promuovere. È un processo, dunque, molto complesso». Questo ci riporta alle tensioni crescenti in Israele tra l'halakha e le leggi dello Stato: sempre più spesso, nell'ultimo periodo, la Corte suprema israeliana e l'intero sistema giudiziario sono finiti nel mirino degli haredim.Un caso che ha fatto molto discutere è stato quello del rabbino Yitzchak Ginzburg, accusato di propagandare tesi razziste nei confronti degli arabi. «Abbiamo sempre avuto una Corte suprema molto liberal - commenta Loberbaum - mentre oggi la Knesset e il mondo ultra-ortodosso si collocano molto a destra: di qui i contrasti. Ma il vero problema, a mio avviso, è più profondo: si tratterebbe di riconoscere che l'halakha non ha niente da offrire riguardo alla legislazione civile criminale. Nella tradizione ebraica la posizione dominante è sempre stata quella secondo cui non spetta all'halakha governare l'ordine sociale. Non a caso i circoli della destra religiosa o gli ambienti dei coloni che propugnano questo tipo di tesi sono realtà fondamentalmente anarchiche: non riconoscono il potere dello Stato. Stanno giocando con il fuoco e questo ci mette in una posizione molto pericolosa. Grossi settori della società israeliana stanno uscendo dal recinto delle istituzioni».

Il vero nodo - però - per Loberbaum sta in una sfida che ci riporta dritti all'esperienza dello Shalom Hartman Institute. «Il pensiero ebraico è parte integrante del pensiero occidentale - ricorda -. E riscuote tuttora grande interesse tra i giovani: al corso di filosofia dell'Università di Tel Aviv abbiamo 800 iscritti, non molti di meno rispetto a quello in studi orientali. Ma di tutta questa ricchezza nel mondo delle yeshivot entra davvero poco: sono solo una minoranza quelle che affiancano alla Torah lo studio del pensiero filosofico laico. Un'eccezione significativa è quella di Otniel, che si trova vicino a Hebron ed è una delle più grandi: lì davvero l'apertura al confronto con la cultura contemporanea è considerato una componente indispensabile. E i loro studenti sono parte della vita accademica di questo Paese».

5/ Lubavitcher. La via della sapienza

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso,Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, p. 42

La fotografia del loro ultimo Rebbe - Menachem Mendel Schneerson, morto a New York nel 1994 - campeggia un po' ovunque sui muri di Gerusalemme. Già questo basta di per sé a suscitare perplessità nelle altre correnti dell'ebraismo ortodosso, sempre così sospettose rispetto a certe forme di pseudo-messianismo. Ma anche il dinamismo «missionario» che li anima è qualcosa di decisamente atipico per una comunità ebraica. Anche per questo il movimento dei chabad-lubavitcher è un altro dei fenomeni in cui chi prova oggi a guardare dentro all'ebraismo religioso a Gerusalemme non può non imbattersi.

Li incroci un po' dappertutto: di fronte al Kotel, il muro del Pianto, noti subito la grande insegna della loro mensa aperta ai bisognosi che si recano pellegrini nel luogo più sacro per il mondo ebraico. E poco decine di 'metri più in là - dove ci sono i resti del cardo maximo, l'antica strada romana - c'è il loro quartier generale nella Città Vecchia, con uno sportello aperto a chiunque passi di lì. A dare informazioni, in una mattina qualsiasi, troviamo Shneor Hadad, un giovane studente: «Siamo qui a disposizione per chiunque sia alla ricerca di qualcosa - ci racconta-. Può essere un'informazione per i turisti, ma anche la risposta a qualche domanda che venire in un posto come questo suscita, Ma non succede solo a Gerusalemme: i nostri centri sono presenti in ogni parte del mondo. E anche tanti israeliani laici, quando si trovano lontani dal proprio ambiente, vengono a cercare noi di chabad».

Si chiamano lubavitcher perché nacquero a Lyubavichi in Russia nel XVIII secolo; ma il loro quartier generale sta da tempo a Crown Heights, a Brooklyn. All'onore delle cronache sono balzati nel 2008 quando fu uno dei loro centri ad essere colpito negli assalti terroristici di Mumbai: il giovane rabbino Gavriel Noach e sua moglie Rivka rimasero uccisi. Sorsero dentro l'universo degli haredim, come una costola del movimento hassidico(e infatti il loro abbigliamento è quello tipico degli ultra-ortodossi). Il nome chabad deriva dall'acronimo ebraico delle parole saggezza, comprensione e conoscenza;da un punto di vista dottrinale vogliono essere la risposta a chi accusa gli hassidim di un eccessivo misticismo, a scapito della via della conoscenza.

Ma è sulla figura del Rebbe che, in particolare, si concentrano le frizioni con il resto dell'ebraismo ortodosso: si riferiscono alla loro guida spirituale come a qualcuno in un certo modo superiore rispetto alle persone normali, per certi versi simile all'idea cristiana del Messia. Per di più nel 1994 Schneerson - il settimo Rebbe - è morto senza lasciare eredi; e questo alla fine non ha spento ma addirittura amplificato il mito intorno alla sua figura. Ed è un vento che soffia non solo a New York, ma anche a Gerusalemme. Nel vecchio complesso della yeshiva Mercaz HaRav - in HaRavKook street - oggi, ad esempio, è ospitato il piccolo Museo dei salmi: vi sono esposte le tele del pittore Moshe Tzvi Halevi Berger, 87 anni, originario della Transilvania, che ha tradotto le 150 preghiere in altrettanti quadri astratti. Lui stesso accoglie i visitatori all'ingresso; e se gli chiedi il perché di questa fatica risponde: «Me lo ha chiesto il Rebbe».Circolano poi storie anche decisamente più insolite: quando è stato liberato Gilad Shalit il laicissimo quotidiano Haaretz ha raccontato che il Rebbe, ventuno anni prima, aveva annotato la data del 20 di Tishrei su una banconota da un dollaro regalata alla signora Shalit. E suo figlio Gilad - secondo il calendario ebraico - è stato liberato proprio nel giorno 20 del mese di Tishrei. Dinamismo missionario e racconti epici su Schneerson: hanno anche questo volto, oggi, gli hassidim del XXI secolo.

6/ I partiti religiosi

Dal Dossier Oltre Meah Shearim. I mille volti dell’ebraismo religioso,Terrasanta, Anno VII, n. 2, marzo-aprile 2012, p. 31

In Israele anche nella rappresentanza politica, quella dei partiti religiosi è una galassia più complessa di quanto si creda. Il più antico è Agudat Yizrael (l’«Unione d’Israele»), partito ultra-ortodosso fondato nel 1912 a Katowice, in Polonia. Questa forza, che dal 1948 siede nel parlamento israeliano, in realtà nacque in contrapposizione ai sionisti. Solo nel 1933 scese ad accordi con l’Agenzia Ebraica per garantire anche ai propri militanti una quota dei permessi di immigrazione in Palestina. Da allora ha sostanzialmente perseguito l’obiettivo di garantire lo status quo per gli ultra-ortodossi dentro lo Stato di Israele. In questo compito, però, ha da tempo perso il monopolio perché già nel 1980 tra gli haredim c’è stata una prima scissione con la nascita di Degel Ha Torah («La bandiera della Torah»), partito dei lituani nato per distinguersi dalla leadership hassadim di Agudat Yizrael. Oggi i due partiti si presentano alle elezioni insieme sotto l’insegna di United Torah Judaism. Ma solo perché nel frattempo ha preso il sopravvento lo Shas, il partito degli ultra-ortodossi sefarditi, che attualmente è il più forte tra i partiti religiosi. Fuori dal mondo degli ultra-ortodossi si colloca invece HaBayit Ha Yehudi («La casa ebraica»), il partito dei sionisti religiosi in cui si identifica una buona parte degli hardalim. Non esiste, invece, un partito di riferimento per i modern-orthodox: il loro voto si spalma sulle diverse formazioni che si presentano alle elezioni israeliane.