Convertitevi, cioè non tornate indietro, ma venite dietro a me, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2015)
Caravaggio, Vocazione di Pietro e Andrea
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Subito nella predicazione di Gesù appare la novità cristiana. In questo invito pressante, infatti, il Cristo non pone tanto l’accento su di un ritorno ad una situazione precedente, quanto su di un rivolgersi a ciò che avviene per mezzo della sua presenza, l’avvento del regno.
Certo non scompare l’antica attenzione al “ritorno”, alla “purificazione” dal male – in ebraico il termine shub, “convertirsi”, vuol dire proprio questo ripristinare, questo tornare sui propri passi, questa inversione ad u, questo guardare indietro dell’uomo che rinnega i suoi passi sbagliati, per rivolgersi a Dio da cui proviene - ma tutto l’accento è ora verso il cammino che si spalanca dinanzi. Dio non è indietro, ma è avanti nella persona del Cristo, tutto da conoscere e seguire: si tratta di credere al suo Vangelo.
A sottolinearlo ancor più, il vangelo ci fa subito ascoltare la chiamata delle due coppie di fratelli sul lago con l’espressione «Venite dietro a me» (Mc 1,17), «Seguitemi» ad indicare che Gesù camminerà davanti e che si tratterà da ora in poi di seguire lui nel suo cammino. Si potrebbe quasi coniare un neologismo per indicare questa nuova concezione della “conversione” come “svoltare-in-avanti”, “tornare-in-avanti”, “tornare su di una via che non era mai stato possibile percorrere prima”!
Perché questo? Perché la conversione, prima di essere una azione dell’uomo, è la possibilità della vita nello Spirito donata dal Cristo. La famosa Third Quest, la terza ricerca sul Gesù storico, si è proposta di situare Gesù nel suo contesto ebraico, di scandagliare come egli affondi le sue radici nell’ambiente ebraico del tempo. Tale indirizzo di studi merita la nostra attenzione, perché la vita del Signore va letta all’interno di quel messaggio unitario, di quell’unica rivelazione divina, che lega l’Antico ed il Nuovo Testamento, poiché la storia non è un succedersi insensato di frammenti, senza capo né coda, ma nel tempo si dipana il disegno di Dio, che desidera, prepara e realizza la sua storia di salvezza.
Il limite di alcuni autori della Third Quest non consiste allora in ciò che cercano di indagare, ma in ciò che trascurano: la novità del Cristo. È questa novità la grande questione. Dove essa non apparisse, non ci sarebbe motivo di seguire Gesù e di lasciare ogni cosa per lui. Il Vangelo spalanca dinanzi a noi una novità tale che chiede di essere seguita e di lasciare tutto ciò che si era pensato e fatto prima. L’errore di taluni studi su Gesù dipende proprio dal metodo adottato: si decide a priori che tutto ciò che non è conforme all’ebraismo del tempo non può appartenere alla figura storica di Gesù e così si ritaglia un Gesù che, appunto, non può dire alcunché di nuovo su Dio e la salvezza rispetto ai maestri del tempo. Eppure al Sinedrio ed a Saulo Gesù appariva totalmente in contrasto con l’ebraismo del tempo, poiché si faceva simile a Dio.
Si potrebbe dire, da un altro punto di vista, che tutto deve e può essere conservato in Cristo, ma reinterpretato perché «il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce» in Zabulon e Neftali (Mt 4,16). Gesù si presenta come “compimento” della rivelazione al popolo ebraico che lo aveva preceduto, ma anche come sorpresa che supera ogni attesa. Gesù pretende di essere quella novità che compie ogni attesa della sapienza biblica che si era sin lì dipanata.
Ogni rapporto cristiano con l’ebraismo conserverà, a partire da queste origini, una doppia dimensione di continuità e di discontinuità. Niente deve essere perso, ma insieme tutto diviene nuovo.
Romano Guardini ha cercato un giorno di sintetizzare questa novità personale della sequela cristiana nel suo famoso libretto L’essenza del cristianesimo. Per il grande teologo è profondamente insufficiente affermare che il cristianesimo sia essenzialmente una dottrina dell’amore o del perdono o un movimento spirituale che avrebbe scoperta la dignità della persona umana. Non perché questi valori non caratterizzino in maniera unica la fede cristiana – è evidente che essi sono emersi proprio in culture fecondate dal cristianesimo, con la conseguenza che in quel dato contesto niente ha più senso senza riferimento al valore della dignità umana, della carità o al rifiuto della vendetta - ma perché l’essenza del cristianesimo è data piuttosto dall’amore del Cristo, dal perdono del Cristo, dal valore infinito che il Cristo conferisce alla persona.
Così scrisse Guardini: «Il cristianesimo afferma che per l’incarnazione del Figlio di Dio, per la sua morte e la sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta la creazione è richiesto di rinunciare alla sua - apparente - autonomia e di mettersi sotto la signoria di una persona concreta, cioè di Gesù Cristo, e di fare di ciò la propria norma decisiva. Dal punto di vista della logica questo è un paradosso, perché sembra mettere in pericolo la stessa realtà della persona. Ma anche il sentimento personale si ribella contro questo. Poiché l’accettare una legge generale che si è dimostrata giusta - sia essa una legge della natura o del pensiero o della moralità - non è difficile per la persona. Essa avverte che in tale legge essa continua ad essere se stessa; anzi, che il riconoscimento di siffatte leggi generali può tradursi senz’altro in un’azione personale. Ma all’esigenza di riconoscere un’altra persona come legge suprema di tutta la sfera della vita religiosa e con ciò della propria esistenza - la persona contrasta con vivacità elementare, e si capisce che cosa può significare la richiesta di rinunciare alla propria anima».
Convertirsi alla sequela del Signore, al diventare pescatori di uomini nell’annuncio del vangelo: questo è ciò che è richiesto in questo “tornare in avanti”.
La presenza del regno e del suo vangelo si gioca tutta nella comunione e nella sequela del Cristo, poiché «è stato promesso il regno ed è venuto Gesù», come scrisse l’allora cardinal Ratzinger, parafrasando un’espressione del modernista A. Loisy.
Gesù, insomma, predica il regno, ma Egli non è esterno al regno, come se il regno potesse esistere senza di Lui. Il regno viene, perché Gesù viene: porsi alla sua sequela vuol dire entrare nel regno che Egli inaugura. Una volta C.M. Martini ebbe a dire con sapienza: «Il Regno viene, non in astratto, ma nella misura in cui ciascuno di noi entra nel progetto di Gesù e si fa in qualche modo uno con Gesù e instaura nella sua vita le relazioni con i fratelli e le cose del mondo, secondo il mandato e l’esempio di Gesù. E questo avviene non solo individualmente, ma collettivamente, anzitutto nella chiesa visibile e poi in tutte quelle situazioni nelle quali si rivive e si mette in pratica l’insegnamento e il modo di vivere di Gesù. L’insieme di coloro che vivono così e che attuano il Regno diviene, secondo la parola di Gesù, sale della terra, luce del mondo. E porta gli uomini a lodare il Padre che è nei cieli».
Sulla novità generata dalla presenza del Cristo si fonda non solo il cammino individuale, ma anche quello ecclesiale, si fonda cioè l’unità della chiesa, la chiesa una, della quale ci parla l’apostolo Paolo nelle sue lettere (cfr. Ef 4,4-6), una unità che deriva dall’unicità di Cristo, l’unico che è morto per tutti e nel cui nome tutti sono stati battezzati. Chiunque si unisce a lui, si unisce anche ai fratelli che appartengono al Cristo; allo stesso tempo chi si unisce ai fratelli non può farlo se non nella comunione con l’unico Signore che esige e genera la comunione con tutti.