Chi ha inventato il cristianesimo: Gesù, oppure Paolo e Giovanni?, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2015)
Inno alla carità, in 1 Corinti 13
Alcuni autori del nostro tempo domandano provocatoriamente: San Paolo e San Giovanni presentano il Gesù reale o ne costruiscono un altro? Qualcuno pretenderebbe addirittura che siano stati San Paolo o San Giovanni a “fondare” il cristianesimo, contro le stesse intenzioni di Gesù.
Ma, in questa insinuazione, trascurano di tematizzare il tema dell’amore - in greco agape - che è chiave di lettura in Paolo ed in Giovanni.
Gli scritti paolini e giovannei ci parlano del Figlio e del Padre, annunziano la filiazione divina del Cristo, il suo privilegio di essere come Dio - in greco nella forma, nella “morfè” di Dio (Fil 2,6) - ma al contempo sintetizzano l’opera del Figlio e del Padre che in lui agisce, come manifestazione dell’amore.
Questo puntare più direttamente gli occhi sulla sintesi, sull’essenziale, rispetto ai sinottici che sono più narrativi, caratterizza lo sguardo di Giovanni e di Paolo.
Viene in mente quell’esperienza semplice che talvolta abbiamo vissuto quando, ascoltando qualcuno a noi caro che parlava, abbiamo intuito che dietro le parole che stava esplicitamente dicendo, egli aveva ben chiaro qualcosa che faceva trapelare solamente con pudore. Ad esempio, mentre un sacerdote che già sapeva di dover cambiare parrocchia rispondeva evasivamente ad una persona che gli domandava dei progetti per il cammino dell’anno a venire, era evidente ad una persona intima che li ascoltava che l’amico avrebbe abbandonato la comunità nella quale lo aveva conosciuto e per la quale si era speso. E, quando il prete aveva finalmente svelato il suo trasferimento, l’amico aveva commentato commosso: «Lo sai? Lo avevo già capito da tempo, quando ti avevo sentito rispondere in quel modo a quella domanda». Perché la verità non consiste nella ripetizione testuale delle parole che si dicono, bensì nel loro significato più profondo che l’amico intende. Lo stesso avviene spesso nell’amore di un innamorato che si intuisce, prima che sia esplicitamente dichiarato in forma verbale.
È sufficiente allora ripetere verbalmente le parole udite per aver compreso la vita di qualcuno ed essere fedeli alla sua verità? No, esiste una verità che supera la lettera delle parole: solo chi la comprende restituisce alle parole dette il loro vero senso.
Questo è ciò che testimoniano anche i due apostoli - non per niente Giovanni è chiamato “il discepolo che Gesù amava”, “l’amico”. Paolo e Giovanni hanno intuito la realtà profonda vissuta dal Cristo, la sua esperienza reale, sia quando annunciano che Lui è amore che dona se stesso al mondo rivelandoci Dio, sia quando testimoniano del rapporto unico del Figlio con il Padre (in fondo, i due aspetti sono indissolubili!). E di questo parlano continuamente.
Si potrebbe dire, ad esempio, che tutto il Vangelo di Giovanni è la manifestazione del senso realmente inteso dalle parole di Gesù riportate dai sinottici – meglio ancora dall’antichissima raccolta dei suoi detti, la cosiddetta Fonte Q: «Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10,22).
Ma si potrebbe anche fare riferimento alla categoria della sponsalità, del dono totale di sé, eterno ed irrevocabile: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Così in Giovanni. E negli scritti paolini similmente: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,4-5).
Non per niente, Giovanni racconterà delle nozze di Cana, nelle quali il vero sposo, il Cristo, celebra le sue nozze, come primo segno, meglio come “inizio dei segni”, e Paolo od un suo discepolo annunzia nella lettera agli Efesini che il mistero grande, il grande sacramentum, è quello dell’amore di Cristo per la sua chiesa.
Abbiamo bisogno dei sinottici da un lato e di Paolo e Giovanni dall’altro. Perché la fede, nella sua adesione al Gesù reale, ha bisogno da un lato di sentir raccontare i mille particolari della sua vita e, dall’altro, di saperne cogliere il cuore. Ecco qui la ricchezza complementare dei sinottici, da un lato, e di Giovanni e Paolo, dall’altro. Lo stesso dovrebbe avvenire sempre di nuovo nella catechesi, che è chiamata a testimoniare tutta la ricchezza della Parola di Dio nei mille frammenti della Sacra Scrittura e nell’unità del Simbolo di fede che ne raccoglie i tratti essenziali.
Siamo debitori a Paolo ed a Giovanni: la novità del loro utilizzo del termine “agape” per indicare la totalità della vita del Cristo e l’amore che il Padre ha per lui ed, in lui, per noi segna il nostro cammino.
Così in latino, così in italiano, così ormai per sempre quel termine indicherà Dio stesso: Dio è carità, Dio è amore, Dio è misericordia (1 Gv 4,8.16). Eppure essi niente hanno inventato, essi hanno semplicemente sintetizzato con commozione la verità di Gesù. Paolo e Giovanni, incontrando Gesù, non hanno incontrato semplicemente l’amore di un uomo e la loro conclusione non è stata: «L’uomo Gesù è amore». Essi hanno piuttosto detto «Dio è amore» perché hanno compreso che in Cristo, nel suo farsi carne e nel suo venire crocifisso, era l’amore di Dio che visitava il mondo.
Paolo, dal canto suo, ha sintetizzato in domande vorticose nel passaggio più bello di tutto il suo epistolario la sua conoscenza del vero Gesù: «Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] In tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8, 31-39). È impressionante quante volte e con quale chiarezza vengano collegate in questo passo l’amore di Dio e la vita di Gesù offerta per noi.
“Carità”, questo è tutto, con questo è detto tutto di Dio. Sebbene il termine sia poi stato piegato ad usi diversi, esso proviene dall’aggettivo latino “carus”, “ciò che è caro”, “che costa molto”, “che vale molto”, che “è pagato a caro prezzo” (solo tardivamente, anche se con ottime ragioni da un punto di vista teologico, si connetterà l’espressione piuttosto con il greco “charis”, che vuol dire invece “grazia”).
Ora tutta l’opera del Padre che invia il Cristo nel mondo è comprensibile alla luce dell’amore, alla luce della carità, alla luce della misericordia che egli ha per l’umanità. Per questo Cristo, che pure è il giudice, non viene nel mondo per giudicare, ma per salvare il mondo.
Ma proprio il suo amore diviene ciò che, di fatto, differenzia. L’amore, infatti, chiede di essere accolto. L’amore giunge per amare, ma può essere rifiutato. Fu già così all’inizio della storia, alla creazione dell’uomo, ed ora si ripete, enormemente approfondito, alla venuta del Cristo.
Si rivela qui che il male non è originario, poiché esiste in principio solo l’amore. Ma dove l’amore, sorgente di ogni vita, viene rinnegato, ecco che l’uomo si ritrova senza quella misericordia della quale ha bisogno per vivere. Il rifiuto di quell’amore comporta che l’uomo entri nelle tenebre non più illuminate dalla luce del Cristo e dal suo calore.
Un grande teologo contemporaneo ha parlato del principio del “terzo incluso”: per capire e vivere l’amore, non basta l’amore dell’io e del tu umano, ma questo amore deve aprirsi alla presenza di un Terzo amante, deve cioè accogliere l’amore di Dio stesso, misura e purificazione nella verità di ogni amore.
Per questo, in Giovanni, come ha affermato il grande esegeta Ignace de la Potterie, alla fine dei conti esistono solo due virtù, la fede e l’amore, e solo due peccati, il rifiuto di Cristo e l’odio del fratello.
E Paolo afferma: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1 Cor 13,13).