Perché Gesù parlava in parabole, di Andrea Lonardo
- Tag usati: scritti_andrea_lonardo
- Segnala questo articolo:
Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2015)
Vincent Van Gogh, Il seminatore
«Si avvicinarono a Gesù i discepoli e gli dissero: “Perché a loro parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”». «Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. Ed egli rispose…» (Mt 13,36-37).
Il testo evangelico mostra come le parabole non siano state raccontate da Gesù per venire incontro ai semplici, non sono state pensate per trovare un linguaggio più comprensibile utilizzando esempi della vita di tutti i giorni. Esse al contrario non possono essere capite da soli e richiedono spiegazioni: gli stessi apostoli le debbono approfondire.
La parabola del seminatore, come quella della zizzania, richiedono che si faccia un passo avanti per venire ad un contatto più diretto con Gesù. A lui bisogna chiedere del significato delle parabole.
Ed è questa la via per diventare discepoli del Signore: stare vicino a lui e chiedergli. Tanti ascoltano e si allontanano, senza che le parabole siano diventate per loro l’occasione per stare con il Signore.
Questo è il motivo per il quale Gesù parla in parabole. Egli è la presenza di Dio, è il regno ormai vicino, ma l’uomo deve rispondere con la propria libertà a questa venuta ed avvicinarsi.
Per accostarsi alla comprensione dell’intero linguaggio parabolico, prima ancora che al significato di una singola parabola, è possibile fare riferimento all’esperienza rabbinica antica ed all’esperienza quotidiana della vita.
I rabbini dei primi secoli affermavano a ragione che non sarà mai un buon discepolo colui che non ha domande, colui che, avendo ascoltato il suo rabbi, il suo maestro, non ha desiderio di approfondire ciò che è stato detto, non ha domande da rivolgergli per capire meglio. E aggiungevano che non sarà mai un buon discepolo anche colui che vuole imparare, ma non ha al contempo il desiderio di insegnare ad altri ciò che ha appreso della via di Dio: «Per acquistare la Torah sono necessarie quarantotto prerogative, le quali sono: […] domandare, […] apprendere con l’intenzione di insegnare, […]» (Mishna, Ordine IV Nezikin, Pirqè Abot 6,6).
Anche la nostra vita è costellata di domande. Ci accorgiamo subito, però, che tante domande che ascoltiamo vengono fatte solo da chi vuole mettersi in mostra. Domandare è così un modo di apparire. In una classe scolastica i compagni sanno riconoscere l’alunno che interviene continuamente solo per farsi notare e, da buoni compagni, lo deridono. Esistono poi domande fatte solo per l’imbarazzo del silenzio che si desidera rompere. Ad esempio, in ascensore od in autobus si può chiedere come sta la persona che si è incontrata, che tempo farà, dove si trascorrerà l’estate; ma queste domande sono un ‘pour parler’, non nascono da un reale interesse per la questione che viene posta.
Ben diversa è la domanda che nasce dall’aver riconosciuto che si è alla presenza di un maestro e si intuisce che proprio quella persona potrà rispondere a ciò che ci sta veramente a cuore. È questo che avvertono i discepoli: essi domandano, perché hanno compreso che Gesù è l’unico che può rispondere. Quante volte anche nella nostra vita abbiamo sentito l’importanza della presenza di un uomo di Dio che ci avrebbe condotto con le sue parole al cuore di un problema che ci attanagliava. E siamo restati poi a meditare le parole che ci aveva detto, per capirle ancora meglio.
Un secondo passo è decisivo per capire cosa sono le parabole. Non solo esse possono essere capite solo in un dialogo stretto con Cristo: ancor più esse possono essere comprese solo quando ci si accorge che è di Cristo che parlano.
Infatti, quando i discepoli si trovano soli con il maestro in casa a domandare, ecco che la dimensione cristologica viene esplicitata: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno» (Mt 13, 37-38). Il buon seme è stato seminato dal Figlio dell’uomo, non direttamente dal Padre. Quel Figlio è l’inviato che discende dal Padre per la sua semina.
E alla fine del mondo sarà lo stesso Figlio dell’uomo a mandare i suoi angeli, quegli angeli che gli appartengono e sono i suoi servitori, per la mietitura ed il giudizio: «Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13, 41-42).
L’annunzio del regno e la predicazione della chiesa su Gesù annunciano con parole diverse la stessa realtà, la presenza reale di Cristo e la sua efficacia nel mondo.
Le parabole annunziano il regno di Dio non come l’evento che accadrà un domani, ma come la realtà presente nell’opera di Cristo. Il Cristo è parte essenziale dell’annunzio che egli stesso porta al mondo e non ne è semplicemente il banditore. È questo il motivo che deve dare grande fiducia anche in presenza della zizzania, pur nell’impossibilità presente di estirpare il male. Dio non è semplicemente esistente in un cielo distante dalla terra ed incapace di operare nel mondo, ma è vivente nella carne del Figlio dell’uomo che compie la sua semina che non potrà mancare di dare una abbondanza sconfinata di frutti.
La parabola del seminatore e quella della zizzania, non parlano così di una qualsiasi parola inviata dal cielo all’uomo, bensì della precisa parola che tramite Gesù viene inviata da Dio oggi, nell’esistenza di carne del Signore, pure portatrice della Parola divina.
Lo stesso si deve dire, per fare un altro esempio, della dimensione cristologica della parabola passata alla storia come “del figlio prodigo”, ma più correttamente chiamata parabola “del padre misericordioso” o più precisamente ancora “del padre e dei suoi due figli”.
Certamente il figlio secondogenito – quello che è stato chiamato con termini moderni il “figlio del piacere”, poiché agisce unicamente a partire dai suoi pallini e dalle sue pulsioni emozionali – rappresenta l’uomo pagano, l’uomo peccatore, vissuto lontano da Dio e schiavo dei propri piaceri.
Certamente il figlio primogenito – quello che è stato indicato come il “figlio del dovere” – rappresenta l’uomo osservante della Legge che però non ha maturato alcuna confidenza con l’agire di Dio e non è capace di gioire della paternità di Dio quando essa si esprime in tutta la sua festosa misericordia.
Certamente il padre dei due figli è immagine del Padre celeste che esce incontro sia al secondogenito, apparecchiando il banchetto per esprimere la gioia per la sua salvezza, sia al primogenito, invitandolo a partecipare a quel momento di gioia.
Ma, se ci fermasse a questi tre riferimenti, la parabola non sarebbe ancora stata minimamente compresa. Ciò che conta è che quel banchetto lo sta ora realizzando Gesù, il Figlio, cui si «avvicinavano tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo». Mentre «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15, 1-2).
Dio Padre è ora presente nel banchetto compiuto dal Figlio che mangia con i peccatori e la parabola è detta allora per invitare anche farisei e scribi ad unirsi alla gioia. La parabola non è insomma solo il più bel racconto mai esistito, ma è anche la rivelazione che quel Padre della parabola si manifesta ora in Gesù che invita.
Merita fare ancora riferimento alla parabola dei vignaioli omicidi. Certo i servi che in maniera progressivamente violenta trattano gli inviati del padrone, percuotendo ed uccidendo i profeti, sono cifra di coloro che non vogliono rendere conto a Dio della vigna preparata per tutti: «A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21,43).
Ma Gesù non si limita ad una condanna generale di coloro che non accolgono l’invito di Dio a convertirsi. Egli sottolinea, invece, al culmine della parabola, la svolta che il padrone sta dando proprio in quel momento al suo agire: «Disse allora il padrone della vigna: “Che cosa devo fare? Manderò mio figlio, l’amato, forse avranno rispetto per lui!”» (Lc 20, 13).
A Dio è rimasto ormai solo il Figlio da inviare ed egli non si tira indietro nel compiere l’estremo e supremo gesto. L’invio del Figlio supera incomparabilmente le precedenti tappe che avevano comportato l’invio dei diversi profeti.
E proprio l’uccisione del Figlio fuori della vigna, fuori di Gerusalemme, è il segno, da un lato, dell’estremo rifiuto dei vignaioli ma, dall’altro, dell’amore totale di Dio per la sua vigna e per gli uomini che debbono nutrirsi dei suoi frutti.