«Duchesne resta un punto di riferimento obbligato per chi si occupa di Chiesa antica e medievale, non per essere stato tra i protagonisti della crisi modernista, ma, si potrebbe dire paradossalmente, per essersene tenuto il più possibile al margine, per aver scritto di storia, cercando in ogni modo di non farsi coinvolgere in quelle discussioni». Louis Duchesne, un modo diverso di abitare la crisi modernista portando frutto. Breve nota di Andrea Lonardo su di uno studio di Giovanni Miccoli
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Presentiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Sull'origine del potere temporale del vescovo di Roma e sul Liber pontificalis di cui il Duchesne redasse l'edizione critica tuttora in uso, cfr. Il potere necessario: come nacque il potere temporale della Chiesa?, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (12/4/2015)
«Duchesne resta con la sua opera un punto di riferimento obbligato ancor oggi per chi si occupa di Chiesa antica e medievale, non per essere stato tra i protagonisti della crisi modernista, ma, si potrebbe dire paradossalmente, per essersene tenuto il più possibile al margine, per aver raccolto ed esaminato documenti e raccontato e scritto di storia, cercando in ogni modo di non farsi coinvolgere in quelle discussioni»[1].
Così scriveva con acutezza Giovanni Miccoli nella seconda edizione de I primi tempi dello stato pontificio di Louis Duchesne[2]. Non è nostro interesse seguire il Miccoli in tutte le sue riflessioni, quanto piuttosto sottolineare come l’edizione critica del Liber pontificalis sia una delle poche opere degli anni della crisi modernista che resta tuttora veramente valida e significativa e che proprio alcune figure che si “tagliarono fuori” dal dibattito allora in corso riuscirono a porre le basi per nuovi atteggiamenti nella Chiesa e nel mondo, mentre le figure di spicco del movimento modernista risultano oggi, in realtà, personaggi di secondo piano, perché non furono capaci di produrre opere significative come quelle del Duchesne.
Miccoli scrive[3]:
«Nell’insieme, quando si passi ad una considerazione più generale ed in prospettiva delle cose, resta un’impressione di vecchio e di stantio, odore ammuffito di sacrestia, l’impressione di una storia in fondo piccola, povera di contrasti veramente grandi e di grandi personalità (quali, per mantenersi entro una periodizzazione di storia ecclesiastica, in una età gregoriana o ai tempi della «riforma»), perché, si sarebbe tentati di dire, povera, depressa e meschina era la vita ideale, la religione, l’impegno storico della Chiesa del tempo. Le divagazioni dei nostri idealisti sul disinteresse della polemica modernista, perché filosoficamente e storicamente superata dai tempi sarebbe l'istituzione alla quale essi si rivolgevano, possono far sorridere oggi, dopo aver assistito a fatti grandiosi come il pontificato di Giovanni XXIII e certe manifestazioni del concilio: ma resta tuttavia che nei suoi termini puntuali il loro discorso risulta in gran parte esatto, perché, salvo rare eccezioni (Tyrrell), la polemica modernismo-antimodernismo rappresenta una battaglia di retroguardia, l’episodio marginale di una storia che in quegli anni si muove per altre strade e in altre direzioni (ed a questo proposito il famoso giudizio del Gramsci sull'atteggiamento assunto dal Croce verso i modernisti può essere considerato esatto nei suoi termini generali - individuazione della posizione politica del Croce, dei suoi schemi ideologici di giudizio, ecc. -, non certo in quelli puntuali e specifici, perché i modernisti non furono, o non furono essenzialmente ciò che egli crede che fossero, “riformatori religiosi” ecc., e la “democrazia rurale cattolica” è contemporanea al modernismo, col modernismo potrà anche confondersi in certi momenti, ma è insomma, e profondamente, altra cosa).
Ed anche a voler usare solo l'ottica dello storico della Chiesa, è ben vero che se oggi esiste una cultura fatta anche da ecclesiastici e monaci e da cattolici in genere, è grazie soprattutto a quelle lotte e a quelle polemiche, è grazie ai Duchesne, e ai Lagrange, e ai Blondel, e ai Bremond, e ai Battifol, come anche ai Tyrrell, e ai Loisy e ai Buonaiuti, ma è forse altrettanto vero che, se oggi esiste un problema di riforma della Chiesa, di rinnovamento, o “aggiornamento” del cattolicesimo e del cristianesimo in genere, se questo problema interessa ed investe ambiti che vanno ben al di là di quelli specifici e specialistici, è assai più grazie al maturare di un autentico rinnovamento religioso - nel senso del sorgere di nuove esperienze di vita che vuol essere cristiana all'interno della nostra società -, che all’opera di quei teologi e filosofi e storici. Si vuol dire cioè che in una più lunga prospettiva sembrano apparire fatti assai più significativi ed importanti per un recupero storico del cristianesimo, esperienze come quelle di Charles de Foucauld e dei suoi primi scarsi seguaci, che le lunghe, accanite, sofferte diatribe della polemica sul modernismo».
Miccoli sottolinea come gli studiosi modernisti in realtà difesero il loro lavoro di intellettuali più che occuparsi dei problemi del tempo e di un vero rinnovamento della Chiesa in quegli anni[4]:
«Il gran parlare di riforma che da un certo momento in poi verrà fatto suona falso e strano e resta inessenziale per capire i caratteri specifici del movimento proprio per questo: perché nasce generalmente dalle esigenze di professori, di grandi - e meno grandi – studiosi, che vogliono poter fare in pace il loro mestiere, assai più che da una considerazione della Chiesa e della società nel loro complesso; delle esigenze dell'una e dell'altra, da una spinta a riconsiderare il proprio passato rispetto al proprio presente, i propri ideali ed il “messaggio” da proporre, o da riproporre al mondo; da motivi insomma che definirei largamente di religione, con tutto ciò che di generico, di oscuro e di impreciso la parola può contenere, ma anche con tutto l'impegno, non solo intellettuale, ma morale e pratico, e l'azione e la dedizione e la rinuncia personale che essa storicamente, almeno ad intermittenze, ha rappresentato.
Sarebbe certamente errato - ed ingiusto - dimenticare la nobiltà degli atti di coerenza intellettuale che si manifestano dietro ai molti distacchi e ai rifiuti di obbedienza che punteggiano la lunga crisi del modernismo. E questo, anche qui, non per distribuire attestati di merito o di moralità, ma proprio per comprendere tutti i termini e le implicazioni di quelle polemiche e di quelle crisi. Così come sarebbe sbagliato non ravvisare dietro a molte sottomissioni, dietro a molti improvvisi silenzi, il sofferto riconoscimento di una realtà più importante delle volontà e dei destini individuali, ed il sacrificio di sé perciò ad una “linea generale” - per usare un'espressione assai poco ecclesiastica, ma efficace ad esprimere certe irrinunciabili scelte di fondo - ritenuta essenziale ed insostituibile nella storia dell'umanità. E tutto ciò potrà piacere o non piacere, ma non per questo diventa meno reale e avvenuto».
Duchesne - che fu per lunghi anni direttore dell'École française di Roma - compose con la sua edizione critica del Liber pontificalis un’opera che è tuttora insostituibile per gli studi storici[5], mentre la maggior parte degli studi di quegli anni non hanno più validità. E proprio questo invita, secondo il Miccoli, ad essere più prudenti nell’attribuire valore indiscusso alle ribellioni moderniste[6]:
«La controprova la si ha nel fatto che, nonostante l'enorme mole di scritti allora prodotti, i non molti che ancora presentino un interesse non semplicemente documentario, ma autenticamente culturale (nel senso di un accrescimento obiettivo delle proprie cognizioni in riferimento agli argomenti specifici trattati da quegli scritti) sono tali non grazie a quelle discussioni, ai diversi indirizzi in contrasto, ma grazie al fatto che essi si muovono in ambiti culturali originariamente estranei a quei problemi e che trovano la loro origine nella cultura positivistica del tempo. Il caso del Duchesne - grande storico, grande professore, grande scrittore - è da questo punto di vista assolutamente esemplare. Perché egli resta con la sua opera un punto di riferimento obbligato ancor oggi per chi si occupa di Chiesa antica e medievale, non per essere stato tra i protagonisti della preistoria di quella crisi, ma, si potrebbe dire paradossalmente, per essersene tenuto successivamente il più possibile al margine, per aver raccolto ed esaminato documenti e raccontato e scritto di storia, cercando in ogni modo di non farsi coinvolgere in quelle discussioni ed in quei problemi, non appena fu chiaro che essi erano ormai divenuti strettamente dogmatici e teologici».
Il Duchesne operò come vero storico, senza lasciarsi catturare dagli opposti fronti della crisi modernista[7]:
«Il Duchesne il suo mestiere di storico lo faceva ugualmente e scriveva e raccontava quello che c’era da dire e raccontare, e le fonti e i fatti non li falsava o li forzava. Ed è vero, ed è la sua grandezza ed il suo onore di storico, autentico e grande storico, non perché libero da “presupposti”, ma perché quei “presupposti” non spengono il suo spirito critico, non ottundono mai, né coartano la sua filosofia e la sua scienza».
Egli ebbe sempre chiaro che una cosa era la ricerca storica ed un'altra la fede comune della Chiesa che non subiva variazioni nella sua sostanza nei secoli[8]:
«Ma questo modo di costruirla e di narrarla, quella storia, era anche frutto degli interessi e del gusto del Duchesne, della sua visione generale delle cose e del fatto cristiano in particolare. Esponendo i termini della fede nella Trinità nei primi tempi cristiani, egli scriveva (Histoire acienne de l’Eglise, I, p. 43): “Le commun des chrétiens, au premier siècle, au temps même des apôtres, en est, sur ceci, à peu près axactement au même point que le commun des chrétiens d’à présent. Les théologiens en savent notablemente plus long. Mais il s’agit ici de religion et non d’école”».
Il Miccoli è convinto che gli odi teologici fossero lontanissimi dall’animo del Duchesne – mentre non lo erano nell’animo dei suoi contemporanei[9]:
«Se non andiamo errati, è lo stesso cristianesimo del Duchesne e la sua insofferenza per le intolleranze e gli odi teologici di cui era spettatore, ad avere la loro parte in queste distinzioni e precisazioni».
In ogni momento in cui venne paventata un’accusa di sovvertire le posizioni della tradizione, Duchesne si astenne dall’entrare nella polemica[10]:
«A quelle accuse il Duchesne non poteva replicare perché in concreto, per lui, il fatto valido, nella Chiesa, restava quella religione e quella pietà in qualche modo immutabili; tutelarle e tramandarle era il compito specifico dell’istituzione ecclesiastica, la sua ragion d’essere e necessità».
Miccoli cita una lettera nella quale appare evidente la distanza del punto di vista prospettico da cui guardare alle diverse questioni del Duchesne rispetto al Loisy[11]:
«”Si l’on vous éconte, - scriveva egli al Loisy il 26 ottobre 1903 a proposito di Autour d’un petit livre, - il faudra supprimer comme indiscrète plus d’une question du catéchisme. Les fidèles se demanderont quelle est cette nouvelle religion. Tout cela m’inquiète beaucoup. J’ai demandé à Harnack si ses idées lui paraissaient susceptibles d’entrer dans les têtes religieuses de chez lui. Il s’en est décleré convaincu. Mais je suis moins optimiste. Nous sommes pris entre la nécessité et l’impossibilité d’évoluer, et je crains bien que nous n’y passions” (in Mémoires, II, p. 276)».
Certo il Duchesne era consapevole che tante affermazioni storiche allora ritenute per vere andavano non solo demolite, ma anche contestate nella loro rilevanza. Si rendeva però conto che anche la modernità delle nuove affermazioni restava aristocratico e clericale, lontano dalle attese della gente[12]:
«Ininteressanti polemiche fratesche, si sarebbe tentati di dire, condite dalla buona dose di stupidità di una delle parti in lizza. E ad esaminarle nei loro dettagli è certo anche così, con quei complicati e fantasiosi arzigogoli intorno alle avventure galliche di Maria Maddalena o di San Saviniano o di san Potenziano. Ma tuttavia esse costituiscono anche un non trascurabile indice di quello scontro tra due mentalità, quasi tra due culture, che rappresenta indubbiamente una delle matrici fondamentali della grande crisi modernista. Di fronte ad una gerarchia e ad un clero che avvertono il profondo anticristianesimo della cultura contemporanea e che arroccati perciò sulle loro posizioni e nella strenua difesa delle loro tradizioni, sono impegnati a sostenere fino ai dettagli dottrine, usanze e memorie culturali, quali simbolo di un antico passato e di un ordine e di una società vagheggiata essa quale giusta e santa, si contrappone lentamente un altro clero, sensibile alla nuova scienza, curioso di misurare il proprio cristianesimo coi tempi nuovi, non meno aristocratico forse – ma dove l’aristocrazia è data dalla cultura e non da privilegi sociali e di magistero – irridente perciò con violenza a quanto di falso, di leggendario, di goffamente superstizioso, la pietà popolare e l’apologia e la catechetica ecclesiastica avevano prodotto e costruito nel corso dei secoli».
Forse proprio per questo le sue acquisizioni, di uomo di studio ma che non voleva porre il suo studio come discrimine di un nuovo modo di essere cristiani, pervenne a delle vere novità nell’ambito della ricerca storica, novità valide ancora oggi[13]:
«Certi risultati del Duchesne per la prima volta sono assolutamente definitivi: come, tanto per fare un esempio, l’aver tolto alla famosa donazione di Sutri da parte di re Liutprando il valore di primo atto costitutivo dello Stato temporale dei Papi (e non è raro tuttavia trovarla presentata ancora così nei nostri manuali di storia), riportando piuttosto – ed è giudizio ancora oggi accettato -, al viaggio di Stefano II in Francia, ai patti colà intervenuti e alle successive discese di Pipino in Italia, il primo concreto prospettarsi ed apparire di uno Stato papale pienamente autonomo da Bisanzio»[14].
Note al testo
[1] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970 (seconda edizione), p. XXVII, ma l’Introduzione del Miccoli è del 1967.
[2] L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970 (seconda edizione) con una introduzione di Giovanni Miccoli. L’Introduzione di Miccoli non compare più nella nuova edizione del testo L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 2010.
[3] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, pp. XXV-XXVI.
[4] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXV.
[5] Sull’edizione del Liber pontificalis del Duchesne, cfr. A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Antonianum, Roma, 2012.
[6] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXVII.
[7] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, pp. XXVII-XVIII.
[8] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXVIII.
[9] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXVIII.
[10] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XX.
[11] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXI.
[12] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, pp. XXIII-XXIV.
[13] G. Miccoli, Introduzione a L. Duchesne, I primi tempi dello stato pontificio, Einaudi, Torino, 1970, p. XXX.
[14] Per un approfondimento sulle reali cause e sulla datazione dell’apparire del potere temporale del vescovo di Roma, cfr. A. Lonardo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Antonianum, Roma, 2012.