Fecondazione e gay, quel debito da ripagare alle madri surrogate, di Aldo Busi
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 17/3/2015 un articolo scritto da Aldo Busi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/3/2015)
Premesso che ogni creatura umana venuta al mondo è la più gloriosa delle invenzioni e delle gioie - ma una volta venuta al mondo, non prima: non è certo di altri miliardi di esiliati ai margini di terre desertificate manducanti appena appena che ha urgentemente bisogno il pianeta - e che non esiste differenza discriminante come e da chi al mondo sia venuta, va detto subito che se una coppia sterile o un singolo fertile non può avere figli, specialmente se maschio che non voglia poi una donna tra i piedi con la flebile scusa che lei sarebbe la madre, non farà niente per averne in modo artificiale o con uteri in affitto.
Il principio è: rinuncia a ciò che non puoi avere se non con uno scarto di coscienza, messa a tacere pur di arrivare al tuo illegittimo scopo di procreare; se non si può avere tutto, qualcosa che è superfluo spiegare dovrebbe convincerti a pensare che è giusto, è meglio, è meglio per tutti e per tutto che così sia.
La scienza è stata inventata proprio perché se ne possa fare a meno, peccato che solo gli accorti e lungimiranti capiscano che non fa per loro e che le allodole si sentirebbero defraudate nelle stesse viscere senza il loro specchietto del momento, al momento chiamato «inseminazione artificiale».
Quindi, se da solo non puoi figliare e ti serve un terzo incomodo per fare i comodi tuoi, è meglio tu non debba.
Il tutto si ha quando si capisce che l’optimum è avere solo qualcosa, una parte entro un limite oltre cui non sconfinare per nessuna ragione o sragione o forzatura o passione o senso di mancanza e privazione o disperazione o ambizione o capriccio o narcisismo mondano frustrato o diritto biologico d’ufficio, e che il tutto, una volta avuto, è deleterio per te, gli altri, l’ambiente e la civiltà stessa in cui è possibile continuare a crederci ancora abbastanza umani e ancora abbastanza dissimili dall’organizzazione sociale e cannibalica dei topi. Se si vive bene e anche male con dei figli, si vive altrettanto male e anche bene senza. Una sessantenne che invece di farsi mettere in stato interessante dovrebbe cominciare a dire le ultime preghiere mi fa pensare a una giraffa che non si dà pace per non avere ancora posato per Modigliani, si arma di pennelli e tubetti di colore e da sé si installa il suo cavalletto nell’infermeria dello zoo, mentre un gay che si spupazza il figlio recapitatogli senza ricevuta di alcun ritorno da parte della madre mi fa pensare a un primate albino, come si sa eccezione genetica reietta e respinta dal branco, che si illude di avercela fatta a farsi scambiare per un normale gorilla moretto rubando un bambolotto ai custodi del recinto, allorché avrebbe dovuto limitarsi o a scavalcarlo, respingendo così gli inorriditi fratelli che lo respingevano allontanandosene da solo sulle proprie zampe, o a sbranarli uno dopo l’altro anche nel sonno.
Ancora più di dieci anni fa (credo di aver riportato questa considerazione in E baci, Società Editoriale il Fatto), scrissi per una rivista genitoriale qualcosa sulle adozioni e dissi che sarebbe ora di adottare non solo un bambino ma almeno anche la madre se tuttora esistente e rintracciabile; ero favorevole, ovviamente, alle adozioni da parte di singole persone, singole per stato anagrafico ma inserite almeno nella famiglia di origine per assicurare una presenza costante al bambino visto che un genitore adottivo dovrà pure andare a lavorare per mantenerlo; continuavo dicendo che una persona singola forte della sua patria potestà all’interno di un gruppo famigliare di nonni madre padre fratelli è in grado di provvedere anche meglio di una mamma e di un papà ad allevamento, cura e educazione di un bambino, ma provavo un istintivo orrore per quegli uomini, allora i più famosi dello show & fashion business, che avevano affittato uteri di donne che si sgravavano e scomparivano, secondo me tutte delle martiri, seppure consenzienti sia per dono alla loro star del cuore sia per denaro, vittime di traumi d’infanzia ai quali ora si assommava quello estremo di ridursi a insulse mammifere di cuccioli separati dalla loro vita e dal loro presente al taglio stesso del cordone ombelicale; la pietas che mi suscitavano queste puerpere orbate dalla nascita per una scelta che a me sembrava frutto di una coercizione e di una violenza di vastissima e insondabile, tenebrosa, funebre profondità, pensavo, non potevo provarla solo io e mi chiedevo: gli appagati e trionfanti papà, diciamo pure contronatura e contro ogni buonsenso, di questi bambini con una madre senza come possono essere poi tanto appagati?
Come possono guardare queste meravigliose creature che gli gattonano attorno e danno ai loro contorti geni, nonché a patrimoni finanziari da non disperdere certo in beneficenza qui e subito, una cinica convinzione di totale appartenenza al mondo sulla pelle di quella anonima madre, snaturata ma senza ignominia, travolta nel suo dolore di eterna bambina violentata da ultimo anche con le migliori intenzioni e senza più un grido per farsi sentire da quel buio rimosso non solo da lei ma anche da chi l’ha sfruttato? Come possono questi padri surrogati di madri surrogate guardare questi figli amatissimi e doppiamente idolatrati quali premi di una hybris vittoriosa senza provare ribrezzo per se stessi al pensiero di quella mammifera incosciente, dolente, abbandonata a se stessa che glieli ha forniti e si è tolta di mezzo, anzi, che è stata di fatto tolta di mezzo magari con un bonifico conclusivo a sigillo di una lettera di credito iniziale? Di un credito di sangue mai più esigibile, estinto - come l’utero che l’ha pompato per nove mesi come se pompasse la ruota sgonfia di una bicicletta non sua?
Voi, cantanti, stilisti e ormai anche droghieri, prefetti e borghesi gay, sapete chi sono queste donne da voi degradate a bestie produttrici di placenta, sapete dove stanno e si dibattono forse insensibili e immobili, andate a prenderle e portatele via da lì, e fa niente se sono in un ospedale psichiatrico, in una prigione o in un resort di lusso, fategli vedere questi figli tuttora più loro che vostri, metteteglieli in grembo, che si tocchino, si abbraccino e, se queste donne hanno bisogno di cure, è vostro dovere provvedervi al massimo livello economico e affettivo. Una volta fatto ciò, potrete rispondere al sorriso di questi neonati con un sorriso mondato finalmente dalla cattiva coscienza che io almeno presupporrei in me se fossi al vostro posto, perché qualche dovuto passaggio nella maturazione sentimentale e civile bisogna proprio averlo saltato per essere dei padri e degli educatori felici sulla pelle di madri alienate, lontane, allontanate, vive e morte a sé: vive in vitro.