La peculiarità del linguaggio umano: fare uso infinito di mezzi finiti. Il big bang della parola. Neuroscienze - la nuova frontiera. Un’intervista di Alessandra Stoppa ad Andrea Moro
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Riprendiamo dal sito della rivista Tracce, n. 11, dicembre 2013 un’intervista di Alessandra Stoppa ad Andrea Moro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (8/3/2015)
«Il linguaggio è più simile ad un fiocco di neve che ad un collo di giraffa». Sa di lasciare interdetto l’interlocutore. «È strano, capisco. Ma essendo in gioco l’infinito non può che essere così». È poetico sentir parlare di parole il neurolinguista Andrea Moro. S’inventa immagini, verbi buffi, frasi nelle frasi, per mostrare che la grammatica di ogni lingua umana incapsula l’infinito. «Il linguaggio nasce come il fiocco di neve: dalle leggi di natura, non da un accumulo di fatti storici, evolutivi. Le sue regole, legate in modo inscindibile all’infinito, non possono che nascere all’improvviso e complete, nel cervello».
La passione che è diventata il suo mestiere non se la spiega del tutto: «Ce l’ho fin da ragazzo. Forse mi affascinava l’idea di scoprire codici segreti. E il codice più segreto di tutti è quello con il quale siamo stati costruiti noi». Si sente un matematico mancato, che si è innamorato del cervello oltre che delle parole, e che all’università ha fatto una gran confusione, cambiando quattro facoltà.
Finché, ancora studente, non ha mandato un suo lavoro a Noam Chomsky, tra i più grandi linguisti al mondo, che ha voluto incontrarlo. «E mi ha fatto capire che non ero del tutto folle. O forse che eravamo folli almeno in due...».
Moro, 51 anni, oggi è rettore vicario della Scuola Superiore Universitaria Iuss di Pavia e direttore del NeTS (Centro di Neurocognizione e sintassi teorica). Ci accompagna nell’ultima tappa della serie sulle neuroscienze, dedicata al rapporto tra cervello e parola. Ma squarcia subito l’aria da laboratorio: «Quando si osserva il linguaggio si parla dell’uomo tutto intero. E non si può parlare dell’uomo senza parlare del linguaggio».
Perché?
Primo, perché è lo strumento con il quale l’uomo caratterizza non solo tutto quello che fa, ma anche quello che pensa di ciò che fa: dunque, senza linguaggio non ci sarebbe la possibilità di autocoscienza. Secondo, perché la struttura del linguaggio umano è unica tra tutti gli esseri viventi: gli uomini e solo gli uomini, per dirla con Wilhelm von Humboldt, «fanno uso infinito di mezzi finiti». Questa è la sintassi: elementi finiti (le parole) che costruiscono strutture che potrebbero andare avanti all’infinito.
È la sintassi, quindi, lo spartiacque tra il linguaggio umano e quello animale?
Tutti gli animali comunicano. Se la comunicazione è passare informazioni, anche i papaveri lo fanno. Ma i codici di tutti gli altri esseri viventi non hanno una struttura simile alla lingua umana. È solo degli uomini la capacità di produrre sequenze di parole potenzialmente infinite, nelle quali gli stessi elementi danno significati diversi, talvolta opposti, in base all’ordine: Caino uccise Abele, Abele uccise Caino. Negli anni Settanta, si è visto che gli scimpanzé, così simili a noi, riescono ad apprendere un numero notevole di parole (circa 130), ma senza poterle ordinare all’infinito né con significati diversi. Hanno sequenze di segnali non espandibili e che non cambiano senso.
In che modo il linguaggio dipende dal cervello?
Nella seconda metà dell’Ottocento, Paul Broca scopre una zona specifica del cervello che controlla il linguaggio. E Noam Chomsky, negli anni Cinquanta, scopre le proprietà matematiche fondamentali delle lingue umane. È questa scoperta che ha portato all’ipotesi che anche la sintassi fosse biologicamente determinata e non il frutto di scelte arbitrarie o convenzioni: cioè, le regole su cui si basa non sono artefatti culturali, ma dipendono dalla struttura neurobiologica del cervello. Sono innate. Questa scoperta ha rivoluzionato la linguistica, ma anche le neuroscienze in generale, come dimostra il testo sui Principi di neuroscienze di Eric Kandel, la “Bibbia” nel campo, che nell’ultima edizione ha introdotto questi temi.
Come si dimostra?
Un primo esperimento a prova che alla sintassi corrisponde un’attività neuronale specifica è stato di costruire errori sintattici in una lingua priva di riferimenti semantici per osservare la reazione del cervello. Se leggo: il gulco gianigeva la brala, si attivano in me reti diverse da quando leggo: gulco li gianigeva brala la, dove la sintassi è violata.
Quindi, nel nostro cervello è “inscritto” il linguaggio?
Sì, siamo “progettati in modo speciale”: c’è un’architettura neurocerebrale, una rete di circuiti che condizionano il codice del linguaggio. È evidente che questo ci spalanca domande a cui la scienza non potrà mai rispondere, ad esempio: come mai è toccata solo a noi questa capacità unica di usare l’infinito e di averne un’intuizione consapevole?
Le scoperte sul linguaggio incidono sulla concezione dell’uomo.
Confermano la nostra unicità nel creato. Vale il seguente sillogismo: a) il nostro linguaggio è unico tra tutti gli esseri viventi, che hanno invece linguaggi simili, cioè senza sintassi; b) questo linguaggio è espressione della nostra struttura biologica; c) quindi, la nostra struttura biologica è unica. Attenzione, non si tratta di una constatazione basata solo su dati di confronto tra le varie lingue: oggi con una serie di esperimenti e con le tecniche di neuroimmagini si è riusciti ad ancorare definitivamente le strutture sintattiche all’architettura biologica del cervello. Negli anni Cinquanta, quando il cervello era paragonato ad un calcolatore e noi soltanto a macchine, c’era l’illusione - come recita una famosa citazione di Yehoshua Bar-Hillel - di essere arrivati «all’ultimo cunicolo verso una comprensione completa della complessità della comunicazione nell’animale e nella macchina». L’uomo era stato di fatto liquidato come irrilevante. Chomsky lo ha fatto rientrare in scena. Attraverso la sua variante “debole”: i bambini.
In che senso?
Ha insistito sulla natura biologica dell’apprendimento. Dall’ipotesi di una tabula rasa dove il bambino costruisce per tentativi ed errori la sua grammatica, si è arrivati a pensare che il cervello contiene tutte le regole possibili di tutte le lingue, ma diventano definitivamente sue solo quelle che l’ambiente gli sollecita. È il cosiddetto “apprendimento per dimenticanza”. Da bambini possiamo imparare tutti i suoni di tutte le lingue: passato più o meno il limite della pubertà, non ci liberiamo più dei suoni della lingua madre e se impariamo altri idiomi li marchiamo con un accento. Soprattutto, apprendiamo la lingua con facilità e rapidamente, in una fase della vita in cui le operazioni logiche e culturali sofisticate non sono alla nostra portata. Di contro, un adulto, cognitivamente e culturalmente molto più attrezzato, non riesce “per imitazione” ad imparare una lingua come fa un bambino. Vuol dire che siamo “biologicamente progettati” per apprenderle: non si tratta di comprensione intellettuale, è più simile al modo con cui digeriamo il cibo, anche se non sappiamo nulla di chimica organica o di gastroenterologia.
In questo senso ha coniato il termine «mente staminale»?
Sì. Oggi si parla di “staminale” solo riferito alle potenzialità biologiche, ma mi pare importante sottolineare che anche la mente ha una sua “staminalità”. Alla nascita abbiamo una mente aperta a tutte le strutture linguistiche possibili. Ad un certo punto si fissano, come si fissano le cellule specializzandosi nei tessuti. Non tutto si fissa, però. Quello che rimane e rimarrà sempre “staminale” nell’uomo sono la curiosità e l’amore.
Se la sua natura è biologica, in che senso il linguaggio resta un’esperienza?
Senza l’esperienza non ci sarebbe l’innesco all’apprendimento: l’esperienza è il propulsore primo del linguaggio e il fatto imprescindibile di realtà. Quello che si sta facendo è definirne i limiti, i “confini di Babele” - come amo chiamarli - entro cui ci muoviamo, e che sono inscritti nel nostro corpo: spieghiamo quali sono i gradi di libertà che abbiamo. Un po’ come dire che l’anatomia spiega come funziona l’occhio, ma l’esperienza ci fa decidere cosa guardare.
Ripete spesso che il linguaggio è un mistero. In che senso? E che peso ha questa considerazione nella scienza?
Il linguaggio è un universo: come l’universo fisico, non si lascia spiegare “tutto”. Il suo mistero ne costituisce lo scandalo, perché la pretesa di definirlo con una legge unica si scontra con l’indefinibilità dell’umano. Non c’è modo di ingabbiarlo in formule riduttive o deduttive. In più, il linguaggio è lo strumento con il quale cerchiamo di descrivere il linguaggio stesso e ciò crea una situazione ancora più complessa, forse troppo complessa per la mente umana, che dovrà accontentarsi del quia. Ma l’accettazione del mistero ha un ruolo fondante nella scienza. Senza riconoscerlo si parte con un dogma ideologico di onnipotenza conoscitiva che non trova nessun fondamento filosofico, empirico, né tantomeno logico. Accettare il mistero è una componente, temporanea o definitiva, della comprensione della realtà: deve far parte del metodo scientifico.
Qual è la cosa più importante che sta imparando nel suo lavoro?
La sintesi del fascino che ha su di me il linguaggio è una frase di Chomsky: «È importante imparare a stupirsi di fatti semplici»: imparare, perché la conoscenza non è un talento, ma il risultato di metodo e allenamento; stupirmi, perché senza la curiosità e lo stupore non si esce nemmeno dal letto la mattina; fatti semplici, perché il linguaggio, a differenza di altri domini scientifici, non richiede per forza apparecchiature sofisticate per ottenere i dati principali. Io ho trovato nel linguaggio tutto questo: ho imparato, seguendo dei maestri, a stupirmi di fatti semplici e a formarmi la mia opinione.
Cosa intende quando afferma che siamo parole incarnate?
Non ha più senso pensare - come si faceva negli anni Settanta e oltre - che il linguaggio sia un software che gira sull’hardware neutro del nostro cervello: il linguaggio è quell’unico tipo di software generato dall’hardware del cervello. Poi, con tutta probabilità, ha senso pensare che i geni che concorrono alla costituzione del nostro cervello, e dunque della struttura neurobiologica che sviluppa il linguaggio, non sono slegati dal resto dell’organismo: se così fosse sarebbero già nati individui umani in tutto uguali a noi salvo per il fatto di non possedere il nostro linguaggio (ovviamente non mi riferisco ai sordomuti, che hanno nel linguaggio dei segni capacità espressive equivalenti). Allora forse sono gli stessi geni che si esprimono anche in organi vitali: se anche uno solo mancasse, l’individuo non nascerebbe. Spesso io dico ai miei studenti che la carne si è fatta logos.
Spieghi meglio.
È il mio modo per dire che non ha senso pensare al corpo umano come ad un contenitore inerte sul quale viene magicamente innestato il linguaggio: il linguaggio e il nostro corpo sono la stessa meraviglia. A noi paiono separati, perché non ci capacitiamo della natura neurobiologica del primo. Ovviamente - vale la pena rimarcarlo - nessuna teoria sul linguaggio dirà mai niente sulla creatività umana: questa sì, come aveva intuito Cartesio, rimane un mistero. Io penso che non si possa nemmeno immaginare di non considerarlo tale. Per sempre.
Quali sono le sfide aperte oggi?
Almeno due: arrivare a identificare le proprietà formali di base della sintassi - le particelle minime e le loro forze, per così dire - e decifrare quale sia il tipo di segnale che i neuroni si scambiano nei fenomeni linguistici.
Un’ultima cosa. Ha scritto: «Il dare un nome alle cose è il vero Big Bang che ci riguarda».
Nella Genesi Dio si ferma e ascolta la sua creatura dare i nomi. Io mi sono sempre chiesto cosa volesse davvero dire essere fatti «a Sua immagine e somiglianza» e credo che nel dare i nomi alle cose noi siamo simili a Dio, perché - se pur parzialmente - compiamo un atto creativo. Certo, questo non esaurisce la somiglianza, ma ne offre un’immagine tenerissima e sorprendente. Almeno per me.