Tre mantra che impediscono all’occidente di essere lucido dopo la strage di Charlie Hebdo e tre conversioni di mentalità richieste per non essere vecchi dinanzi alla novità dei fatti, di Giovanni Amico (con la consulenza di Andrea Lonardo)
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/1/2015)
I nuovi morti della strage di Charlie Hebdo (12 presso la redazione della rivista, un’agente presso l’asilo ebraico e 4 presso Hypercacher, il supermercato ebraico, oltre ai terroristi uccisi) si aggiungono alle centinaia di migliaia di morti che si debbono contare da quando nel 1979, alla Mecca, si palesò per la prima volta l’Islam radicale, occupando il luogo santo. Da quella prima rivolta, sedata nel sangue dalla monarchia saudita, tante altre esplosioni di violenza hanno punteggiato il nostro tempo, dalle Torri gemelle, alla metro di Madrid, alle guerre “civili” e non in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Libia, Mali, agli assassini perpetuati in Nigeria, Somalia, Sudan, Kenya e così via.
Coloro che hanno finora registrato e ovviamente continueranno a registrare il maggior numero di perdite sono i musulmani stessi – si pensi allo stillicidio di attentati di sunniti contro sciiti e viceversa, come a quelli perpetrati dai sunniti radicali contro i sunniti moderati. Ma sempre più alto è il prezzo pagato dalle vittime cristiane (il centro David Barrett ha quantificato in circa 105.000 i nuovi martiri cristiani nell’anno 2012, ma non tutti in paesi islamici), curde, yazide e così via. Ultimi vengono, in ordine numerico, i morti di Europa e Stati Uniti.
La vera novità dei fatti di Parigi è che per la prima volta è stato colpita una testata della sinistra laicista come Charlie Hebdo, una rivista di quell’area che ha sempre preteso di essere anti-razzista, e non un giornale della destra. L’improvvisa scoperta che un’area politica che si ritiene baluardo contro l’oppressione è sentita da una parte degli “oppressi” come nemica che merita la morte è stato ovviamente uno shock. Scoprire che gli islamisti possono odiare i giornalisti della sinistra radicale più dei sistemi di potere economico e politico denunciati da quegli intellettuali à la page è l’elemento nuovo che la strage di Parigi ha posto sotto gli occhi del mondo intero.
Ciò che è a tutti evidente è, comunque, che la situazione è estremamente delicata e che i fatti di Parigi sono solo un piccolissimo anello di una catena di terrore infinitamente più grande. Ogni serio analista sa bene che per trovare una soluzione occorrerà attendere decenni, forse secoli. Inutile illudersi che la scia di sangue sia ormai al termine, anzi è tragicamente a tutti lampante che il tunnel da attraversare è ancora lungo.
In questo contesto, le considerazioni che seguono vogliono, pur nella loro provvisorietà, essere un primo bilancio dei punti fermi, un’indicazione dei passi da compiere in un cammino difficile che dovrà essere via via aggiornato, ma anche una denuncia di approcci ormai vecchi eppure sempre ripetuti come mantra, che debbono essere abbandonati rapidamente per poter almeno capire la novità della situazione.
I tre mantra che gli intellettuali della cultura dominante ripetono e che sono assolutamente fuorvianti per comprendere il dramma che stiamo vivendo possono essere così riassunti:
I mantra/ Abbiamo bisogno di ridicolizzare le religioni e di farle sparire dal contesto pubblico per vivere in pace
II mantra/ La violenza dell’Islam è causata dall’occidente ed ha sorgente soprattutto nella giusta rivolta contro i ricchi del nord del mondo
III mantra/ Le religioni sono tutte uguali ed, in fondo, si equivalgono
Ebbene vogliamo proporre tre conversioni richieste per abbandonare tale visione ideologica della vita con la quale la classe intellettuale dominante massifica il pensiero e spegne ogni velleità di riflessione critica e creativa.
1/ Disprezzare le religioni significa essere razzisti
La prima: dobbiamo riscoprire il rispetto della sensibilità religiosa, perché rifiutare le religioni vuol dire essere razzisti.
Nel corso di una trasmissione che pretende di essere espressione della stessa area intellettuale della testata francese attaccata[1] alcuni giovani musulmani presenti fra il pubblico e alcuni tweet inviati affermavano: «Charlie Hebdo… sono dei razzisti».
È singolare che chi è preoccupato che si inneschi una spirale di razzismo dopo i fatti di Charlie Hebdo non si renda conto che per un musulmano è proprio Charlie Hebdo ad essere razzista! Il disprezzo della religione – dall’islam all’ebraismo al cristianesimo – è inconcepibile per un immigrato, per un povero che proviene dal sud del mondo. Quell’atteggiamento per lui equivale a razzismo, a rifiuto dell’immigrazione.
È bene dichiarare subito, a scanso di equivoci, che questo non giustificherà mai e poi mai la strage parigina: bisogna oggi più che mai essere tutti uniti contro la violenza necrofila.
Ma, oggi più che mai è pure necessario chiarire cosa è accaduto e continuerà ad accadere. È necessario “nominare” i problemi.
I musulmani - e gli immigrati in genere - non hanno alcun problema se la società civile e la scuola pubblica propone una recita sul Natale o una riflessione sui Dieci comandamenti o permette ai bambini di esprimere i loro sentimenti religiosi.
Ritengono, invece, razzisti coloro che disprezzano le religioni. Per un immigrato è Voltaire ad essere razzista, per il suo odio contro gli ebrei ed i musulmani, mentre non è intollerante chi stima il Vangelo o la Torah.
Se vogliamo creare i presupposti per una convivenza pacifica ed una vera integrazione in Europa – perché una reale integrazione è ancora lontana da venire -, abbiamo bisogno di un rispetto di tutti e, perciò, di un rispetto della sensibilità religiosa che non può essere continuamente irrisa e messa alla berlina o emarginata nella scuola e nella società. Dobbiamo riscoprire nell’elaborazione culturale e nella trasmissione del sapere l’apporto positivo del bisogno di Dio in ogni uomo e delle religioni storicamente sviluppatesi.
Papa Francesco ha affermato nella sua Esortazione Evangelii Gaudium: «L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia» (EG 200).
Questa affermazione profetica chiede una prima conversione alla scuola, alla società, ai media ed alla politica: si tratta di cessare di deprezzare il bisogno di Dio presente nei poveri ed, invece, di vederlo come uno degli elementi più interessanti di una maturazione culturale.
Per questo chi ripete in articoli e interventi pubblici che le religioni monoteiste sono da sempre fonte di violenze in realtà non fa che istillare semi di razzismo e disprezzo dell’altro, gettando ulteriore benzina sul fuoco. Affermazioni similari sono ideologiche ed impediscono di venire in aiuto alla situazione presente.
2/ L’Islam è in crisi e deve assumersi la responsabilità di tale situazione, senza attribuire la colpa all’occidente, se desidera uscire dalla confusione in cui versa
La seconda conversione richiesta: è sacrosanto uscire dal politically correct ed affermare che ai musulmani si può e si deve dire oggi che debbono cambiare. Ed è più che giusto che comprendano questo come una legittima critica e non come un’offesa.
Non c’è niente di razzista, né di offensivo, nel dire ad un musulmano quello sa benissimo: la violenza di alcuni suoi confratelli non dipende dall’occidente, ma da responsabilità che vengono dagli imam stessi e dall’interpretazione del Corano che non è ancora stata adeguata al tempo presente.
L’Islam odierno vive un momento di grande confusione perché non sa se vuole veramente la libertà o se intende rifiutarla. Da un lato, infatti, desidera la libertà: tanti musulmani sono sinceramente scandalizzati dalla violenza espressa dai loro confratelli dell’Islam radicale e desiderano un’evoluzione dei costumi proposti dagli imam. Ma, d’altro canto, hanno allo stesso tempo paura di questa libertà e non riescono ad accoglierla in pieno, di metterla a tema come elemento decisivo dell’educazione dei figli. Frenano, in particolare, dinanzi alle possibili scelte delle giovani generazioni e soprattutto delle ragazze, affermando: questo non lo possiamo accettare, questo non è secondo la tradizione islamica (si pensi solo al matrimonio di una ragazza musulmana con un cristiano o alla conversione di un maschio al cristianesimo o ad una vita secondo le modalità della gioventù dei nostri giorni).
Il paradosso è che spesso coesistono nella stessa persona musulmana il desiderio di condannare la violenza dell’Islam radicale con il rifiuto di accettare che i propri figli frequentino un gruppo di libera discussione sull’Islam così come un itinerario di scoperta della fede cristiana.
Si accetta dell’occidente la tecnologia ed il consumismo – nel secondo caso l’aspetto deteriore della libertà – ma non la filosofia ed un atteggiamento critico verso le fonti della fede.
Solo qualche testimonianza, per essere più chiari.
L’Arabia Saudita ha condannato la strage di Charlie Hebdo, ma se le matite della rivista fossero stati cittadini sauditi sarebbero stati giustiziati già da tempo. È stato recentemente condannato a 1000 frustate un blogger saudita per aver creato un blog liberale – la prima razione di 100 frustate gli è stata inferta proprio il giorno dopo la strage parigina. In prigione con lui giacciono il suo avvocato e due ragazze ree di aver guidato l’auto da sole, pur essendo donne. Se lo Stato della Mecca, dove l’Islam intero si reca in pellegrinaggio, ha leggi così arretrate, come potrà insegnare ai pellegrini musulmani che una reale apertura alla modernità non è contraria al Corano, ma anzi è richiesta per una maturazione dell’Islam odierno?
Ma la mancanza di rispetto della dignità umana e le discriminazioni non sono caratteristica solo della terra madre dell’Islam. Infatti, oltre all’Arabia Saudita, in ben altri 13 paesi islamici - Afghanistan, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Maldive, Nigeria, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Siria, Somalia, Sudan e Yemen - le minoranze religiose sono perseguitate. E negli altri paesi musulmani si è liberi di essere cristiani o atei, ma non di parlare ad altri di tali temi liberamente.
Un mio amico direttore del Servizio per il catecumenato mi ha raccontato personalmente che a Roma stessa capita ogni anno di dover battezzare dei musulmani che desiderano diventare cristiani in segreto, perché potrebbero rischiare la stessa vita a causa dei loro connazionali e, a volte, degli stessi familiari.
Dinanzi a questi fatti, serve una «rivoluzione culturale» nell’islam – ha recentemente affermato al-Sisi, neo-presidente dell’Egitto, e la cosa resta vera qualsiasi cosa si pensi di lui.
Khaled Fouad Allam, professore all’Università di Trieste e di Urbino di Sociologia del mondo musulmano e di Islamistica, si è espresso con toni analoghi in un’intervista seguita alla strage: «Io sono musulmano ma l’ho scritto anche venti anni fa: c’è una crisi nell’islam contemporaneo. Questo è evidente, salta agli occhi di tutti e non si può sfuggire a questo giudizio».
Il gesuita libanese Samir Khalil Samir, cristiano arabo e grande conoscitore del Medio Oriente, ha scritto dal canto suo: «Finché l'islam, invece di battersi contro gli altri - apostati, cristiani, occidente, atei - non fa un'autocritica e riconosce che il problema è al suo interno, non se ne viene fuori e i Paesi islamici saranno sempre più caratterizzati dalla guerra fra di loro»[2].
I terroristi che hanno ucciso a Parigi, come quelli che sgozzano in diverse parti del mondo, postando i loro video con soddisfazione e compiacimento sul web, hanno tutti studiato nelle moschee e nelle scuole coraniche o sono stati formati da moschee “elettroniche” che emettono prediche sul web.
L’Islam non può far finta di niente e lasciare che nei suoi luoghi vengano educati giovani che non amano la libertà, la poesia, la letteratura, la ricerca scientifica, il libero confronto delle idee.
Serve che l’Islam cambi registro, che non abbia paura di un lavoro critico sulle fonti della fede musulmana ed anzi incoraggi i suoi giovani ad analizzare con rigore scientifico l’Islam originario, contestualizzando i primi avvenimenti della storia musulmana. Serve che gli imam insegnino nelle moschee che le guerre dei primi secoli dell’Islam non corrispondono oggi alla volontà di Dio perché i tempi sono cambiati.
Serve che le ragazze per prime siano incoraggiate a studiare e a maturare nella cultura e nella libertà, come insegna Malala e tante con lei.
L’Europa deve sostenere questa assunzione di responsabilità dell’Islam, rifiutando di farsi carico di tutti i problemi dei musulmani, come se tutto dipendesse dalle democrazie occidentali. È tempo di farla finita con la retorica che vuole che il nord del mondo sia causa di tutti i mali, come se i paesi del sud del mondo dipendessero imbelli dall’occidente.
Ovviamente questa convinzione errata dipende a sua volta da una visione materialista della storia per cui le forze in gioco sono sempre quelle economiche e politiche e mai quelle spirituali, morali e culturali, che invece giocano un ruolo di primissimo piano.
Non è così, nel caso dei paesi musulmani - e non solo in questo. L’Arabia Saudita, infatti, ed i paesi del Golfo sono ricchissimi, pur appartenendo al sud del mondo, e se volessero investire in cultura, in scuole che aiutino i giovani musulmani dei diversi paesi a crescere in una maggiore libertà, potrebbero farlo tranquillamente. Finanziano invece moschee in tutto il mondo che non formano i giovani ad un’apertura alla modernità. Certamente la Chiesa sarebbe pronta ad inviare professori nelle periferie dei paesi musulmani ed anche molti laici sarebbero lieti di partire per insegnare filosofia, letteratura, scienze e storia. Ma questa domanda non si leva.
L’imbarazzo dei nostri intellettuali troppo dogmatici è dovuto al fatto che riconoscere la responsabilità delle strutture educative del mondo islamico comporta rinunciare al mantra della colpevolezza unica ed eterna del nord del mondo. I nostri manuali di storia, i nostri testi di economia, le nostre guide turistiche e così via, sono da decenni formate in maniera manichea, come se l’arretratezza culturale del mondo musulmano non fosse voluta dal mondo musulmano stesso che non desidera una libera educazione.
Dobbiamo smettere di attribuire agli occidentali tutte le responsabilità proprio per amore dei musulmani: se si ha stima del mondo musulmano lo si ritiene capace di qualcosa. Se così non fosse, se l’occidente fosse colpevole di tutto ciò che avviene nel mondo islamico, vorrebbe dire che i musulmani sono degli idioti, incapaci di intendere e di volere. Li si tratterebbe come dei bambini. E non li si aiuterebbe a venirne fuori. La logica del capro espiatorio è sempre la stessa ed ha agito e continuerebbe ad agire: l’insieme dei musulmani non c’entra con la violenza di alcuni musulmani, le loro moschee ed i loro imam non hanno responsabilità, quindi che si siedano e aspettino perché la colpa è degli occidentali![3]
Con questo non si vuole dire che non ci siano anche responsabilità politiche ed economiche al di fuori del modo musulmano, si pensi solo al voltafaccia di Obama che stava per entrare in guerra a fianco dei terroristi dell’Islamic State prima che papa Francesco invitasse alla preghiera contro l’intervento, e che poi si è ritrovato l’anno dopo, senza nemmeno ammettere l’errore precedente, a mandare i suoi bombardieri a difesa della parte opposta.
Si vuole invece affermare con assoluta chiarezza che niente giustifica lo sgozzamento di un uomo, l’uccisione di un ostaggio, l’assassinio deliberato di un civile, l’uccisione di giornalisti, lo sparare alla testa di un poliziotto ferito.
Niente, niente e poi niente giustifica queste azioni che ripugnano a qualsiasi persona che abbia un minimo di senso di onore. Le guerre si sono sempre combattute ed i soldati si sono sempre uccisi tra di loro e, per errore, hanno spesso ucciso anche civili. Ma l’assassinio deliberato di civili è contrario a qualsiasi codice militare ed a qualsiasi senso dell’onore: i terroristi sono tali e non sono soldati proprio perché disonorano e diffamano con le loro azioni la loro parte. Ogni uomo che veda un terrorista sgozzare qualcuno non potrà che provare ribrezzo dinanzi a tali azioni che infangano l’Islam e allontanano gli uomini dal rispetto e dalla stima per il Corano.
Se anche avessero fondate ragioni dl punto di vista politico ed economico – e la cosa è tutta da dimostrare – i terroristi perdono comunque il loro diritto per le azioni infamanti che compiono: sono e saranno sempre colpevoli, perché sono esseri liberi che rifiutano la giustizia e l’onore.
Soprattutto niente giustifica l’odio che si manifesta in quei gesti. È necessario che i musulmani impediscano che i loro giovani siano formati all’odio e che esigano che nelle moschee le nuove generazioni siano formate non solo ad accettare, ma a scegliere consapevolmente e a promuovere le libertà conquistate dalla modernità, riconoscendo la dignità di ogni uomo, anche e soprattutto dei civili e dei prigionieri in guerra.
3/ Le religioni non sono uguali e non c’è nulla di male nel dichiararlo
Terza conversione: per dialogare e crescere bisogna poter dire liberamente che le religioni non sono uguali e non hanno storicamente né lo stesso rapporto con la libertà né un identico tasso di violenza. Questo contesta il mantra che si sente ripetere acriticamente: tutte le religioni monoteiste sono all’origine del male.
Riconoscere che le religioni non sono uguali è difficile per tanti intellettuali e giornalisti perché da anni sono abituati a dipingere un mondo sincretista dove una religione vale l’altra, nel bene come nel male – ma soprattutto nel male.
Umberto Eco – solo per fare un nome di una personalità di grande cultura, eppure tristemente conforme alla visione livellante dominante sui media – interpellato sulla strage parigina si è affrettato ad attaccare il cristianesimo, proprio per quell’equidistanza che è la morte di ogni vero approfondimento culturale: «Gli uomini si sono sempre massacrati per un libro: la Bibbia contro il Corano, il Vangelo contro la Bibbia eccetera. Le grandi guerre sono state scatenate dalle religioni monoteiste per un libro. Sono le religioni del libro a provocare le guerre per imporre l’idea contenuta nei loro testi».
Finché tali banalità saranno il mainstream della scuola e dei media ai giovani, sia occidentali che musulmani, sarà reso difficile un serio percorso culturale.
È fondamentale invece oggi, per aiutare le giovani generazioni a maturare una coscienza critica, incoraggiarle a rendersi conto che esistono differenze profonde fra le religioni, che però possono non degenerare se si tiene ferma la dignità assoluta della persona umana e della sua coscienza.
Un passaggio teologicamente perfetto di Laura Pausini può illuminare qui più di molti intellettualismi. La cantante afferma in Il mondo che vorrei: «Perché il cuore di chi ha un altro Dio è uguale al mio, perché il suo domani l'ha deciso ed è convinto che il suo domani è insieme a te».
Se i nostri cuori sono uguali possiamo tranquillamente dichiarare le nostre differenze, avendo deciso di convivere, avendo deciso che il nostro domani è il vivere insieme anche se differenti. È la logica contraria ai genocidi che l’Islamic State sta perpetrando, nel desiderio di epurare il diverso. Ma questa prospettiva si oppone pure alla massificazione , che pretende l’uniformità ed il silenzio sulle diversità.
Qualche esempio di differenze che possono e debbono essere “nominate” senza paura, poiché si è deciso di camminare insieme.
Innanzitutto deve essere evidenziata l’accettazione della modernità e delle sue libertà che la fede cristiana ha compiuto, riconoscendo errori e chiedendone perdono dove ha commesso violenza. Sottolineare positivamente nella scuola e nei media questo non vuol dire deprezzare chi non ha ancora deciso se compiere o no questo cammino, bensì indicare che esiste una religione che ha saputo fare i conti con la modernità e provocare ad incamminarsi sulla stessa strada. L’esempio del cristianesimo può aiutare l’Islam a non avere paura del cammino da compiere.
Ma la fede cristiana, unitamente alla fede ebraica, non ha solo “accettato” passivamente questo cammino, bensì ne è all’origine, insieme alla cultura greco-illuministica che è come un suo alter ego: entrambe le culture hanno demitizzato il politeismo antico, aprendo il mondo alla scienza e alla filosofia. E, in taluni passaggi della storia culturale del mondo, anche l’Islam si è unito a questa storia: è ora di riprendere insieme il cammino.
Si tratta di mostrare allora come nella realtà dei fatti la Chiesa abbia aiutato il mondo a scegliere fin dalle origini, senza subirlo, il desiderio di verità, di ricerca, di cultura, di amore, di bellezza, dell’uomo ed invitare anche i musulmani a scegliere questa strada.
Ma questo non è ancora sufficiente: per scegliere con coraggio la via della libertà e della promozione della dignità dell’uomo è importante poter discutere anche delle differenze originarie senza per questo smettere di vivere insieme in pace.
Esiste una prima grande differenza originaria: quella fra chi ama il popolo ebraico e ritiene le Scritture ebraiche, così come esse sono state tramandate, un dono grande di Dio e chi rifiuta insieme l’uno e le altre. Nell’attentato contro Charlie Hebdo uno dei terroristi intendeva colpire un asilo ebraico e, rivelatasi impraticabile questa soluzione, aveva ripiegato sull’uccisione di quattro ebrei in un supermercato.
L’odio verso il popolo ebraico è qui palese. Da dove ha origine questo odio, se invece Israele è la radice santa ed è il popolo tramite il quale per primo Dio ha iniziato a rivelarsi al mondo? Dio ha forse cambiato idea, rinnegando il suo piano originario? Non solo la pura “accettazione”, ma anzi la valorizzazione delle Scritture ebraiche e del contributo del popolo di Israele alla storia del mondo è una delle scelte che garantiranno la convivenza di culture diverse ed il libero scambio delle idee.
Una seconda grande differenza originaria consiste in uno sguardo sul vero Gesù e sulla misericordia che egli ha portato nel mondo: è il dono del Cristo bambino e del Cristo crocifisso. Ebbene nella scuola e nella società è oggi decisivo porre in evidenza la questione chi sia stato Gesù, proprio in vista di una convivenza.
Per la maggioranza dei musulmani Gesù non è mai morto in croce. Gesù - Issa come è chiamato nel Corano -, colui che i musulmani ritengono essere il più grande profeta al di fuori di Maometto, sarebbe asceso al cielo, innalzato da Dio, senza assaggiare la morte e sulla croce sarebbero morti o Giuda, o Pietro o un fantasma. Non tutti i maestri islamici nell’antichità hanno accettato questa affermazione, perché il Corano nella Sura che ne parla non chiarisce esplicitamente se il personaggio di cui si parla sia Gesù o meno, ma certo questa è la visione insegnata nelle moschee oggi.
I cristiani, professando la fede in Gesù morto per amore, non solo radicano la loro fede nella ricerca storica che afferma con certezza la crocifissione del Cristo, ma anche soprattutto annunziano che Gesù muore per i peccatori. È lui – e Dio con lui – ad assumere il peccato di noi uomini e dei suoi bestemmiatori.
La comprensione di cosa sia la misericordia di Dio dinanzi a chi ha commesso il male è un discrimine enorme. Parlare della croce di Gesù non è allora offesa o blasfemia, bensì è cercare di capire il diverso atteggiamento che ne nasce verso il peccato ed i peccatori.
È fondamentale infine ricordare che le differenze che debbono essere “nominate” non riguardano solo le origini delle religioni, ma anche una corretta presentazione della loro storia. Solo per fare un esempio, è scorretto storicamente e soprattutto non giova ad un proficuo dialogo nella scuola e nella società che si continui giustamente a stigmatizzare le crociate, mentre i manuali scolastici e la cultura degli intellettuali non manifestano un analogo stigma nei confronti delle invasioni arabe che, a partire dal VII secolo, hanno conquistato gran parte del Mediterraneo, arrivando ad attaccare Roma per ben due volte: la mancanza di un corretta presentazione delle guerre originario dell’Islam orienta i musulmani al vittimismo e non li sprona a quel riconoscimento della colpa che tanto bene ha fatto al cristianesimo. Considerazioni come queste potrebbero essere applicate ad altri episodi della presentazione della storia nei nostri manuali scolastici dove si usano due pesi e due misure, evitando a culture altre di fare un mea culpa e riversando ogni responsabilità sempre sulla storia dell'occidente che tragicamente insegniamo a detestare invece che ad amare.
Ricostruire con maggiore equilibrio i fatti del passato - quella che è stata chiamata la “purificazione della memoria” - non è amore di conflitto o di rivendicazione. Nessun occidentale, nessun cristiano rivendicherebbe oggi la Libia o l’Algeria o l’Iraq o l’Iran. Una presentazione accurata delle guerre che hanno fatto sì che queste terre siano divenute islamiche aiuterebbe a far nascere in una persona di fede islamica il desiderio di chiedere perdono di quelle antiche invasioni assolutamente ingiuste, per scoprire che la storia dell’Islam non è stata sempre una storia di pace e di rispetto dell’altrui libertà[4]. Si potrebbe così convivere nel presente, avendo ammesso reciprocamente e non solo unilateralmente le ingiustizie commesse.
A mo’ di conclusione non conclusa, ma non inconcludente
Nel chiudere questo testo non concluso, merita sottolineare due scelte compiute dal primo numero di Charlie Hebdo successivo alla strage. Luz, il disegnatore della prima pagina, vi ha disegnato il profeta Maometto che piange, dichiarando di aver pianto appena terminata la vignetta. Vi ha scritto inoltre lui, ateo, un’espressione cristiana Tout est pardonné, Tutto è perdonato.
Quel pianto del Profeta triste per ciò che i suoi figli hanno compiuto e quell’affermazione di sapore cristiano vanno nella giusta direzione.
Note al testo
[1] Il riferimento è a Servizio pubblico, condotta da Michele Santoro.
[2] Si potrebbero moltiplicare i riferimenti, merita fare riferimento ancora almeno all’eccellente articolo Lettera aperta al mondo musulmano, di Abdennour Bidar.
[3] Solo per accennare ad una questione decisiva che non è il caso di sviluppare qui, tale prospettiva va anche applicata allo scontro fra Israele e Palestinesi. Non sarebbe ora che i palestinesi fossero aiutati a porsi la domanda: e se voi riconosceste lo Stato d’Israele e deponeste le armi, preoccupandovi piuttosto di chiedere una giusta ripartizione dei territori, l’accesso all’acqua, all’energia, ecc. non finirebbe in breve tempo l’inutile strage? Perché sono additati sempre come colpevoli gli altri?
[4] E permetterebbe anche di avere una visione più equilibrata delle origini del conflitto fra israeliani e palestinesi, riconoscendo che entrambi hanno diritto ad avere una terra.