1/ Vasco Rossi, le domande sulla vita, di Walter Gatti 2/ «Colui che ha creato il cielo e la terra e che con il suo sangue ha creato l’uomo». Il primo Natale cantato dai Magi. Viaggio nella discografia legata alla festa della Natività. Obiettivo su “The First Nowell”, che affonda le origini nel XVI secolo, di Walter Gatti 3/ Cat Stevens-Yussuf, musica di speranza alla ricerca del vero, di Walter Gatti
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1/ Vasco Rossi, le domande sulla vita, di Walter Gatti
Riprendiamo dal sito Romasette un articolo scritto da Walter Gatti pubblicato il 23/6/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/1/2015)
È scoppiata la stagione dei concerti e decine di migliaia di giovani e fans s’affollano per ascoltare Pearl Jam, Rolling Stones, Eagles o Ligabue. Nei prossimi giorni, poi, sarà la volta di Vasco Rossi, l’uomo degli stadi gremiti, del sudore sul palco, delle energie gettate nell’adrenalina del pubblico. L’età avanza, gli acciacchi, anche, ma non si può negare che il rocker di Zocca abbia un elenco di titoli da far contento più o meno chiunque frequenti il mondo del rock, da Vita Spericolata a Siamo solo noi, da Albachiara a Vado al massimo.
Così, potrà non piacere oppure potrà piacere troppo, Vasco Rossi si conferma ancora un pezzo stabile ed ineliminabile della canzone italiana dai primi anni ’80 in poi. Sul palco di Sanremo con Vita spericolata ha introdotto un nuovo mondo in tivù, nelle classifiche, nel modo di fare e rappresentare l’italica canzone. Ha portato quel suo andamento “svaccato” ch’è del rock di ogni latitudine e che nel mondo italiano – dominato dal cantautorato che per natura è colto o tendente al colto – ha fino a un certo punto avuto poco spazio, se non quello di Rino Gaetano.
Tra le canzoni con cui Vasco ha scritto parte della storia rock italiana, rappresentando nel bene o nel male il suo mondo e il mondo di molti giovani, due si possono prendere a simbolo e valore:
Liberi liberi e E adesso che tocca a me. La prima è una classica ballatona da romantic-rock, riflessione dolente e rabbiosa sul tema che da tempo sta a più a cuore al rockettaro di Zocca: dove finiscono i desideri più radicali? Perché nello scontro o incontro con la realtà tutte le cose sperate-desiderate-cercate, si sporcano, si sgretolano, si polverizzano?
È una canzone di domande, di domande urlate, come spessissimo accade con questo musicista:
"Quella voglia, la voglia di vivere/ quella voglia che c’era allora / chissà dov’è?/ chissà dov’è?”
E su tutte l’ultima domanda:
“Cosa diventò, cosa diventò/ quella voglia che avevi in più/ cosa diventò, cosa diventò/ e come mai non ricordi più….. “.
Si cresce. Si invecchia. Si fa piazza pulita. Ma anche senza invecchiare più di tanto, ci si imbatte nei mille sotterfugi con cui tocca vivere la realtà ( “E come mai non ricordi più?”). Mettersi le pantofole, rispondere con mille risposte a metà (donne e uomini, amori e poteri, denari e soddisfazioni miscelate), evitare un affronto radicale, vero, profondo, autentico. Il trionfo borghese è sempre stato uno spauracchio per il Vasco. E non importa come abbia poi lui “reagito” a questo trionfo, ch’è poi la sconfitta del desiderio giovane. Rimangono le due domande: liberi da cosa e smemori perché?
Lo stesso tema il Vasco l’ha riproposto anni dopo, nell’altra canzone citata:
E adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni che cosa me ne faccio della realtà?
Il Vasco Rossi da Zocca dice le cose in modo imbattibile. I sogni sono per gran parte dei rockettari nostrani e non, il grande punto di riferimento umano e artistico. Se oggi il sogno è così spesso uno dei tentativi dichiarati di scappare dalla realtà che è tanto di moda tra chi non riesce ad affrontarla, il rock ne è spesso cantore e portavoce. Con il risultato di Vasco (che non è da tutti): di cogliere il punto nevralgico, acutissimo, originalissimo:
“Adesso che non ho / più le mie illusioni / che cosa me ne frega della verità?”
Ai tempi dei suoi esordi – cioè negli anni ’80 – gli osservatori e i critici del costume italico attaccavano Vasco perché dicevano che era un’immagine deleteria, che offriva modelli negativi ai giovani. Magari è anche vero: forse uno non se la sentirebbe di proporre il Vasco ai figli come professore di vita quotidiana. Eppure…. guai a sottovalutarlo, perché ha un senso unico e impressionante per esprimere le cose che sono sotto gli occhi di tutti.
Se in Siamo solo noi arriva a disegnare il senso di una nuova antropologia, di una nuova comunità umana accomunata dal non avere riferimenti, bensì paure, divertimenti e istinti in comune (“generazione di sconvolti senza più santi ne eroi”), in un altro celebre pezzo, butta lì con il suo fare un po’ svagato “sto cercando di dare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha” (Un senso).
Chitarre sempre efficaci, sezioni ritmiche potenti, un lavoro romantico-melodico che è il vero marchio di fabbrica del Vasco: tutto questo è a servizio di un mondo di desideri, sconfitte, aspirazioni in cui si sono riconosciuti milioni di giovani italiani. Proprio perché nelle sue canzoni non c’è nulla di artefatto, ma tutto è molto “istintivo”, vale la pena di non passarci su con superficialità: raccontano l’essere giovani e l’essere uomini nell’Italia degli ultimi 30 anni.
Difficile come sempre dire dove si posizioni il buon Vasco di fronte alle sue stesse domande, ma forse è una considerazione inutile. A conti fatti cosa importa il “da che parte sta” un musicista (a volte si fan chiamare artisti, altre volte li chiamano così per motivare il bailamme che c’è intorno a loro), quel che conta è il sasso che getta nello stagno.
Più o meno ironicamente, più o meno sanguinosamente, più o meno abulicamente Vasco getta il sasso: e adesso che tocca a me e a te, che succede? C’è sempre un momento in cui la vita chiede. O meglio: ci sono sempre “tanti momenti” in cui la vita chiede e non c’è nulla di preconfezionato nella risposta. O ti lasci percuotere, oppure ti emozioni quanto basta per dimenticarlo alla svelta. Quando tocca a te i casi sono due: o ci sei, o non ci sei. E la risposta non si esaurisce in un bel concerto.
2/ «Colui che ha creato il cielo e la terra e che con il suo sangue ha creato l’uomo». Il primo Natale cantato dai Magi. Viaggio nella discografia legata alla festa della Natività. Obiettivo su “The First Nowell”, che affonda le origini nel XVI secolo, di Walter Gatti
Riprendiamo dal sito Romasette un articolo scritto da Walter Gatti pubblicato il 23/12/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/1/2015)
Il Natale non è solo la festa della nascita del Bimbo Salvatore: nel mondo della musica è da anni un importante mercato nel quale gettarsi a capofitto. Ci sono infatti, soprattutto fuori dal nostro Paese, decine e decine di produzioni discografiche dedicate al tema natalizio, al punto da aver fatto diventare “la christian song” un autentico mercato, roba ricercata, prodotta, venduta, comprata.
La cosa non è per nulla nuova, visto che dischi natalizi li facevano già Frank Sinatra ed Elvis Presley, ma oggi – con la discografia che è ormai un mercato primario – le cose si fanno in grande: c’è l’hip-hop natalizio, c’è la canzone country, ci sono le divine interpreti femminili, ci sono le formazioni vocali e i grandi gruppi gospel….
Così sui grandi media americani, inglesi ed anche italiani (da poco, ma in maniera sempre più rilevante) ci sono addirittura classifiche dedicate alle migliori canzoni natalizie, siano esse di tradizione religiosa (dal gospel al liturgico), siano esse di versante pop o rock (da All I want for Christmas is you a Jingle bell rock).
Gli americani, che quando fanno queste cose le fanno per bene, hanno addirittura a disposizione un librone, Stories Behind the Great Traditions of Christmas,nelquale un autore di famosi thrilleroni, Ace Collins, racconta la nascita oppure l’arrivo al successo di canzoni come Silent Night o Santa Claus is coming to town. A volte in tutto questo tripudio di canzoni si perdono le radici, oppure si perdono semplicemente i significati.
Nei decenni, così, certe canzoni associate al Natale si credono melodie legate in un qualche modo alla natività, quando invece non lo sono per niente. Valga per tutti Jingle Bells, bellissima canzone scritta nel 1857 dall’americano James Lord Pierpont, che era nata come canto per la festa del ringraziamento e che non è altro che un gioioso inno alle “bellezze” dei giochi sulla neve, soprattutto alla possibilità di correre con le slitte sul manto innevato dei prati del Massachussets (”Suonate campane/ suonate tutto il tempo/ com’è divertente/ andare in slitta/ Ora la terra è tutta bianca/ devi andarci quando sei ancora giovane/ portati le ragazze/ e canta questa canzone sulle slitte/ Prenditi un cavallo veloce/ con la coda mozza/ attaccalo ad una slitta e via/ sei al comando/ Suonate campane/ suonate tutto il tempo/ com’è divertente/ andare in slitta”).
In Italia siamo ancora poco invasi dal mercato di queste produzioni e per fortuna rimaniamo attaccati alla bellezza di Astro del Ciel o di Tu scendi dalle stelle, anche se pure noi a volte diventiamo smemorati e perdiamo storie e antiche tradizioni di queste armonie natalizie.
Prendiamo un canto come The First Nowell (a volte presentato come Noel, Noel): origini perse nel XVI secolo per questa melodia nata in Cornovaglia che nei decenni si è affinata, modificata e precisata, fino alla versione che anche oggi conosciamo, attribuita a Davies Gilbert, un ingegnere e deputato britannico di metà Ottocento, figlio di un pastore anglicano e devoto alla storia delle sacre scritture. Qui non ci si trova di fronte a una storia-canzone epocale come Amazing Grace (il canto scritto da John Newton che è memoria di redenzione di un pastore inglese che aveva vissuto anni facendo il negriero sulle navi che trasportavano gli schiavi verso il nord-america). The first Nowell, il Primo Natale, è proprio la semplicissima buona novella tramandata nei secoli, la storia della piccola-grande nascita così come l’hanno vissuta e scoperta i Re Magi:
Gli angeli ci hanno detto che il primo Natale avvenne certamente in campi abitati da poveri pastori mentre giacevano in quei campi dove facevano pascolare le loro pecore in una gelida notte d’inverno, così oscura. Natale, Natale / E’ nato il re d’Israele!
Guardarono in alto e videro una stella Splendeva molto lontana ad Est e illuminava la Terra con la sua forte luce e splendeva notte e giorno. E grazie alla luce della stessa stella Tre sapienti vennero da un paese lontano Loro cercavano un re e per questo seguivano la stella Ovunque li portasse. Questa stella disegnò la notte verso il nord-ovest
Riposò sopra Betlemme. Lì si fermò e così restò. Proprio sopra il luogo dove riposava Gesù. Allora loro erano sicuri che In quella casa c’era il loro re E uno di loro entrò entro per vedere. E trovò un bambino in povertà. Tutti e tre quei saggi uomini entrarono con riverenza, inginocchiati, e offrirono lì, in sua presenza l’oro, l’incenso, e la mirra.
Difficile trovare un’altra canzone natalizia così umile, così letterale, così semplicemente narrativa della narrazione del Vangelo. Forse per questo, oltre che per l’intrinseca bellezza di una melodia semplice e potente, The first nowell è una delle canzoni più radicate e interpretate anche ai nostri giorni, visto che l’hanno incisa anche big della canzone come Whitney Houston e Nat King Cole, Bob Dylan e Annie Lennox.
La storia, come si vede, è raccontata dal punto di vista dei Magi, così da portare “noi”, chi ascolta, nel punto privilegiato di chi può ascoltare immedesimandosi. E allora è emozionante il messaggio finale, contenuto nell’ultima strofa, nella quale si svela l’ulteriore grandezza della scoperta fatta dai tre Magi in quella capanna di Betlemme :
(quei tre saggi) … Poi permisero a noi tutti di elevare con una voce sola le nostre preghiere al Dio nell’alto Colui che ha creato il cielo e la terra e che con il suo sangue ha creato l’uomo.
Nella capanna, guidati dalla stella, i tre sapienti venuti da Oriente scoprirono il bambino dal cui sangue l’uomo è stato creato. Cantando di quel primo Natale, questo canto della Cornovaglia ci conduce con semplicità dentro ad una duplice nascita. Nascita miracolosa per loro tre e per noi tutti insieme a loro.
3/ Cat Stevens-Yussuf, musica di speranza alla ricerca del vero, di Walter Gatti
Riprendiamo dal sito Romasette un articolo scritto da Walter Gatti pubblicato il 20/11/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/1/2015)
Oggi è veramente arduo riuscire a capire cosa stia accadendo nel mondo islamico. Delitti e vicende di efferata violenza, interessi sotterranei e forse mondiali dietro le stragi, impossibilità di dialogo e speranza di reciproco rispetto sono le cose che attraversano i cuori e le notizie quotidiane, a tal punto da non permetterci più di comprendere dove stia la verità spirituale di una delle grandi religioni monoteiste, una delle tre che continuano a considerare Gerusalemme come loro città santa.
Una storia insolita che in qualche modo si ascrive al mondo islamico così difficile da comprendere e fissare è quella di Cat Stevens, uno dei massimi autori inglesi di musica pop e rock, l’uomo che ha scritto e interpretato canzoni eterne come Father and Son, Peacetrain, Moonshadow, Wild world, Sitting, Morning Has Broken, Oh Very Young.
La conversione all’Islam di questo musicista britannico (figlio di un greco ortodosso e di una svedese protestante) è della fine degli anni Settanta, a seguito di un “miracoloso” ritorno alla spiaggia al termine di una nuotata drammatica nelle acque oceaniche della California. In realtà, come lo stesso Cat Stevens poi racconterà, la conversione ai precetti del Corano è stata per lui un cammino lungo parecchi anni, al termine del quale il musicista avrà a dire: dopo aver compiuto quel percorso di purificazione, finalmente mi sono sentito a casa.
Un cammino decisamente spirituale in realtà è sempre stato presente in modi differenti e forse anche impalpabili nella produzione di Cat Stevens, magari in forme sincretiste e bizzarre, come già mostrato in una canzone come Jesus (1974), nella quale si mettevano in luce saggezza e benevola illuminazione di Gesù e Buddah, considerati personaggi illuminanti e salvifici in modo simile.
Ma con la conversione alla parola di Maometto, tutta quella carica di fortissima umanità che è sempre stata presente nelle canzoni di Stevens, ha assunto un connotato imprevedibile, visto che il musicista si è offerto al silenzio discografico. Dopo la sua conversione e l’assunzione del nome di Yussuf, Cat ha infatti abbandonato per lunghi anni l’attività musicale, impegnandosi in attività educative, culturali ed assistenziali: ha fondato a Londra una scuola elementare islamica e una rete di scuole medie e superiori che onorano la periferia della capitale inglese; a queste attività ha poi associato attività di assistenza a orfani musulmani delle guerre in Africa e nei Balcani.
Anche le più recenti attività concertistiche, il ritorno in sala di registrazione per due dischi e le presenze in televisione (ê stato quest’anno al Festival di San Remo) sono riconducibili in un qualche modo al tentativo di Cat Stevens-Yussuf di finanziare queste opere educative e di sostegno a persone in difficoltà, visto che non sempre (anzi) i denari che girano nel mondo islamico finiscono a sostenere chi soffre.
Yussuf ha appena pubblicato il suo nuovo disco, il quattordicesimo dal 1967, probabilmente il migliore della sua “stagione musulmana”. Si tratta di Tell’em I’m gone, un album di dieci canzoni che fa apprezzare a chiunque il ritorno superbo di uno dei più grandi autori della storia della musica leggera. Nei suoi anni d’oro (1970-1975) Cat Stevens ha mostrato una capacità di unire leggerezza, qualità e prolificità ad un livello così alto da poter trovare forse solo in Paul Simon e Johnny Fogerty un rivale degno di sfida. Poi le cose della vita l’hanno portato verso altri interessi. Oggi quella qualità è tornata.
Nel disco in questione ci sono alcune cover ben interpretate ed arrangiate, ma soprattutto ci sono una manciata di canzoni indiscutibilmente e irresistibilmente sue (a prescindere da chi ne sia l’autore) tra cui brillano Doors, Dying to live, Editing floor.
Il bilanciamento tra ballata, ispirazione gospel e filastrocca (chi ricorda la colonna sonora di Harold e Maude avrà nostalgia di quelle suggestioni radicate nell’infantile, ma lanciate verso il cosmico e l’esistenziale…) è un suo marchio di fabbrica, che valeva in Where do the children play come oggi vale in Dying to live (“So I’ll keep fighting to live till there’s no reason to fight/ And I’ll keep trying to see until the end is in sight/ You know I’m trying to give so c’mon give me a try/ You know I’m dying to live until I’m ready to die”).
E l’ispirazione biblica che attraversava Morning has broken riemerge in un soul-blues emozionante come Doors, inno alla vita che riparte sempre e comunque, inarrestabile nel suo essere “altra” dai tentativi dell’uomo:
When a flower dies
Somewhere, there’s flower blooming
When a Sun goes down
There’s a Moon rising
When a door is closed
Somewhere, there’s a door that’s opening
Il musicista di questo disco è la faccia di un islamismo europeo, occidentalizzato ed elegante: questo han detto e scritto in molti in Inghilterra. È vero. Non ci sono le violenze e i terrori dell’Isis o dell’Afghanistan, del Sudan o del Pakistan. Non ci sono i giovani che abbandonano Londra per andare ad arruolarsi sotto un califfo pakistano. Qui c’è un altro Islam, che conosce il termine della parola speranza, rispetto, dignità, ricerca, dubbio, illuminazione; c’è un Islam che spinge ad abbandonare i falsi dei e i falsi imperatori (I was raised in Babylon), che suggerisce di ricercare il vero che luccica invece del potere che oscura.
Cat Stevens-Yussuf è stato ed è a 65 anni un grande ricercatore di umanità e questo ultimo disco lo conferma, con una vena positiva e bellissima, che suggerisce squarci di blues, sussurri di folk, improvvise ventate di pop-rock. E tra le belle canzoni ci mostra come la conversione all’Islam sia in grado di dare equilibrio, serenità, prospettiva ad un grande musicista che da quasi quarant’anni opera per dare edificazione ed assistenza a migliaia di giovanissimi musulmani in terra europea. La sua è musica di speranza. Ascoltiamola. E speriamo che faccia breccia laddove pare trionfare il sonno della ragione e dove la parola pacificante dell’Essere supremo sembra proprio non trionfare.