Carlo d'Asburgo, l’ultimo imperatore cattolico. A Carlo d’Asburgo imperatore d’Austria e re d’Ungheria sono state riconosciute le virtù eroiche. Regnò negli anni della Grande Guerra, l’inutile strage che Carlo cercò di fermare senza successo e che portò al tramonto definitivo di quel che restava del Sacrum Imperium, di Paolo Mattei

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /12 /2014 - 15:01 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dalla rivista 30Giorni (giugno 2003) un articolo di Paolo Mattei. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2014)

L’imperatore Carlo I d’Austria il giorno
dell’incoronazione a re apostolico d’Ungheria

È un giorno di primavera del 1922 a Funchal, sull’isola portoghese di Madeira. Nella cattedrale di Nossa Senhora do Monte 30mila persone assistono al funerale di un re trentaquattrenne. L’uomo, che era stato imperatore tra le prime macerie fumanti del secolo scorso, era morto povero ed esule in quell’isola dell’Atlantico tra le braccia dell’imperatrice sua moglie, il 1 aprile di quell’anno. La folla che si assiepa fuori e dentro la chiesa e la maggior parte degli isolani lo considerano un santo. Il suo nome era Carlo, Carlo I, imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Nelle ultime ore, ai dottori che tentavano invano di curargli la grave polmonite, chiedeva scherzando: "Comment allez-vous? Moi je vais bien!". 

Ha il volto sereno, l’illustre ospite dell’isola, e la gente è là per salutare un’ultima volta l’uomo che per cinque mesi ha confortato con la sua presenza le loro vite. Il vescovo di Funchal dirà qualche tempo dopo a un prete austriaco: "Nessuna missione ha concorso così efficacemente a ravvivare la fede nella mia diocesi quanto l’esempio che diede il suo imperatore nella sua infermità e nella sua morte"

Lo scorso aprile, ottantuno anni dopo quel giorno di primavera, alla presenza del Papa, gli sono state riconosciute le "virtù eroiche", primo passo sulla via della beatificazione. Nella notte prima di morire, Carlo aveva sussurrato alla moglie: "Tutta la mia aspirazione è sempre di conoscere il più chiaramente possibile in tutte le cose la volontà di Dio e di eseguirla, e precisamente nella maniera più perfetta". Era un’aspirazione che lo aveva accompagnato durante tutti i giorni della sua vita.

La carriera di un imperatore

Nato a Persenbeug sul Danubio, nella Bassa Austria, il 17 agosto 1887, Carlo era il primogenito dell’arciduca d’Austria Ottone Francesco — nipote di sua altezza imperiale e reale Francesco Giuseppe — e di Maria Giuseppina, nata principessa di Sassonia. Come ogni rampollo della sua stirpe, fu indirizzato all’apprendimento delle varie lingue parlate nell’Impero, allo studio della musica, ai corsi ginnasiali e liceali, presso l’abbazia benedettina degli "Schotten" a Vienna, e agli studi universitari, con indirizzo giuridico, a Praga. Nel 1911 sposò Zita dei Borboni di Parma. Il matrimonio fu benedetto da papa Pio X il quale, in un’udienza privata a Zita, preconizzò per il consorte il futuro di imperatore e le rivelò che le virtù cristiane di Carlo sarebbero state un esempio per tutti i popoli. Dal matrimonio nacquero 8 figli, l’ultimo dei quali venne alla luce dopo la morte di Carlo.

La carriera militare prese il via nel 1903 e terminò nel 1916, quando salì al trono. Carlo era infatti diventato principe ereditario alla morte dello zio Francesco Ferdinando, il cui omicidio, scintilla della grande deflagrazione bellica, si consumò il 28 giugno 1914. Pio X, subito dopo l’assassinio dell’arciduca a Sarajevo, inviò a Carlo, attraverso un alto funzionario vaticano, una lettera in cui lo pregava di far presente a Francesco Giuseppe il pericolo di una guerra che avrebbe portato immane sventura sull’Austria e su tutta Europa. Ma il contenuto dell’epistola venne conosciuto da chi brigava per favorire gli eventi bellici, e il funzionario vaticano fu bloccato alla frontiera italiana. Carlo si vide recapitare la missiva molto tempo dopo, in pieno conflitto, quando era ormai troppo tardi per scongiurarlo. 

Due anni dopo l’inizio delle ostilità, alla morte del prozio Francesco Giuseppe, Carlo divenne imperatore col nome di Carlo I: era il 21 novembre 1916. Il successivo 30 dicembre fu incoronato nella chiesa di Santo Stefano, cattedrale di Budapest, re apostolico d’Ungheria col nome di Carlo IV: la dualità della monarchia austroungarica risaliva al 1867, allorché, col riconoscimento dell’autonomia ungherese, i territori dell’Impero furono divisi in due blocchi: la Cisleitania, sotto l’amministrazione austriaca, e la Transleitania, sotto l’amministrazione ungherese. Le Costituzioni, i governi e i presidenti dei Consigli erano distinti, mentre le due parti conservavano in comune l’imperatore — imperatore d’Austria e re d’Ungheria — e i Ministeri degli Esteri, delle Finanze e della Guerra. 

Carlo ereditava una potenza in crisi e in declino: l’Austria-Ungheria era infatti già provata dall’espansione della Germania e dalle sconfitte subite da parte dell’Italia nel corso delle guerre d’indipendenza, e ora si vedeva minacciata anche nei suoi territori balcanici. Inoltre, dopo le prime vittoriose battaglie, le truppe imperiali erano malmesse. Se per quanto riguarda l’inizio del conflitto è vero quel che annota lo storico Victor Tapié (Monarchia e popoli del Danubio, Torino 1993), cioè che "l’esercito austroungarico si batté con un’energia costante e che, qualunque fosse la sua origine etnica, il soldato, legato da un sentimento personale di fedeltà, che non prendeva alla leggera, diede prova di sopportazione e di coraggio", è anche vero che già alla fine del 1915 la stanchezza e le perdite di vite umane avevano quasi preso il sopravvento. Metà dell’esercito regolare — male equipaggiato, tecnologicamente arretrato, insufficientemente finanziato — fu eliminata già nei combattimenti del 1914. Le sorti della guerra per gli austroungarici dipendevano interamente dalla potenza alleata tedesca

Carlo giunse al fronte il 10 settembre 1914, in Galizia, e chiese subito di poter visitare, a nome dell’imperatore, le truppe in prima linea. Si recava a trovare i soldati in tutti i settori dei vari fronti, decorava gli ufficiali meritevoli e forniva a Francesco Giuseppe rapporti non falsati sulla situazione militare, non nascondendogli che il conflitto, col passare dei mesi, si andava trasformando in una carneficina senza precedenti. I fanti erano mandati al massacro con la folle tattica degli attacchi frontali all’arma bianca. Carlo assunse il comando del XX Corpo nel 1916, l’anno degli eccidi di Verdun, della Somme e delle prime nove battaglie dell’Isonzo; l’anno della comparsa sui campi di battaglia dei carri armati inglesi. Il suo operato fu decisivo per sconfiggere la Romania e per arrestare l’avanzata, sul fronte orientale, dei russi comandati dal generale Brusilov. Intraprese l’offensiva sul fronte italiano che culminò con la vittoria di Folgaria. Ma le macerie e gli stermini di quei vittoriosi scontri gli erano insopportabili. I tentativi attuati da Carlo per avviare trattative di pace ebbero inizio proprio nel momento in cui l’Alleanza austrotedesca raccoglieva i successi più significativi. Parlando al ministro degli Esteri austriaco, conte Berchtold, gli disse che non capiva come si potesse continuare "a non fare ancora nessun programma per la pace. In ogni caso, sia che, se Dio vuole, si vinca, sia che si vada verso la sconfitta, bisogna fissarlo con i diversi alleati. Io non posso e non voglio essere pessimista". Da allora, per trovare una soluzione pacifica a quella tragica guerra, il futuro imperatore non fece altro che battere tutte le possibili strade diplomatiche. E continuò a percorrere pure quelle vere, che si inerpicavano tra le trincee delle prime linee.

Nella Positio super virtutibus sono raccolte le testimonianze su piccoli episodi accaduti in questi frangenti. Si legge che "logorò totalmente, recitandolo in segretezza, il rosario d’oro che portava sempre con sé, così che in seguito la giovane arciduchessa dovette procurargliene uno nuovo". È raccontato di quando salvò la vita ad un suo sottoposto che stava per annegare nell’Isonzo in piena. È registrata la deposizione del cappellano Rodolfo Spitzl che, lungo la strada della val d’Astico verso Arsiero, durante una marcia forzata della truppa, vide il futuro imperatore occuparsi personalmente di un soldato il quale, per le piaghe, non riusciva più a camminare: "Non credo", disse Carlo all’ufficiale medico, "che lei ed io avremmo marciato con simili piedi così a lungo come quest’uomo. Provveda al più presto ch’egli parta per un convalescenziario". Padre Spitzl racconta di come lo vide tranquillizzato quando seppe "che nel reggimento si dava poca importanza alle "funzioni religiose di parata" e che si cercava innanzitutto di procurare almeno una volta al mese ad ogni suddivisione — anche in posto di combattimento — l’occasione di ascoltare la santa messa e ricevere i santi sacramenti". Sono anche questi piccoli episodi a dare un’idea della fede di Carlo.

E del carattere fermo con cui si faceva obbedire. Ad esempio quando si oppose all’uso dei gas letali contro il nemico, contestando l’ordine del capo di Stato maggiore tedesco Hans von Seeckt che li voleva adoperare sul fronte orientale. Oppure quando si batté contro l’impiego dei sottomarini per colpire le città nemiche che si affacciavano sull’Adriatico, in primo luogo Venezia.

Dalla "guerra di potenza" alla "guerra metafisica"

Da imperatore, Carlo assunse automaticamente il comando supremo di tutte le sue truppe. Tra le sue prime decisioni, ci fu il trasferimento della sede del comando supremo da Teschen a Baden, vicino a Vienna, così che gli sarebbe stato più facile esercitare i compiti politici e militari. Ma trascorse più giorni al fronte che a Baden perché partecipava alla vita delle truppe recandosi continuamente nelle prime linee per le ispezioni; riceveva rapporti diretti da tutti i comandanti, che conosceva personalmente; si trovò ripetutamente sotto la grandine degli shrapnel dei campi di battaglia. E tra il 1916 e il 1918 mise in atto con ancor più ostinazione tentativi per far cessare le ostilità, tanto che i tedeschi lo accusarono di viltà, perché conoscevano solo una "pace vittoriosa". Proprio per attuare la sua politica, Carlo nominò nuovi ministri scegliendoli tra le persone che non avevano tramato per favorire la guerra

L’imperatore sapeva anche che la pace sociale del suo Paese era condizione fondamentale e necessaria per giungere alla pace mondiale. Per questo istituì un Ministero per l’Assistenza sociale e uno per la Salute pubblica, abolì la pratica del duello e concesse nel 1917 l’amnistia generale. Anche la questione dei nazionalismi che infiammavano il Regno metteva a rischio la pace interna e allontanava quella internazionale. Ecco perché progettò uno Stato su base federalistica, volendo realizzare il proposito di Francesco Ferdinando. François Fejtó´ nel libro Requiem per un impero defunto (Milano 1990), spiega che, come immaginato da Francesco Ferdinando, Carlo "avrebbe voluto eliminare dalla Costituzione ungherese tutto quel che avrebbe potuto frapporsi come ostacolo a eventuali concessioni ai serbi e a tentativi di trasformare il dualismo. Si proponeva anche di dare soddisfazione agli autonomisti cechi, che, come altri slavi e, in generale, tutte le forze pacifiste della monarchia — in particolare i socialisti —, erano stati incoraggiati dai segni precursori della rivoluzione russa del febbraio 1917".

Ma una prospettiva federalista, con annesso suffragio universale, non poteva piacere all’aristocrazia magiara al potere in Ungheria. Leo Valiani, nel libro La dissoluzione dell’Austria-Ungheria (Milano 1966), spiega che alle "riforme democratiche, che avrebbero dovuto garantire la monarchia dallo sfacelo, nel caso di una pace che avrebbe comunque significato una confessione di sconfitta militare, si opponevano a priori sia la maggioranza del Parlamento ungherese, sia i partiti austrotedeschi del Reichsrat, ad eccezione dei soli socialdemocratici".

In sede internazionale Carlo vedeva nelle relazioni con la Francia la possibilità più concreta per accordarsi sulla pace. Così scrisse al presidente della Repubblica Poincaré, il 24 marzo 1917, in una missiva segreta: "Sono particolarmente felice di constatare che, benché ci si trovi attualmente in campi avversi, nessuna fondamentale differenza di prospettiva o di aspirazioni divide il mio Impero dalla Francia; credo di essere in diritto di sperare che la viva simpatia che nutro per la Francia, sostenuta dall’affetto che essa ispira a tutta la monarchia, impedirà per sempre il ritorno a uno stato di guerra, per il quale declino ogni personale responsabilità". Grazie a questa vicinanza, nel 1917 il principe Sisto di Borbone — cognato di Carlo, discendente dei re francesi, decorato da Poincaré con la croce di guerra al valore — iniziò a condurre assieme a Carlo una trattativa diplomatica tra Francia e Impero. Trattativa che doveva essere mantenuta segreta per non destare sospetti tra i tedeschi.

Carlo naturalmente aveva a cuore una pace da raggiungersi assieme alla Germania, ma non escludeva che, se il Kaiser non avesse accettato una eventuale positiva via d’uscita dal conflitto (che aveva come condicio sine qua non la restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena e la libertà dei Paesi invasi), l’Austria avrebbe fatto parte a sé, staccandosi dall’Alleanza e firmando una pace separata. Questo esperimento andò a monte, oltre che per la difficoltà a trovare un accordo definitivo sui territori rivendicati dall’Italia, soprattutto per l’atteggiamento irresponsabile del ministro degli Esteri austriaco Ottokar Czernin.

Lo storico Gordon Brook-Shepherd nel libro La tragedia degli ultimi Asburgo (Milano 1974) individua nella nomina del ministro degli Esteri un errore fondamentale compiuto da Carlo, perché Czernin non aveva mai cercato la pace, ed era un amico incondizionato di quei tedeschi desiderosi che la guerra non terminasse se non dopo la loro vittoria totale. Infatti, Czernin, nel 1918, fece in modo che il presidente del Consiglio francese Clemenceau rivelasse al mondo il segreto negoziato imperiale sulla pace separata, mettendo così a rischio la vita dell’imperatore e la sicurezza dell’Austria nei confronti della Germania.

Carlo fu costretto ad una pubblica marcia indietro. Era la vittoria di coloro che, spiega Fejtó´, avevano "l’ossessione di una vittoria totale […]. Nel corso della guerra — che si impantanò più di una volta su dei punti morti, dai quali si usciva tradizionalmente con il negoziato o il compromesso — si presentò un’idea inedita: quella della vittoria totale, a tutti i costi. Si trattava non più di costringere il nemico a cedere, a indietreggiare, ma di infliggergli delle piaghe incurabili; non più di umiliarlo, ma di distruggerlo. Questo concetto della vittoria totale condannava a priori al fallimento qualunque ragionevole tentativo di mettere fine, con un compromesso, a un inutile massacro. Cambiò la guerra non soltanto "quantitativamente", ma anche, per adoperare il concetto hegeliano, qualitativamente.

L’idea non era nata soltanto per l’esasperazione dei capi militari di fronte al fallimento o alla paralisi di battaglie che essi avevano ritenuto decisive. Né proveniva dai gabinetti dei diplomatici, dalle cancellerie. Sembrava levarsi dalle profondità popolari. Aveva un accento quasi mistico. Era ideologica. Consisteva nel demonizzare il nemico, fare della guerra di potenza una guerra metafisica, una lotta fra il Bene e il Male, una crociata". La vittoria di questa idea fu così ricordata da Augusto Del Noce in un appunto inedito: "Il rifiuto della complicità con il male coincise per me con la "fuga senza fine" davanti a quel che mi appariva il male, la progressiva distruzione di quanto restava del Sacrum Imperium. La fedeltà all’impegno dell’agosto 1916, prima che per me iniziasse la scuola".

Pensando anni dopo a tutto questo, il socialista radicale francese Anatole France disse di Carlo: "È l’unico uomo decente, emerso durante la guerra, ad un posto direttivo; ma non lo si ascoltò. Egli ha desiderato sinceramente la pace, e perciò viene disprezzato da tutto il mondo. Si è trascurata una splendida occasione".

Il pianto per l’inutile strage

La guerra continuava e l’imperatore Carlo I viveva, coi soldati di tutte le nazioni coinvolte, tra le macerie e la morte delle trincee. Erano gli anni delle "notti violentate", vissute in dormiveglia, dall’altra parte della barricata, dal milite Ungaretti: "L’aria è crivellata / come una trina / dalle schioppettate / degli uomini / ritratti / nelle trincee / come le lumache nel loro guscio".

Nell’agosto del 1917, al termine dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, il fotografo di corte Schumann vide Carlo piangere davanti ai cadaveri carbonizzati e dilaniati, e lo sentì sussurrare: "Nessun uomo può più rispondere di questo davanti a Dio. Io faccio punto, quanto prima possibile". In Austria — e dovunque in quasi tutta Europa — c’era penuria di viveri; la povertà, la fame e la morte erano le vere vincitrici di quel conflitto. Carlo lo sapeva, e ridusse al minimo il tenore di vita nella sua casa, dove lui e la sua famiglia si nutrivano con le razioni di guerra. Al comando supremo di Baden, Carlo rifiutò il pane bianco facendolo distribuire tra i malati e i feriti e, davanti ai suoi ufficiali confusi, mangiava tranquillamente pane nero. Organizzò cucine di guerra, impiegò i cavalli di corte per l’approvvigionamento del carbone a Vienna, regalò ed elargì più di quanto si potesse permettere.

Intanto l’alleato tedesco pensava di ricorrere ad armi più distruttive. Durante un pranzo con il grande ammiraglio Alfred von Tirpitz, il quale lo voleva convincere a bombardare, con aeroplani e sottomarini, le città italiane, Carlo rifiutò e lasciò la tavola. Era, oltre che il disastro veduto ogni giorno, anche l’intelligenza politica che gli suggeriva di evitare i bombardamenti. Sapeva che questo avrebbe accelerato l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America e che ciò sarebbe risultato esiziale per il suo Paese.

Ma in Germania non gli diedero ascolto. Nel febbraio del ’17 il kaiser Guglielmo II ordinò di praticare senza alcuna forma di tolleranza la guerra sottomarina e di affondare qualunque naviglio transitasse sulle rotte atlantiche. Fu il grande errore degli Imperi Centrali, perché Wilson ruppe gli indugi ed entrò in guerra a fianco dell’Intesa, prendendo, in pratica, il posto della Russia che, a ottobre dello stesso anno, sarà travolta dalla rivoluzione, e a dicembre firmerà con la Germania l’armistizio di Brest-Litovsk. Nonostante tutti i tentativi di Carlo, la pace non fu raggiunta con le armi della diplomazia, ma con quelle da fuoco.

Il 1918 fu l’anno della capitolazione. Sul Piave, sulla Marna, ad Amiens, a Vittorio Veneto e dovunque, il destino della Germania e dell’Impero austroungarico era segnato. Wilson enunciò i suoi "14 punti" per il mantenimento della pace mondiale. La Romania firmò il trattato di pace con l’Intesa, la Bulgaria si arrese, la Cecoslovacchia e la Polonia dichiararono la loro indipendenza, la Turchia sottoscrisse l’armistizio e il Kaiser abdicò permettendo la nascita, l’anno successivo, della debole Repubblica di Weimar. 

Durante il precipitare degli eventi, Carlo si trovò isolato mentre le strade di Vienna andavano riempiendosi di folle tumultuanti. L’11 novembre firmò un manifesto in cui dichiarava: "Riconosco a priori ciò che l’Austria tedesca deciderà in merito alla sua scelta della futura sua forma di Stato. Il popolo ha assunto il proprio governo per mezzo dei suoi rappresentanti. Io rinuncio a qualsiasi partecipazione al governo dello Stato. Contemporaneamente esonero dal suo mandato il mio governo austriaco". Fidandosi di alcuni uomini politici che gli garantivano il mantenimento della dinastia se lui avesse pubblicamente lasciato al popolo la libertà di decidere sul futuro assetto dello Stato, Carlo firmò questo manifesto consapevole che non era un’abdicazione, che lui non avrebbe mai sottoscritto per non venire meno al giuramento fatto davanti a Dio quando divenne imperatore.

La sua intenzione era quella di ritirarsi momentaneamente dagli uffici pubblici per assecondare l’insistenza con cui glielo chiedevano gli uomini di governo e per evitare un inutile spargimento di sangue. Ma il 12 novembre fu proclamata la caduta della monarchia e la sera stessa Carlo si vide costretto a lasciare Vienna per il suo castello di caccia a Eckarstau, a venti chilometri dalla capitale. Intanto l’Ungheria era in piena rivolta e il primo ministro Tisza veniva assassinato dai rivoluzionari. 

Nella Postio super virtutibus si legge che "malgrado tutta questa situazione il Servo di Dio continuò ogni sera a dire il Te Deum, e lo fece cantare il 31 dicembre 1918 in ringraziamento di tutto ciò che aveva apportato l’anno che spirava. Gli era stato proposto di tralasciarlo, egli però rispose che in quell’anno vi erano state troppe grazie per le quali doveva ringraziare". E a quanti gli chiedevano perplessi quali fossero queste grazie, Carlo rispondeva: "Se quest’anno è stato duro, poteva essere ben più tragico per tutti noi. Se si è disposti a prendere dalla mano di Dio ciò che è buono, bisogna anche essere disposti ad accettare con riconoscenza tutto ciò che può essere difficile e doloroso. Del resto, quest’anno ha visto la tanto sospirata fine della guerra, e per il bene della pace vale qualsiasi sacrificio e qualsiasi rinuncia".

E Carlo dovette rinunciare anche alla sua permanenza in Austria, dove la situazione si faceva sempre più pericolosa per la sua vita e per quella dei suoi familiari. Il 23 marzo del 1919 la famiglia imperiale lasciò il Paese per la Svizzera e il 3 aprile il governo austriaco sanciva ufficialmente l’esilio del sovrano e la confisca dei suoi beni. Ed è dalla Svizzera che Carlo tentò due volte di tornare in Ungheria per restaurare il Regno. Su insistenza di numerosi uomini politici, militari e semplici cittadini, ma soprattutto di Benedetto XV, il quale, secondo la testimonianza dell’ultimo capo di gabinetto dell’imperatore, "si espresse ripetutamente circa la necessità di una restaurazione in Ungheria", Carlo intraprese due tentativi fallimentari di tornare sul trono, a marzo e a ottobre del 1921. Così non gli restò che la via dell’esilio. A quanti in quei momenti gli furono accanto, ripeteva: "Anche se tutto è andato a monte, dobbiamo ringraziare Dio, giacché le sue vie non sono le nostre vie"

"Gesù"

"Il 19 novembre 1921, festa di santa Elisabetta, ecco apparire l’isola dell’esilio […]. L’imperatore scorge le due torri mozze di una chiesa. "Quale nostalgia risveglia in me quella chiesa!" esclama. "E come mi ricorda le chiese del mio paese! È certamente una chiesa dedicata alla Madonna: andiamola subito a visitare". Era Nossa Senhora do Monte, Nostra Signora del Monte, la chiesa in cui pochi mesi dopo doveva trovare sepoltura": così Giuseppe Della Torre (Carlo d’Austria. Una testimonianza cristiana,Milano 1972) racconta l’arrivo di Carlo a Madeira.

Carlo vivrà per altri cinque mesi, e durante la sua permanenza il popolo si accorse che quell’uomo aveva qualcosa di più importante dello stesso titolo imperiale. "Carlo ebbe l’occasione di avvicinare tante persone; di aprire con tutti un rapporto umano, immediato; di contagiare tutti con gli sprazzi della propria personalità, ricca di sentimenti e di attenzioni per il prossimo. Fu così che la prima simpatia piena di compassione dimostrata dagli abitanti dell’isola nei confronti suoi e della sua consorte, si tramutò ben presto in un manifesto entusiasmo, che divampò negli animi di tutti".

Sono quasi tutti là i cittadini di Funchal, quel giorno di primavera del 1922. Vogliono salutare ancora una volta quel loro amico che si era congedato da loro e dalla vita terrena pronunciando come ultima parola un semplice nome: "Gesù"

Quel giorno, a Funchal e dovunque, non ci sono più imperi o imperatori a rappresentare il popolo cristiano in Europa e nel mondo. Quell’uomo, quell’imperatore trentaquattrenne, aveva commosso gli abitanti di Madeira per qualcosa che non aveva niente a che fare con il suo titolo regale e con la potenza che tale titolo aveva significato. Forse era l’affetto con cui pronunciava quel semplice nome che li aveva colpiti in quei cinque mesi. La stessa cosa che, forse, aveva commosso tutti coloro che lo avevano conosciuto, a corte o nelle dolorose trincee di inizio secolo. Forse l’unica difesa per il popolo cristiano era proprio l’affetto per quel semplice nome pronunciato, così tante volte implorato dall’ultimo imperatore.