1/ Trento, crocevia del ’68, di Giovanni Tassani 2/ L' urlo in Duomo e il ' 68, l' ex ribelle si scusa, di Marco Imarisio
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1/ Trento, crocevia del ’68, di Giovanni Tassani
Riprendiamo da Avvenire del 25/11/2014 un articolo di Giovanni Tassani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2014)
Trento, 3 luglio 1968: in un’aula della Facoltà di Sociologia di Trento, Beniamino Andreatta, membro, con Norberto Bobbio e Marcello Boldrini, del nuovo comitato ordinatore, sale con irruenza e tutta la sua mole su una cattedra, tra mormorii e ilarità, per meglio affrontare, di petto, l’assemblea studentesca riunita per conoscere scelte e nomi di un annunciato "nuovo corso" nella gestione degli studi. A fronte della protesta studentesca, che faceva di Trento quasi l’epicentro della contestazione italiana, il "nuovo corso" offriva un corpo docente giovane e rinnovato ed un direttore, Francesco Alberoni, reputato capace d’interlocuzione con gli studenti.
E’ un momento cruciale nella storia universitaria trentina, che il libro appena uscito per i tipi del Mulino La memoria dell’Università. Le fonti orali per la storia dell’università degli studi di Trento (1962-1972), mette in rilievo, con otto testimonianze di docenti, studenti e amministratori dell’epoca, i quali, al di là del ricordo visivo del fatto, danno interpretazioni diverse circa il contenuto del discorso di Andreatta.
I dieci anni tra la fondazione di Sociologia, nel 1962, e l’allargamento ad altre facoltà, superando contestazione e crisi, sono stati anni ricchi di esperienze e scommesse, anche contraddittorie. L’intuizione di puntare su una disciplina come la sociologia negli anni dello sviluppo crescente, riuscendo a far convergere a Trento i primi sociologi italiani che della disciplina erano i banditori, con il Mulino o le Edizioni di Comunità, rese possibile una battaglia, con il sostegno sostanziale di quei primi studenti, giunti lì per scelta motivata da tutta Italia, quando il riconoscimento della laurea non era garantito.
Quando, nel gennaio ’66, quella piccola e coesa comunità di studenti occuperà, prima in Italia, la "sua" facoltà, avrà il sostegno infatti della popolazione trentina; non si trattava più del riconoscimento del valore legale del titolo, ma di una lotta per la sua specificità: Sociologia, appunto, e non già l’inserimento, secondo il ridisegno Maranini-Miglio, in Scienze politiche. La storia della facoltà avrà scosse e fermenti negli anni successivi: il ’67 sarà l’anno della solidarietà al Vietnam, che gli studenti vorranno celebrare, nel mese di marzo, all’interno della facoltà, con una protesta civile in forme autogestite, ma che sarà interrotta d’autorità con sgombero e "trascinamento" non violento da parte della polizia e relative denunce.
Poi sarà la volta dell’ondata contestataria del ’68, dopo la fine degli organismi studenteschi rappresentativi, con candidati eletti, ed il passaggio all’assemblearismo, con la terza e più lunga occupazione, dal 31 gennaio al 7 aprile. Fenomeno generale e non certo solo trentino. Che non significherà però, come nelle intenzioni di molti, un passaggio a forme di "democrazia diretta", bensì, paradossalmente, una delega all’oligarchia dei leader, con un conseguente dilatarsi di un gregarismo di massa.
Un caos crescente, cui il corpo accademico trentino credette rispondere con un’altra delega: data a un direttore "creativo", Francesco Alberoni, che avrebbe dovuto assorbire, o almeno limitare, la protesta, con un "nuovo corso" alla francofortese. Con esiti in realtà da romanticismo della rivoluzione, nel cortocircuito tra "università critica" del rettore e "università negativa" degli studenti più estremisti. Ove si facevano controcorsi in cui Max Weber era bandito come sociologo borghese, in favore di Lenin e Mao, ritenuti autori più adeguati. Con questi strumenti s’intendeva forse aiutare, nel ’69, il movimento operaio, secondo una tradizione di collegamento studenti-operai meritoriamente inaugurata da subito a Trento.
Intanto dai numeri limitati degli inizi, le iscrizioni a Sociologia crescevano esponenzialmente anno dopo anno, fino all’ingovernabilità e al deterioramento del rapporto con la popolazione, certo acuita dai teorizzati "gesti esemplari", quali il "controquaresimale" del 27 marzo ’68 e la contestazione al presidente Saragat in visita a Trento nel cinquantenario della vittoria. Infine, "scaricato" Alberoni, il corpo insegnante deciderà di non aprire le iscrizioni per l’anno ’70-’71, interrompendo così il flusso studentesco, aprendo nuove facoltà e istituendo quindi, con rettore Paolo Prodi, una Libera Università nel ’72, oggi fiorente.
Tra gl’intervistati nel volume chi scrive trova vecchie amicizie, tra le quali Marco Boato, allora leader "razionale" a contrappeso del leader "carismatico" Mauro Rostagno, e Paolo Sorbi (protagonista del "contro quaresimale" citato), che decisero di stare nel flusso del "movimento", anche nella sua fase estrema e poi negli sviluppi politici post-trentini. Certo, il mio parere è in gran parte critico rispetto al "movimento" dopo l’estate ’68, epoca in cui la prima leva studentesca cominciò a lasciare Trento. Con altri testimoni, pur negando la nascita trentina del terrorismo, fenomeno che si sarebbe sviluppato nei primi anni ’70 al di fuori della città, confermo la presenza di un tono di violenza verbale e morale spesso usato a Trento: gli slogan ideologici quando non truci, gli esami di gruppo imposti a professori contro la loro volontà, la contestazione becera e umiliante verso Pietro Scoppola.
Fu quella una fase sovraccarica di ideologia e utopia, cioè di fuga dalla realtà, in cui si credette alla prossimità della "rivoluzione", respingendo come inadeguate le prospettive riformatrici come nel caso del Piano Gui sulla riforma universitaria, o le offerte di collaborazione da parte della Chiesa trentina (ricordo un foglio, Dopoconcilio, e un circolo di studi, "Bernardo Clesio", voluto dal vescovo Gottardi: un’accoglienza proposta ai tanti studenti cattolici praticanti e conciliari che animavano il movimento studentesco trentino, che fu se non rifiutata, certo snobbata). Il vento, o la fiumana, tirava da un’altra parte: chi aveva una vocazione politica più solida della mia tentò, con dedizione e in buona fede, quella strada. Oggi anche quei sentieri interrotti narrano una storia degna di essere ricostruita.
2/ L' urlo in Duomo e il ' 68, l' ex ribelle si scusa, di Marco Imarisio
Riprendiamo dal Corriere della sera del 21/11/2005 un articolo di Marco Imarisio. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/11/2014)
Eine exemplare Aktion. La piccola azione esemplare di Paolo Sorbi non fu un successo. Tre mesi prima, Natale 1967, lo studente Rudi Dutschke aveva interrotto la messa nella cattedrale di Berlino urlando contro la guerra in Vietnam. Martedì 26 marzo 1968, settimana di Pasqua, università di Trento al 55° giorno di occupazione, ci provò un venticinquenne studente di sociologia, nome di battaglia Paolino per la statura ridotta e l' aria paciosa. Padre Igino Sbalchiero sta dicendo messa in Duomo, durante l' omelia condanna l' Urss «e i suoi lager, orrore per l' umanità». Sorbi, baschetto nero in testa, giacca di pelle, esce dai banchi e in mezzo alla navata si mette a strillare: «Non è vero, non è vero, sono bugie». I suoi compagni lo strappano dalle mani dei fedeli inferociti.
Nei giorni seguenti, terrà una serie di controquaresimali leggendo brani di padre Balducci, prete fiorentino molto critico con la gerarchia vaticana. È uno degli episodi fondanti della contestazione italiana, l' inizio del Sessantotto cattolico, e anche del conflitto, come dimostreranno i fatti dei giorni seguenti.
Trentasette anni dopo, Sorbi chiede ufficialmente scusa, alla Chiesa trentina e alla città. Ma non la considera una questione privata. «Anche perché non fu il gesto di un individuo isolato. È il modo per riconciliare un pezzo della mia generazione, quella di origine cattolica, con l'unica istituzione che, al contrario della politica, si dimostrò in grado di comprendere il cambiamento».
L'ex leader del movimento studentesco si è affidato a Mario Franzoia, presidente della Consulta cittadina, per far arrivare in Curia la sua richiesta di riconciliazione. L' appuntamento è per domani a Trento, quando Sorbi incontrerà il vescovo Luigi Bressan a un convegno sul rapporto tra fede e cultura. «Gli dirò che quello strappo fu una scelta laicissima da parte di un estremista credente», dice.
«Le ragioni della protesta erano valide, perché la gerarchia ecclesiastica stava tradendo lo spirito del Concilio, ma il metodo fu drammaticamente sbagliato». Applicata a Trento, la pratica dell'azione esemplare teorizzata da Theodor Adorno ebbe effetti collaterali imprevisti. «Come tirare un sasso in una piccionaia» scrive Concetto Vecchio in Vietato obbedire, bel libro che ricostruisce la storia della facoltà di Sociologia di Trento - con studenti come Mauro Rostagno, Marco Boato, Renato Curcio e Mara Cagol - la prima università del dissenso che tanta influenza ebbe sul movimento studentesco italiano.
Padre Igino, mite padre francescano, non si riprese più dallo choc e smise per sempre di predicare. «Ormai non c'è più, ma lui più di ogni altro avrebbe diritto alle mie scuse - dice Sorbi -. In quei giorni, gli individui erano ritenuti simboli. Non avevamo sensibilità per la persona. Nei nostri metodi c'era in nuce la democrazia, ma anche il terrorismo». L' Adige poi titolò in prima pagina «Sorbi ha superato se stesso», e non per complimentarsi.
Ma quello fu il meno. «Putane, capeloni, n' de via!». Tre giorni dopo, durante un controquaresimale sul sagrato del Duomo, i trentini si ribellano agli studenti, Sorbi e i suoi, inseguiti da insulti, uova e frutta marcia, sono costretti a rifugiarsi nell' università occupata, ma i cittadini rompono i cordoni ed «espugnano» la cittadella. «Di quei giorni, ricordo lo sguardo gelido del mio amico Marco Boato durante la ritirata in facoltà. "Lo vedi che hai combinato?". E poi i metalmeccanici della Michelin, gli unici a difenderci dall'assalto dei cittadini imbestialiti».
Le scuse dell' ex leader del Sessantotto cattolico sono la logica conclusione di un percorso personale. Dopo Trento, Paolo Sorbi entrò in Lotta continua, come i suoi compagni di corso Rostagno e Boato. Ne uscì nel 1975, dopo aver denunciato «la cultura dell'estremismo al rilancio». Sosteneva la necessità di confluire nel Pci. «La mia linea venne ultrasconfitta e ne presi atto». Nel Partito comunista ci entrò da solo, per uscirne nel 1988.
«Allora come oggi, la sinistra europea non ha accettato di radicalizzare la propria componente umanistica scegliendo una via irrazionale. Io sogno un nuovo modo di organizzare la politica, dove il primato sia della cultura e non dell'economia».
Oggi il sociologo Sorbi vive a Milano, ha fatto campagna per l'astensione ai referendum sulla fecondazione assistita, ha una rubrica su Radio Maria, è presidente del Movimento per la vita ambrosiano, che spera di rifondare come movimento «ecumenico, interculturale, aperto a credenti e atei uniti su una visione della realtà basata sulla morale naturale».
Sorbi però non rinnega nulla di quell' anno da cui è così lontano, non solo per mera questione cronologica. «Non sono pentito. Il controquaresimale era sbagliato ma rese visibile il disagio dei cattolici della mia generazione. Mi piace pensare che la Chiesa ne abbia tenuto conto nel suo processo di rinnovamento».
Ovviamente è un uomo molto diverso da allora. Più volte ha criticato l’ideologia e l'estremismo che ne derivò. Ma non è un caso se rivendica la sua indipendenza. «Appartengo alla vecchia linea "cani sciolti"». Sotto sotto, l'orgoglio per aver partecipato a quella stagione c' è anche nel cattolicissimo Sorbi. «Lo vede il basco che ho in testa? È lo stesso di quella sera nel Duomo di Trento».