Antonia Arslan: il ruolo delle donne nel genocidio armeno. Un’intervista di Marta Rovagna ad Antonia Arslan. La scrittrice italiana di origine armena, autrice de La masseria delle allodole, racconta lo sterminio del proprio popolo e la resistenza eroica di quante hanno salvato, oltre a se stesse, anche i propri figli e la propria cultura
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Riprendiamo per gentile concessione dal sito DonneEuropa un’intervista di Marta Rovagna ad Antonia Arslan pubblicata il 27 giugno 2014 al link http://www.donneuropa.it/politica-ed-economia/2014/06/27/antonia-arslan/. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/11/2014)
Scrittrice e saggista italiana di origine armena Antonia Arslan, nata a Padova nel 1938, è laureata in archeologia ed è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. È autrice di saggi sulla narrativa popolare e d’appendice (Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano tra Ottocento e Novecento, Unicopli) e sulla galassia delle scrittrici italiane (Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana tra ’800 e ’900, Guerini e Associati). Attraverso l’opera del poeta armeno Daniel Varujan, del quale ha tradotto le raccolte II canto del pane e Mari di grano, ha dato voce alla sua identità armena. Ha curato un libretto divulgativo sul genocidio armeno (Metz Yeghèrn, Il genocidio degli Armeni di Claude Mutafian) e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia (Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni). Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, La masseria delle allodole (Rizzoli), dove ripercorre le memorie della sua famiglia: i racconti del nonno, sopravvissuto al genocidio, intessono il testo. Il libro ha vinto il Premio Stresa per la narrativa e il Premio Campiello ed è stato trasposto al cinema dai fratelli Taviani. La strada di Smirne (Rizzoli), sèguito del libro precedente, è del 2009. La sua ultima opera è Il libro di Mush (Skira Editore).
In questa intervista Antonia Arslan ripercorre per noi il genocidio armeno soffermandosi in particolare sul ruolo delle donne nel primo grande sterminio del secolo scorso. Questo il suo sito ufficiale.
Perché parlare oggi del genocidio armeno, e quale specificità ha avuto in relazione alle donne?
Parlare del genocidio armeno è importante non solo perché è avvenuto cento anni fa – il prossimo anno infatti se ne celebra il centenario – e perché i sopravvissuti, testimoni oculari dello sterminio, sono tutti morti, ma anche per il ruolo che le donne hanno avuto in questa storia: sono loro che hanno combattuto per conservare e preservare il proprio passato e le proprie radici, lottando per la salvezza dei propri figli piccoli ma anche per conservare un libro importante, le ricette, le storie e le leggende armene.
Quello che il genocidio ha distrutto in Anatolia è stata la cultura del popolo armeno: oggi in Turchia non esistono comunità armene se non una piccolissima realtà ad Istanbul, ma non esistono neanche chiese o edifici armeni, tutto è stato raso al suolo. Lo sterminio armeno ha avuto la definizione di genocidio non a caso: non si è trattato di “semplici” massacri, deportazioni o uccisioni, ma di uno sterminio sistematico attuato dal governo turco contro un’intera minoranza per motivi religiosi, etnici e politici. L’obiettivo finale, raggiunto dal governo dei Giovani Turchi nel 1915 e negli anni seguenti, è stato totalmente realizzato.
Quali sono le peculiarità di quel primo genocidio del ’900?
L’aspetto più specifico del genocidio armeno è il differente destino degli uomini e delle donne: i primi, protettori delle loro famiglie, vengono uccisi subito, gettandoli in burroni o nel fiume Eufrate, o finiti a colpi d’ascia. Le donne invece vengono avviate a una deportazione che le porta verso l’estinzione, il nulla. Il loro coraggio e la loro determinazione, insieme agli aiuti di qualche uomo giusto turco le salva, ma in generale si può dire che la resilienza delle donne armene è stata straordinaria. Hanno dovuto compiere scelte straordinariamente difficili: quali figli tenere e quali abbandonare lungo la marcia, se cederli ai turchi e ai curdi che venivano a rapirli, se suicidarsi o meno, come difendere le proprie figlie adolescenti dagli stupri, in che modo dare da mangiare ai propri cari senza morire del tutto di fame e di sete. Nei progetti degli organizzatori del genocidio le donne non sono state eliminate come gli uomini perché, secondo la cultura ottomana, non contavano nulla: la donna, nella cultura ottomana, è inferiore e non ha un’anima, per questo può essere usata e piegata a proprio piacimento.
Possiamo inquadrare in questo contesto il problema dei matrimoni obbligati e degli armeni convertiti forzatamente?
Sì, le donne in moltissimi casi sono entrate negli harem dei turchi, perché la donna armena era considerata “pregiata”. In un matrimonio misto il sangue maschile predomina, ma oggi recentissimi studi stimano che circa un terzo dei turchi del 2014 siano di sangue misto armeno, greco e siriano: le tre minoranze che hanno subito persecuzioni e stermini nel corso dello scorso secolo.
Che destino avevano invece i bambini rapiti dalle marce di deportazione degli armeni?
Le testimonianze raccolte in questo senso sono molto diverse: i bambini piccoli – giacché quelli sopra i 12 anni, considerati in grado di procreare, erano destinati ad una morte immediata – venivano condotti dai predoni nelle loro case per diventare piccoli schiavi, ma ci sono moltissimi racconti di sopravvissuti che spiegano come il loro trattamento nelle case turche sia stato buono, spesso venivano accolti come figli: circoncisi, ribattezzati con nomi arabi, obbligati a parlare turco e a dimenticare la propria lingua ma comunque amati, coccolati e accuditi.
Per questo molti sopravvissuti hanno poi vissuto l’atroce dilemma se riacquistare la propria identità armena, fuggendo dalle case dei turchi e rifugiandosi negli orfanotrofi aperti subito dopo il genocidio, o rimanere dai propri genitori adottivi turchi, continuando a parlare turco e a vivere come musulmani. L’assimilazione e la distruzione della cultura di appartenenza dei bambini era comunque una priorità assoluta.
Che ne è stato delle donne e dei bambini dopo il genocidio?
Le donne e i bambini sono stati salvati e soccorsi in tutti i modi, ma sempre con un destino diverso per femmine e maschi. Un’efficacissima campagna stampa all’epoca raccolse fondi importanti e in tutto il territorio turco furono creati dei veri e propri ‘centri di raccolta’ per gli armeni sopravvissuti. Le bambine venivano raccolte, spesso da missionari stranieri, ma molte, si stima circa 80mila, rimasero nelle case turche, spose forzate in giovanissima età ai parenti dei loro rapitori. I maschi invece venivano salvati e riscattati da una fondazione americana, che pagava denaro sonante per liberarli dalla schiavitù.
Le bambine cambiavano nome e religione, non potevano più recitare le loro preghierine infantili, si dovevano uniformare alla famiglie dei turchi. Le prescelte erano quelle più in fiore, la loro vita era stata risparmiata durante le marce, ma era diventata una cosa completamente diversa, frutto di un totale sradicamento dalla loro cultura e identità. Certo anche per i maschietti la vita non è stata facile: i sopravvissuti, tutti sotto i 12 anni, erano stati testimoni oculari di massacri, stupri di massa, donne incinte sventrate con la spada scommettendo se il feto fosse maschio o femmina. Per i più piccoli, quelli che all’epoca avevano 3-4 anni, successe una cosa ancora più strana: pur avendo vissuto i massacri, una volta condotti nelle case dei turchi persero completamente memoria della propria identità.
Come si è trasmessa la cultura armena nonostante il genocidio? Chi sono le donne armene della diaspora?
Non era previsto dagli organizzatori del genocidio ma le donne hanno salvato la cultura armena anatolica, e nella diaspora hanno portato con loro un’identità unica di quei luoghi, con usanze e costumi che non hanno uguali nelle comunità armene già stanziate in altre zone del mondo. Intraprendenti e generose, le donne armene avevano fiducia in loro stesse: gestivano denaro e lavoravano, vivendo in parità assoluta con l’uomo. Questo ha permesso loro di dimostrare, durante le deportazioni, un ingegno e una capacità di sopravvivenza per niente scontata agli inizi del secolo. La donna armena in diaspora è propositiva, autonoma, ha un mestiere, sa fare, ha creato dal nulla un lavoro di cui vivere.
Chi erano le donne armene cento anni fa?
Una ricca bibliografia, scoperta in anni recentissimi, ci permette di dire con certezza che negli anni ’10 la donna armena era alfabetizzata, faceva parte di una minoranza colta e ci teneva, vivendo in un ambiente a maggioranza ostile, ad avere un’istruzione: tutti dovevano sapere leggere e scrivere. Certo, era diverso il livello di studio, ma tutti i bambini armeni, maschi e femmine, arrivavano a concludere il ciclo degli studi della scuola elementare. Il loro livello culturale, nel momento della tragedia, le ha aiutate a capire la necessità di salvare i libri antichi di casa, poiché gli armeni possedevano una quantità di manoscritti miniati medievali. Le donne capiscono che non devono salvare solo i figli, ma se possono anche un libro o due.
Chi è la donna armena oggi?
La donna armena di oggi vive in vari luoghi ed è diversa a secondo del paese in cui vive. Le donne armene della diaspora sono diverse a secondo del paese in cui si sono insediati i loro nonni: io ad esempio sono nata e cresciuta in Italia, qui ho studiato e la mia cultura è italiana, ho anche insegnato letteratura italiana, così come gli armeni francesi sono francesi e così via. Tuttavia mi sento anche completamente armena: mi sento al cento per cento italiana e al cento per cento armena.
Quali conseguenze del negazionismo si sono pagate in passato e quali si pagano ancora oggi?
Negare il genocidio ha portato nell’immediato a una mancanza di tutela dei diritti delle vittime sopravvissute, che hanno continuato ad essere perseguitate nel corso degli anni successivi. Gli armeni che ancora oggi vivono in Turchia sono mimetizzati e muti, e cercano di resistere come possono. Il frutto più terribile del negazionismo oggi è una grandissima difficoltà per i discendenti dei sopravvissuti a elaborare questo enorme lutto, e il silenzio che copre tutto non permette alla ferita di rimarginarsi. Il negazionismo riguarda tutti perché le persone che hanno una coscienza vedono che è una posizione di comodo, un modo di chiudere gli occhi sulla realtà.
Ormai la realtà del genocidio armena è dimostrata, quasi tutti gli storici, tranne i pochissimi al soldo del governo turco, la attestano. Abbiamo tantissimi documenti, report stranieri, fotografie, un documentario, siamo pieni di testimonianze. Quando vado nelle scuole dico sempre agli studenti “Non pensate che voi non potreste mai fare una cosa del genere, in ogni uomo c’è il massimo del bene e il massimo del male”. Passo dopo passo si arriva a questi inferni, con una cecità volontaria, che si accomoda alla follia di un governo. Forse a Monaco di Baviera non sapevano quello che avveniva a Dachau? Il negazionista passivo, il più pericoloso, è colui che fa in modo che nulla, anche quando gli è vicino, lo riguardi.