MULTICULTURALISMO? La convivenza alla prova: il contributo dell’ebraismo, di Giorgio Israel
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Riprendiamo, per gentile concessione, da Gnavi Marco – Morlacchi Filippo, Ebraismo in Italia: identità, incontro, dialogo, Lateran University Press, Roma, 2008, la relazione tenuta da Giorgio Israel in occasione del Convegno svoltosi a Fiuggi il 15 marzo 2007 sul tema che ha dato il nome al volume, promosso dalla Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo della Conferenza Episcopale del Lazio, in collaborazione con l’Ufficio per la Pastorale Scolastica e l’IRC della Diocesi di Roma. La relazione portava il titolo “La convivenza alla prova: il contributo dell’ebraismo”. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.
Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2009)
Se ci poniamo la domanda di quale possa essere il contributo dell’ebraismo a una “convivenza” tra differenti identità, evochiamo in modo spontaneo un tema antico e difficile: quello del rapporto dell’ebraismo e degli ebrei con le società in cui vivono, ovvero il tema dell’identità ebraica. Sappiamo bene come la questione fondamentale che si pone al riguardo è se tale identità debba intendersi come esclusivamente religiosa o sia qualcosa di più, ovvero un’identità nazionale. Tenterò di dare una risposta attraverso alcune considerazioni autobiografiche: spesso le esperienze personali forniscono le piste più concrete.
Ritengo di aver maturato un’esperienza che mostra la possibilità di conciliare perfettamente l’identità ebraica con l’identità nazionale italiana, anche se sono figlio di madre italiana ma di padre “immigrato” e di cittadinanza italiana acquisita. Mio padre proveniva da Salonicco, una città che aveva visto per quattro secoli la presenza di una comunità ebraica proveniente dalla Spagna, dopo la cacciata dalla penisola iberica nel 1492, e che aveva conservato non soltanto l’uso della lingua castigliana, ma le usanze e persino, in taluni casi, le chiavi delle antiche case. La comunità ebraica di Salonicco rappresentava circa il settanta per cento della popolazione, per cui la città – in cui erano presenti una quarantina di sinagoghe – venne denominata anche la Gerusalemme balcanica. Fu un’esperienza che iniziò a dissolversi con il crollo dell’Impero Ottomano, che tollerava la presenza ebraica pur non concedendo agli ebrei la cittadinanza ma soltanto la posizione di “protetti”, e si concluse definitivamente con le deportazioni naziste.
Le vicende della vita di mio padre e della sua famiglia sono raccontate in un romanzo scritto negli anni Cinquanta, e che è stato di recente pubblicato. Ne citerò alcuni brani che descrivono la condizione identitaria dei membri della comunità ebraica di Salonicco e che forniscono utili elementi di riflessione sulla questione della natura dell’identità ebraica in generale.
[Si trovavano] in una situazione assurda che non aveva permesso loro di avere una nazionalità autentica né di adottarne una. Non avevano assunto nessuna caratteristica che li presentasse come un’entità concreta capace di imporre il proprio peso. Erano stati delimitati, configurati esclusivamente dalla loro fede religiosa; erano stati considerati come un popolo sui generis; il popolo dell’Alleanza. Non potevano avere nemmeno la nazionalità turca perché questa coincideva rigorosamente con la religione musulmana. Ma anche indipendentemente da questo, essi erano soltanto il popolo di Dio, perciò erano stati considerati come ospiti più o meno graditi nelle terre dove vivevano. Ma l’ambiguità di questa situazione cominciò a diventare evidente quando, di fronte all’entità astratta che essi rappresentavano, si alzarono dei popoli che possedevano una realtà politica concreta indiscutibile. Fu allora che apparve il vero aspetto della loro situazione: né Francesi, né Tedeschi, né Greci, né Turchi e nemmeno Ebrei. La loro lingua non era né il greco né il turco, ma uno spagnolo deteriorato ed imbastardito da contaminazioni di altre lingue, privo di sintassi precisa e pertanto di letteratura. Non presentavano altra caratteristica particolare che le loro tradizioni religiose e la storia di persecuzioni remote. In queste condizioni l’unico atteggiamento comprensibile era quello di Rabbì Avrahàm Beràha, un rabbino famoso in tutto il quartiere per la sua pietà religiosa che lo rendeva assente da qualsiasi fatto mondano. Due giorni prima dell’occupazione di Salonicco da parte dei Greci, era stato consigliato di esporre la bandiera della Nazione alla quale si apparteneva per premunirsi contro gli eccessi dei soldati eccitati dalla vittoria. Rabbì Avrahàm si trovava in casa di Samuèl ed ascoltava molto distrattamente i commenti che facevano i giovani sugli avvenimenti politici. La sua figura patriarcale, solenne nel suo costume orientale, il volto inquadrato fra un turbante di seta chiara ed una lunga barba che gli scendeva fin sul petto, faceva pensare ad un personaggio balzato fuori da una tela di Rembrandt. Giacomo gli aveva chiesto con una lieve sfumatura di malizia:
— E voi Rabbì Avrahàm che bandiera esporrete?
Lo sguardo del vecchio rabbino espresse una sorpresa pacata.
— Di quale nazione siete suddito?
— Io?… Io sono suddito di Dio! — rispose semplicemente senza enfasi né ironia.
Era l’unico atteggiamento che conveniva a tutti i suoi concittadini: sudditi di Dio! Bandiera, esercito, frontiere da difendere, glorie nazionali… Un mondo sepolto in un passato remotissimo, completamente cancellato dalla memoria di numerose generazioni. Per essi non esisteva che il Regno di Dio, quello dei Dieci Comandamenti. Però tutti gli Ebrei del mondo non potevano pensarla allo stesso modo… Bisognava, per vivere fra gli altri popoli, parlare un linguaggio che riuscisse comprensibile al resto dell’umanità, bisognava parlare come tutti gli altri, fare della politica, tanto più che si faceva già del commercio. […]
Dovunque noi mettiamo piede siamo considerati degli stranieri e tali rimaniamo perché siamo incapaci di mettere radici… Abbiamo prosperato qui a Salonicco, come una pianta rigogliosa, per circa quattro secoli; abbiamo dato tanti rami carichi di fiori e di frutti; ma questa pianta, questo albero non ha radici. Le nostre radici, forse, sono rivolte verso il cielo… (Saul Israel, Con le radici in cielo, Marietti, Milano-Genova 2007).
È certamente per la consapevolezza delle difficoltà della condizione di un “albero senza radici” che mio padre volle che suo figlio possedesse delle radici solide, un legame con questo paese, con la sua cultura, un legame profondo con la cultura e l’identità italiana ed europea.
Oggi la condizione dell’ebraismo è molto diversa da quella precedente la Seconda guerra mondiale. Il sionismo ha avuto il merito straordinario di indicare una nuova soluzione di tipo nazionale al problema dell’identità ebraica. In tal modo si sono aperte due vie per gli ebrei: la riscoperta delle radici nazionali seppellite da secoli, il riallacciarsi alla storia di Israele attraverso un ritrovato legame con la terra che ha visto la saldatura tra identità religiosa e identità nazionale ebraica; oppure la scelta di restare nella Diaspora, fuori da Israele, conferendo un connotato essenzialmente religioso e culturale alla propria identità ebraica. Naturalmente questa seconda scelta non esclude il legame naturale della Diaspora con quella parte dell’ebraismo che ha scelto di riscoprire la propria identità nazionale. È un legame rafforzato non soltanto dall’esistenza di un’unica radice, ma anche di un comune destino, reso più evidente dal persistere e persino dall’aggravarsi delle minacce antisemite che fanno pesare, in particolare sullo stato d’Israele, l’ombra di una nuova distruzione.
Pertanto, questa duplicità di vie – che non è una doppiezza – è un retaggio della storia dell’ebraismo; essa risale al violento sradicamento dalla propria realtà nazionale che gli ebrei hanno subito e che tuttavia non hanno mai cancellato dalla propria memoria collettiva. È un punto di importanza centrale, che deve essere capito, altrimenti è vano parlare di comprensione reciproca e di convivenza. Difatti, è proprio nell’incomprensione del problema dell’identità ebraica e delle sue lontane radici che si annidano i germi dei pregiudizi.
Le complesse vicende dell’identità ebraica insegnano soprattutto una cosa: il carattere velleitario e astratto del multiculturalismo. Naturalmente, quando dico questo non mi riferisco alla multiculturalità, che è un dato di fatto. Il monoculturalismo non è mai esistito. Tutte le società della storia sono formazioni “meticcie”, ovvero sono la sintesi di una miriade di apporti diversi. Quel che conta è che, in date fasi storiche, questi apporti danno luogo a sintesi del tutto originali che riescono a proporsi come modello sociale e culturale per l’intera società, almeno fino a quando riescono a conservare una capacità di sviluppo dinamico e una vitalità.
Viceversa, il multiculturalismo è un progetto di società che prevede la convivenza, fianco a fianco, di gruppi sociali e culturali diversi, e la cui tolleranza reciproca dovrebbe essere garantita dal fatto che nessuno di essi eserciti una prevalenza sugli altri e neppure s’impicci di quel che accade nella “zona” occupata dagli “altri”, nell’indipendenza assoluta di usi, costumi, religioni, regole di vita e principi etici.
La storia dimostra, al contrario, che la convivenza funziona soltanto in contesti caratterizzati da una identità dominante, la quale stabilisce i principi generali e le regole di tale convivenza. Naturalmente, questa predominanza identitaria deve essere improntata alla tolleranza e non deve cedere alla tentazione di assorbire, assimilare e inglobare, ovvero di annullare l’identità altrui. È un equilibrio difficile, ma una convivenza è impossibile se non vengono stabilite in qualche modo, e necessariamente da parte di una maggioranza, le regole generali della vita associata.
Per venire ad un esempio concreto, le società europee sono dominate da una concezione della vita associata che deriva dai principi della giustizia, della tolleranza e del rispetto della persona che, a loro volta, si radicano nelle tradizioni ebraico-cristiana e della democrazia liberale. Questa visione della società può essere aperta a culture diverse e disponibile ad accoglierle con tolleranza e interesse, ma senza venir meno a una cornice generale di principi: ad esempio, non potrebbe accettare modi di vita o costumi lesivi dei diritti e della dignità della donna, come la poligamia o l’infibulazione.
Per converso, l’accettazione di una suddivisione della società in zone in cui ciascuno agisce come meglio crede porterebbe alla dissoluzione di quella cornice di principi e, in definitiva, alla distruzione di ogni possibile forma accettabile di convivenza sociale basata sul rispetto reciproco.
Il caso di Salonicco è un buon esempio. Laggiù gli ebrei erano maggioranza assoluta e, in qualche modo, improntavano di cultura e religiosità ebraica la vita della città. Ma non furono mai capaci – e neppure si posero il problema – di definire in modo esplicito un tessuto identitario, al limite di trasformare la Gerusalemme dei Balcani in un ministato ebraico. Quindi, con l’ingresso in campo di identità che miravano ad affermarsi in modo forte – come era quella greca, sebbene in questo caso si trattasse persino di un’operazione identitaria abbastanza artificiale – quella esperienza non poteva non concludersi.
Al contrario, chi va in Israele trova qualcosa di ben definito: non soltanto un paese a prevalente presenza ebraica, ma uno stato di cultura prevalente ebraica, nell’ambito del quale si può ovviamente essere laici o praticare un’altra religione (e, nel caso di Israele, con un gran margine di tolleranza), ma in cui l’identità prevalente definisce la cornice etica e normativa della convivenza.
Chi vive in Italia sa di vivere in un paese prevalentemente cattolico e le cui forme di convivenza sono ancora (sebbene in forma meno accentuata di un tempo) caratterizzate da tale prevalenza. Potrebbe anche accadere, nel futuro, che l’Italia diventi un paese dominato da una cultura diversa, come fu nel passato: visti i candidati a tale sostituzione è una prospettiva che non ritengo auspicabile…
La peggiore prospettiva sarebbe comunque quella che essa divenisse un mosaico multiculturale, perché di certo diverrebbe allora un luogo di intolleranze razziali di brutalità inaudita, come mostrano chiaramente i primi embrioni di forme di convivenza comunitarista che si affacciano in Europa, per esempio in Olanda o nelle periferie londinesi. Oltretutto, una simile disgregazione comunitarista aprirebbe la strada all’affermarsi dell’egemonia delle identità più aggressive e intolleranti.
Ritengo fermamente che, oggi come ieri, per un ebreo italiano la questione centrale nel proprio vivere in questo paese, sia il rapporto con il cristianesimo e, specificamente, con il cattolicesimo. Del resto è stato sempre così. La storia dell’ebraismo in Europa ha questo di caratteristico: che l’ebraismo è stato sempre un attore delle vicende culturali, religiose e politiche del continente e non se ne è mai estraniato, malgrado sia stato spesso spinto ad estraniarsene e talora in forme di grande violenza.
Qui risiede una differenza fondamentale tra l’ebraismo e l’islam, che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia d’Europa ma è ben presto uscito – non tanto o soltanto espulso, ma volontariamente uscito – dal processo di costituzione dell’identità europea. Ed ora che tende a rientrare nella storia d’Europa, tende a farlo, a causa del prevalere di correnti integraliste, con un atteggiamento di totale estraneità e persino di ostilità all’identità europea, vista come qualcosa da rifiutare e magari anche distruggere. Le vicende dell’ebraismo europeo, e italiano, sono state spesso dolorose, dolorosissime, ma non sono mai state estranee a un rapporto profondo con il mondo cristiano, non sono mai uscite da un dialogo talora molto difficile, ma comunque particolare e privilegiato, con il cristianesimo.
Cristianesimo ed ebraismo possiedono un terreno comune, come nessuna altra religione: l’idea messianica. Così come si dice scherzosamente che americani e inglesi sono “divisi” da una comune lingua, si potrebbe dire che ebraismo e cristianesimo sono “divisi” dal comune ideale del messianismo. Proprio questa comunanza ideale è stata fonte dei più gravi dissidi, ma, al contempo ha rappresentato il terreno di un rapporto profondo e questo appare più chiaro oggi che molte incomprensioni e diffidenze vengono progressivamente gettate alle spalle.
Il tema dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo sulla questione del messianismo è di enorme complessità, ma merita di essere approfondito. L’interazione delle due religioni su questo tema ha influito su entrambe, come ha osservato Gershom Scholem: «Se il giudaismo non ha cessato di instillare nel cristianesimo un messianismo politico e millenarista, si può osservare, per converso, che il cristianesimo ha trasmesso all’ebraismo, o quantomeno ha risvegliato in esso, una tendenza mistica all’interiorizzazione del messianismo» (G. Scholem, Le messianisme juif, Calmann-Lévy, Paris, 1974).
È questa una pista di riflessione che può essere sviluppata proficuamente oggi, che il terreno appare sempre più sgombro delle pietre che, nel passato, hanno intralciato il cammino; e ciò nel contesto di un dialogo senza sincretismi come ha detto il Papa Benedetto XVI nel suo discorso alla sinagoga di Colonia, parlando della necessità di «un dialogo sincero e fiducioso che non passa sotto silenzio le differenze esistenti».
Non è retorica ripetere che occorre, in primo luogo, ricercare quello che unisce anziché accentuare quello che divide. Fra questi elementi comuni, un aspetto cruciale è contenuto nel celebre discorso del Papa a Regensburg. Mi riferisco al tema della ragione. Il rapporto con il pensiero greco è un tema fondamentale comune al pensiero ebraico e cristiano. Anche Moshe Idel ha osservato che la storia dell’evoluzione della teologia ebraica dai primi secoli dopo Cristo è essenzialmente influenzata dal rapporto e dal confronto con l’ellenismo.
Per questo, non stupisce che il tema del ruolo della ragione, del suo ruolo nella fede religiosa, nella definizione di una visione umanistica della società al cui centro si collochi la persona, sia qualcosa che accomuna profondamente ebraismo e cristianesimo. Entrambi condividono l’aspirazione a una visione larga e non ristrettamente positivistica della ragione.
Quando si parla di radici ebraico-cristiane dell’Europa, se questo termine ha senso è soprattutto per questo. Non a caso, un grande filosofo ebreo come Edmund Husserl, ricorrendo negli anni Trenta a una terminologia quasi identica a quella usata dal Papa a Regensburg, ha tanto parlato di una «missione filosofica» dell’Europa, consistente nel difendere l’idea di una ragione che non si riduca al naturalismo.
Oggi il senso di questa missione filosofica appare molto appannato, al punto da evidenziare una drammatica crisi di identità dell’Europa. Tanto più ebraismo e cristianesimo possono essere naturali alleati nella difesa di una visione umanistica. E qui mi riferisco ancora al discorso del Papa alla Sinagoga di Colonia in cui chiedeva all’ebraismo una «testimonianza, collaborando per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo».
È un terreno del tutto fertile per un discorso comune, se solo si pensa a quanto sia centrale il ruolo della famiglia nell’ebraismo, nei suoi riti, nella sua religiosità, nella sua concezione sociale. Come è noto, alcune delle ricorrenze più solenni dell’ebraismo hanno il loro luogo naturale nella famiglia. Mi permetterò ancora qui di citare un passaggio del già menzionato romanzo di mio padre:
[…] chi non ha ricevuto la rivelazione del sentimento religioso nella famiglia e non l’ha perfezionato in seno a questa, non riesce a sapere nemmeno di che cosa si tratta. […] Fuori della famiglia Dio non è che un’arida astrazione che può avere anche una sua bellezza particolare; ma si tratta di una bellezza priva di umanità: una bellezza tipicamente pagana, fatta di simboli, di esorcismi e di scongiuri. È il Dio degli scapoli e degli atei. L’amore per questo Dio richiede uno sforzo di volontà ed uno sforzo mentale appesantito da tante incertezze.
Per parte mia, ritengo che l’ebraismo non può non essere decisamente schierato in difesa di una visione umanistica e contro un materialismo dilagante nella società di oggi, che tende a considerare la persona come una macchina.
L’ebraismo in cui credo è quello di cui parla Gershom Scholem e voglio concludere questo intervento con le sue parole, scritte una trentina di anni fa ma quanto mai attuali:
Un ebraismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrà opporsi risolutamente al naturalismo. Dovrà insistere sul fatto che la nozione tanto diffusa di un mondo in progresso e che sarebbe lui stesso la fonte di una libera produzione di senso – che, tra tutti i fenomeni, è il più difficile da cogliere – può evidentemente essere proposta, ma non può essere sostenuta seriamente. Certo, l’ipotesi secondo cui il mondo è il luogo di un’assenza di significato è ricevibile, a condizione tuttavia che sia possibile trovare un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze. La frivolezza filosofica con la quale parecchi biologi tentano di ricondurre le categorie morali a categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima intellettuale della nostra epoca ma non potrebbe ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. Basta studiare attentamente uno soltanto di questi lavori per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifici intellettuali. Non sarà mai possibile dimostrare l’ipotesi secondo cui il mondo ha un senso mediante estrapolazioni condotte al di fuori di contesti di significato determinati, perché questa convinzione è la base della fede nella creazione.
Ritengo che la credenza incrollabile in un nucleo morale specifico è quel che conferisce al popolo ebraico il suo senso nella storia del mondo e che essa sia trascendente ad ogni secolarizzazione. (G. Scholem, Fidelité et utopie, Calmann-Lévy, Paris 1978).