Appunti indiani, di Andrea Lonardo (I parte)
Il Centro culturale Gli scritti (21/9/2014)
NOTA BENE Questi appunti non hanno alcuna pretesa di completezza e sono evidentemente molto soggettivi. Hanno l’unico scopo di fissare nella memoria alcune riflessioni che richiederebbero ben altro sviluppo, data la complessità e l’ampiezza dei temi e delle questioni appena sfiorate in così poche parole. Per approfondimenti su induismo e buddhismo, cfr. la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
1/ Cosa ha piacere un indiano che si dica della sua terra?
L’arcivescovo d Bangalore risponde alla domanda cosa avrebbe piacere che si sapesse in Italia dell’India:
“Primo: l’India accoglie gli ospiti come inviati di Dio e questo è un primo aspetto della sua bellezza.
Secondo: tutti gli indiani credono in Dio - anche se molti non credono in Cristo - ed è più facile insegnare valori a chi crede in Dio, piuttosto che a chi non crede. Anche questo appartiene alla grandezza dell’India.
Terzo: che quasi tutti i cristiani In India – anche se non tutti – sono pronti a morire per Cristo, se dovesse essere richiesto”.
2/ Capire l’India?
Dopo pochissimo ci si accorge che non è possibile capire l’India. Non è solo la diversità degli stati con lingue diverse per cui anche un indiano non è sempre in grado di capire un altro indiano - addirittura per passare da uno stato all’altro dell’India gli autobus e le merci debbono pagare una tassa!
Ma soprattutto perché ci si accorge subito che l’India è in rapido cambiamento e ciò che si vede oggi forse fra 20 anni non ci sarà più. L’aeroporto di Chennai è allo stato attuale indietro di decenni, ma sta per aprire il nuovissimo aeroporto: intorno tutto è in costruzione. C’è povertà, ma anche tantissima ricchezza. A Bangalore le grandi ditte producono hardware e software esportati in ogni luogo della terra, con ingegneri fra i migliori del mondo.
L’India è con gli USA e la Cina al top del mondo economico. Fra uno o due decenni, anzi, l’ordine delle superpotenze sarà: Cina, India, USA.
Ci si accorge subito che quello che si può fare dall’esterno nella lotta alla povertà, ad esempio con aiuti economici di carità è pochissimo. Sia perché gli indiani sono 1 miliardo e 200 milioni, sai soprattutto perché sono loro ad essere ben più ricchi, come nazione, di una nazione europea. Ciò che impedisce uno sviluppo omogeneo non è tanto il fattore economico: incide la questione delle caste (per i matrimoni, per le vedove, per una piena integrazione di tutti), quella della natalità (lo Stato sta lottando contro il gendercide, l’aborto delle bambine, ed è ufficialmente, anche se non in realtà, vietato di conoscere il sesso del nascituro prima della nascita), quella del fondamentalismo indù, quella della presenza musulmana, ecc. ecc.
Veramente il dono più grande che si potrebbe fare all’India, se fosse concesso, è quello della libertà religiosa e dell’annunzio del vangelo, l’unica realtà capace di incidere su problemi che sembrano atavici. È irrisorio l’aiuto economico che si può dare ad una nazione così grande che non può che risolvere da sé i suoi problemi: è proprio per il rispetto dell’India che si deve dire che le sue enormi ricchezze deve saperle valorizzare a beneficio di tutti i suoi cittadini.
Ben più consistente sarebbe, invece, il dono del vangelo che renderebbe possibile sbloccare molte situazioni che ritardano una piena condivisione dei beni. Il Vangelo non è estraneo all’India: è stato portato da San Tommaso fin dall’età apostolica e tanti indiani (il 2%) sono cristiani, anche se i fondamentalisti vorrebbero far credere che chi non è di religione indù non è un vero indiano.
Comunque, la responsabilità di ciò che avviene nel paese è dell’India e solo dell’India: e dire questo è già un’attestazione di stima e di rispetto.
I processi in atto sono di lunghissimo periodo, eppure vedono cambiamenti vorticosi: in alcuni quartieri dove madre Teresa aveva inviato le sue suore, si respira ormai aria di relativo benessere. La povertà è evidente, ma è evidente anche l’arricchimento della classe media e della nazione.
Si dice del paese: l’India è difficile, o la si ama o la si odia!
3/ La difficile questione della libertà religiosa in India
Ci si rende conto della gravissima questione della libertà religiosa in India già al momento del visto. Un sacerdote deve dichiarare che non farà attività di evangelizzazione (missionary work), altrimenti potrebbe non ottenere il visto. Preti indiani che rientrano in India possono essere fermati all’aeroporto anche per alcuni giorni, senza motivazione (cioè solo perché sono preti).
Il visto può non essere concesso - se non per brevi periodi di turismo - a persone di congregazioni religiose che vorrebbero aprire una scuola, o un oratorio, per paura che diffondano il cristianesimo . Io stesso sono divenuto parroco di Santa Melania perché l’ordine canossiano aveva deciso di chiudere la parrocchia e di trasferire il parroco in India per aprire un oratorio. Dopo 5 anni la congregazione dei canossiani ha desistito perché il sacerdote in questione non riusciva ad ottenere un visto almeno provvisoriamente stabile.
La legge in alcuni stati dell’India – non in tutti - proibisce di cambiare religione: in questo caso bisogna rivolgersi ad un avvocato se si vuole il Battesimo.
In Orissa, recentemente, l’uccisione di un guru indù - probabilmente per mano di un gruppo neo-marxista di ispirazione maoista, la cosa non è del tutto certa - ha fatto nascere l’accusa infondata che fossero responsabili dell’omicidio i cristiani e più di 100 cristiani sono stati uccisi e molte chiese saccheggiate e date alle fiamme.
Alcuni giovani cattolici a Mysore, in Karnataka, sono stati recentemente fatti oggetto di attacco da parte di alcuni fondamentalisti indù, perché accusati di evangelizzare, ed il sopraggiungere della polizia ha fatto sì che essa non intervenisse a difenderli, bensì che 4 cattolici indiani fossero imprigionati per 3 giorni.
Un giovane racconta lo stato spaventoso delle prigioni indiane, dove 40 persone vengono ammassate l’una a fianco dell’altra senza letto in uno spazio ristrettissimo. La cella contiene anche 2 buchi per i bisogni corporali. Il cibo è orrendo - afferma lui che pure è uso a mangiare qualsiasi cosa. La prigione non ha intenti rieducativi, bensì semplicemente punitivi.
La chiesa indiana, ormai composta quasi esclusivamente da indiani, è come stretta fra il desiderio di condividere il Vangelo, sapendo che tanti lo accetterebbero con gioia, ed il comando dello Stato di non palare di Cristo agli indù.
Il divieto di evangelizzare e di convertirsi al cristianesimo è, comunque, per l’induismo come per l’islam, l’implicita ammissione che il cristianesimo attrae e che se le persone potessero conoscerlo lo amerebbero e lo abbraccerebbero.
4/ L’induismo
Per quel che riguarda l’induismo in realtà la situazione degli indiani “del popolo” è diversa dalle rappresentazioni “filosofiche” che se ne hanno in occidente. La gente non studia l'induismo e ne ha una vaga conoscenza: solo i brahmini leggono i testi sacri. Le persone si rivolgono ai diversi dèi tramite i brahamini (i sacerdoti) che pregano in sanscrito con le preghiere dei Veda ed offrono i sacrifici portati dalla gente sempre con i rituali vedici, mentre la gente non capisce le preghiere. La preghiera (puja) è soprattutto di richiesta e, quindi, di lode, mentre non c’è una rivelazione degli dèi. Non c’è niente di simile ad una catechesi o ad una omelia. La religione è personale e non comunitaria, non ci si reca insieme nei templi, ma singolarmente, per la propria preghiera. Ma la puja si fa anche in casa: le case hanno uno o più tempi dove si offrono piccoli sacrifici agli dèi ogni mattino.
La gente non studia l’induismo, si limita ai rituali: ci si rivolge agli dèi per chiedere aiuto nella salute, negli affari e nel lavoro, nell’amore, con i figli.
Si accettano le caste, come un dato di fatto. Certo l’economia moderna sta facendo scomparire il vecchio sistema di caste, sostituendovi la distinzione fra benestanti e poveri nella scala sociale, ma, in realtà, la distinzione di caste pesa ancora moltissimo in ambito matrimoniale: non si sposa mai una persona di casta inferiore. Inoltre, toccare uno di casta inferiore rende impuri e, dopo averlo toccato, si ha bisogno della purificazione. Per questo il rispettosissimo saluto dell’inchino a mani giunte evita il problema del contatto fisico con persone delle quali non si conosce l’origine.
Per questo è scandalosamente bello l’abbraccio di pace, il “bacio santo” della pace (ma nelle chiese anche alcuni cristiani fanno resistenza a questo, tanto pesano le tradizioni induiste).
Resta nella mentalità il fatto che l’appartenenza ad una casta dipende dai “peccati” della vita precedente, a causa della reincarnazione. Per cui non ha senso ribellarsi a questo destino, si tratta piuttosto di attendere la vita successiva. Una delle cause dell’arretratezza che l’India si porta dietro è proprio questa rassegnazione, questa accettazione inevitabile di un destino che appare segnato fin dalla nascita della presente vita che si sta vivendo. Tragicamente questa rassegnazione viene pian piano sostituita dalla competizione del capitalismo, più che non dal protagonismo evangelico. L’inconscio collettivo ritiene che l’animale che si ha davanti potrebbe essere la reincarnazione di un uomo che ha mal vissuto.
Un documentario in un centro che ha riedificato abitazioni rurali dei diversi stati dell’India, presenta la vita della persona come un ciclo perenne: al momento della morte la vecchia del documentario sa che vivrà “again, again and again” infinite vite.
Un’interpretazione più filosofica della religione indù porterebbe a ritenere che le singole divinità sono anch’esse inconsistenti e destinate a scomparire nei diversi cicli di reincarnazione fino a scomparire nell’Uno, ma nella mentalità popolare esse compongono un vero e proprio Pantheon sussistente ed ogni città o stato ha la sua divinità benefica prevalente, cui la maggior parte della popolazione si rivolge.
Nei templi è evidente l’attaccamento al denaro ed alle offerte dei brahmini, ma la gente non ha sentimenti anti-clericali” come in altri paesi: per lei è normale che i “sacerdoti” indù vivano delle offerte dei fedeli.
Fondamentale è la presenza del maschio (per questo l’India, insieme alla Cina, è uno dei paesi tristemente noti per il cosiddetto gendercide, cioè l’aborto di genere, l’aborto solo bambine). Solo il maschio può accendere la pira del padre alla sua morte ed, inoltre, la femmina necessita di una dote consistente per sposarsi. Non ci sono cimiteri, perché tutti copri vengono cremati.
Fino ad un passato recente – le leggi che vietano tali costumi sono posteriori alla I guerra mondiale – la vedova si gettava viva sulla pira del marito morto; è la pratica della sati), perché doveva transitare con lui in una nuova reincarnazione. Oggi questo è proibito, ma avviene ancora in segreto in alcuni luoghi. In Nepal, altro paese di tradizione induista avveniva ancora fino al 1952. Oggi questo è sostituito dall’ostracismo nei confronti della vedova che, di fatto, viene privata di ogni dignità e di ogni bene, costretta a vivere, a volte, di prostituzione (per il passato, cfr. film Water - Il coraggio di amare, diretto nel 2005 da Deepa Mehta).
Alla domanda se l’induismo tema più l’islam o la secolarizzazione (l’Islam è sentito in India come un pericolo forte e reale, anche per la natalità delle famiglie islamiche e frequentemente si registrano scontri violenti fra e due religioni) un cristiano risponde: forse il pericolo maggiore è l’induismo! Fa riferimento al crescere di un fondamentalismo indù, derivante probabilmente dalla consapevolezza che molti giovani non seguivano più la religione. Un’evidente secolarizzazione prosegue, ma anche i giovani restano legati in un modo più tenue alla religione ed un numero crescente di giovani sposa le tesi del fondamentalismo indù.
Tutto quello che si può dire dell’induismo non è offensivo. È, invece, l’ennesima riprova dell’esigenza dell’uomo di trovare Dio e della incapacità di riuscirci. È evidente per ogni indù che l’uomo ha una natura spirituale e che solo nel rapporto con l’infinito, con gli dèi, può trovare se stesso ed il vero significato della vita in una progressiva purificazione, ma è altrettanto evidente che l’uomo non riesce nel suo percorso. Questa impossibilità di giungere a Dio è analoga a quella dei greci, dei latini, dei fenici, degli egizi, così come dello sforzo compiuto da ogni religione nella storia. Solo Dio può rivelare se stesso e la vera dignità dell’uomo in Gesù Cristo.
I testi induisti
I Veda, sono il corpus delle scritture che comincia a sedimentarsi a partire dal 1700 a.C. presso gli arii che invasero il subcontinente indiano.
I Veda sono il corpo della rivelazione (shruti dalla radice sanscrita shru, udire) raccontata dai saggi veggenti, i rishi.
In senso stretto i Veda sono 4 libri (samhita, raccolta): il Rig Veda, raccolta di inni, redatta a partire dal 1000 a.C. circa, lo Yajur Veda, raccolta di formule sacrificali, il Sama Veda, raccolta di formule liturgiche, l’Atharva Veda, raccolta di formule magiche.
Ad essi sono collegati altri tre gruppi di testi: i Brahmana che trattano ulteriormente il tema dei sacrifici e dei rituali, gli Aranyaka (libri della selva, cioè del ritiro ascetico), le Upanishad (dal verbo “sedere”, “sedere accanto” ad indicare il rapporto maestro-discepolo) che sono la parte più filosofica dei Veda e trattano del cammino per il quale l’atman, l’anima individuale, può giungere alla liberazione dall’apparenza corporea e perdersi nel Brahman, nell’assoluto.
Le 4 sezioni dei Veda si costituiscono fino al VI secolo a.C., cioè fin quasi all’avvento di Buddha.
Il corpus induista non è dato solo dai Veda, ma esistono anche altri testi importanti: i poemi epici Mahabharata e Ramayana e le raccolte dei miti religiosi dei Purana. Questi testi ricchi di narrazioni mitologiche appartengono alla cosiddetta Tradizione (Smriti, dalla radice smri, ricordare).
L’induismo ha conosciuto un’evoluzione che ha portato la religione vedica fino all’induismo attuale o brahmanesimo.
Esso si caratterizza ora per tre concetti generativi.
Innanzitutto il Dharma, che è la legge universale ma anche personale che governa l’ordine dell’universo. Il dovere dell’indù - il dharma personale - consiste nell’adempiere alla condizione della casta cui si appartiene.
Il Karma, invece, è la legge cosmica per la quale ad ogni azione dell’uomo corrisponde una modificazione del suo destino personale.
Questo permette all’anima nel ciclo delle reincarnazioni (samsara) di progredire, ma anche di retrocedere. Il fine è quello di giungere a reintegrarsi con il Brahman, l’assoluto.
Il nascere in condizioni sfavorevoli (casta bassa o essere donna) dipende da peccati compiuti nelle vite precedenti.
Le caste appaiono nella Tradizione (la Smriti) nel libro Manu Samhita (Raccolta di Manu) che è databile al V secolo a,C.
Come è noto, quattro sono le caste, anche se esistono ulteriori suddivisioni all’interno di esse: 1/ Brahmana (la casta sacerdotale) 2/ Kshatriya (la casta dei guerrieri) 3/ Vaishya (la casta dei commercianti) 4/Shudra (la casta dei servitori). Fuori delle caste esiste il gruppo dei “fuori casta”, gli intoccabili. La mitologia indù vuole che dalla testa della divinità sia uscita la casta brahmininca, dal petto quella dei Kshatriya, dalle viscere quella dei Vaishya, dai piedi quella dei Shudra. Dalla religione è nata così un sociologia religiosa che è essenziale al sistema religioso stesso. I poveri sono tali perché quello è il loro destino. È interessante che non esista il termine “persona” nella tradizione induista. Non si dà qualcosa come la dignità dell’individuo, la sua coscienza e libertà inalienabili, ecc. Se si leggesse la storia dell’induismo con gli occhi del materialismo marxista si giungerebbe ad affermare che la reincarnazione è stata inventata per costruire una società immodificabile, dove i poveri sono obbligati a restare nella loro condizione con l’illusoria promessa di una esistenza migliore al giro successivo.
L’induismo ha così elaborato un sistema di controllo sociale tremendamente efficace che ha fatto sì che venisse finora rigettata ogni novità sia endogena (buddhismo e jainismo) sia esogena (cristianesimo e islam). Il confronto con la secolarizzazione è tuttora in corso e gli esiti sono imprevedibili.
A fianco delle relazioni fra le caste fondamentale è il concetto di purità. Il contatto fisico con una persona di casta inferiore rende impuri, così come, per chi è tenuto all’astensione dalle carni, l’assunzione di carne: il cucinare carne rende impura tutta la cucina, per cui si preferisce mangiare carne in un ristorante.
La religione ariana è originariamente politeista con un pantheon che ha divinità più o meno corrispondenti al pantheon fenicio, greco o latino. Questo politeismo originario è nato dall’incontro della religione degli invasori ariani con l’antica religione degli indiani del sud.
L’induismo ha poi conosciuto un periodo di astrazione e di elaborazione più “filosofica”, con i concetti di Dharma, Kharma e Samsara. Esiste solo un dio impersonale, Brahman, mentre non esistono in realtà le diverse divinità e l’uomo è solo una scintilla della fiamma divina che si è imprigionata nel corpo. Il corpo è una sorta di prigione dalla quale l’uomo deve liberarsi con le proprie forze, non essendoci un Dio personale che può aiutare con la sua grazia. Lo stato della liberazione è detto moksha: è la liberazione dalla carne, con la riunificazione con l’assoluto indistinto originario.
Ma la gente ha bisogno di riti e di una mitologia. Per questo la “filosofia” induista non interessa alla gente, mentre l’induismo ha rielaborato nei secoli un nuovo “politeismo”, diverso da quello ario originario, con divinità differenziate dai poteri che vengono loro riconosciuti di modo che le persone possono rivolgersi loro a seconda delle diverse esigenze che hanno.
Così nell’induismo successivo sono emerse le 3 divinità attualmente più note e venerate: Brahma, Vishnu e Shiva. Ma la mitologia lascia molto infantili, fa permanere spesso allo stadio di una religiosità naturale. Tolkien ha avvertito il problema dell’esigenza di una mitologia ed ha voluto crearne una cristiana per poter educare tramite i miti.
Nell’attuale mitologia indù tre sono le divinità principali: Brahma, Vishnu e Shiva.
Brahma è il dio principio della creazione: si riconosce iconograficamente dalle 4 teste che indicano la sua onniscienza ed onniveggenza. Oggi non è più molto venerato. Ha come consorte Sarasvati, divinità della sapienza e delle arti, a volte raffigurata con i 4 Veda in mano.
Ovviamente il concetto di creazione è corrispettivo alla visione propria dell’induismo: qui la creazione si ripete ciclicamente, alla distruzione di ogni ciclo creativo, cui sopravvivono solo i saggi, gli dèi e gli elementi primi. Alla fine dei cicli anche Brahma scomparirà nell’assoluto.
Ogni divinità della trimurti ha un animale come veicolo “di trasporto. Brahma ha Hamsa, il cigno.
Seconda divinità della Trimurti è Vishnu (da Vish, pervadere) che ha per consorte Lakshmi/Shri. La sua cavalcatura è l’uccello Garuda.
Vishnu rappresenta l’intervento divino benefico nella vita.
Shiva è il principio di fecondità e di distruzione che permette il ripetersi del ciclo: lo caratterizza il lingam, il fallo che, in occasione del sacrificio, viene cosparso di latte per implorare fecondità. Ma questa fecondità ha come corrispettivo la distruzione e la morte, rappresentate dalla consorte Durga/Parvati, nota anche come Kali. Durga/Parvati nell’iconografia regge le armi con cui colpisce, mentre Kali ha addirittura una collana di teste umane recise. Spesso lo stesso Shiva è rappresentato ornato con teste umane recise dal corpo.
Questa è una delle questioni più problematiche dell’induismo: di fatto, si venera il male, il principio distruttore. È pericoloso e, pertanto, bisogna tenerselo buono. Il principio distruttore, che recide la vita, deve essere adorato per non averlo nemico: non è solo il grande nemico, ma anche l’alleato, e, soprattutto, è originario.
Shiva, nella sua duplice funzione di divinità preposta alla fecondità e alla distruzione, in un ciclo che sempre si rinnova. è rappresentato come re della danza (Shiva Natarajao danzante), con il cerchio fiammeggiante che rappresenta l’universo che riceve vita e viene poi riassorbito incessantemente (concezione ciclica): Shiva è in questa raffigurazione assorto nell’ineffabile e distaccata beatitudine della sua eterna danza.
Ma questa danza serena ha appunto il rovescio della medaglia: nel tempio Kalighat a Calcutta si venera Kali, consorte di Shiva, rappresentata come donna vecchia, scheletrica e ripugnante, mentre la sua bocca divora gli esseri viventi. Nel suo culto vengono uccise capre per decapitazione che sostituiscono i sacrifici umani che sembra venissero compiuti fino alla fine del XIX secolo e che probabilmente vengono ancora compiuti in segreto in templi di campagna dedicati alla dea. Proprio vicino a Kalighat, madre Teresa di Calcutta aprì la sua prima casa in India, nel 1952.
Il veicolo di Shiva è il toro.
Vishnu e Shiva hanno il posto più grande nella venerazione dei fedeli.
Vishnu, in particolare, è venerato nei suoi avatara (letteralmente “discese”), manifestazioni in forma terrestre del dio, fra le quali la più popolare è Krishna: si possono paragonare a successive “incarnazioni”, anche se, in effetti, il dio non prende mai la carne.
Vishnu è il difensore del Dharma e interviene per questo più volte in un tempo che è chiaramente mitologico.
I suoi primi 3 avatar sono teriomorfici:
Il primo è nella forma del pesce su cui Manu, progenitore degli uomini, si salva e salva la specie umana.
Il secondo è nella forma della Tartaruga che offre il suo carapace come supporto.
Il terzo è nella forma di Cinghiale che recupera la terra inabissata da un demone.
Il quarto è nella forma di uomo-leone per uccidere l’empio Hiranyakashipu.
Il quinto è in forma umana come i successivi, nella forma del Nano che si trasforma in Gigante.
Il sesto è nella forma di Rama con l’ascia: viene a sterminare i kshatrya che si sono ribellati alla casta dei Brahamini.
Il settimo è nella forma di Rama, figlio di Dasharatha, di cui parla il Ramayana: Rama libera la moglie Sita dal demone Ravana e lo uccide.
L’ottavo è nella forma di Krishna, figlio di Vasudeva, che compie molte imprese.
Il nono è nella forma di Buddha.
Il decimo è nella forma di Kalkin (che si deve ancora manifestare): è come se ci fosse l’attesa di un compimento definitivo.
È importante sottolineare che gli avatar non agiscono in maniera storica: infatti, i fatti loro attribuiti sono mitologici. Non c’è alcuna rivelazione progressiva storica, come avviene nell’Antico Testamento. L’intervento del dio è immediato, magico, senza preparazione e senza sequenzialità storica successiva.
Il settimo e l’ottavo sono gli avatara più amati.
Krishna soprattutto: è sia il maestro della Bhagavad Gita che insegna all’eroe Arjuna, sia il bricconcello che combina scherzi, sia l’amante delle pastorelle (gopi). La sua giovinezza è raccontata nel Prem Sagar (Oceano d’amore).
Non solo la Trimurti, ma anche altre divinità sono molto venerate dagli induisti odierni. Innanzitutto Ganesha (Ganpati) il dio a forma di mezzo uomo e mezzo elefante è amatissimo: egli aiuta ogni buona impresa. Ganpati viene creato, nel racconto mitologico, da Parvati, moglie di Shiva. Ha come veicolo il topo e per questo la luna lo prese in giro. Allora Ganpati, preso in giro, si nascose: la sua festa ricorda questo fatto. Ogni famiglia acquista per la festività una statua di Ganpati che dovrà poi essere inabissata (disciolta) in acqua, sia fiume che lago che mare, e nel primo o nel terzo, ecc., giorno della festa. Le persone accompagnano così con carri le statue e si immergono con esse fino al loro disfacimento nelle acque: alcuni si ubriacano per l’occasione ed ogni anno si registrano annegamenti.
Lakshmi, la consorte di Vishnu, è invece invocata soprattutto per il denaro: è lei che è ritenuta la divinità in grado di aiutare nelle questioni economiche.
La religione induista si caratterizza tuttora per offerte ed i sacrifici. Ogni indù offre ogni mattina cibo alle divinità in casa e, se si reca al tempio, porta offerte in cibo, fiori, incenso. Talvolta si celebrano sacrifici animali. Ciò avviene soprattutto, nei confronti della dea Kali, come si è già detto, e nella festa di Dussehra, nella quale si rievoca l’uccisione del demone Mahisha da parte della dea Durga e la vittoria di Rama sul re cattivo Lanka Ravana. Nei giorni della festa avviene una vera e propria ecatombe: vengono sacrificati animali che rappresentano il demone sconfitto e il sangue scorre nei templi a fiume.
5/ Induismo moderno semplificato e sincretista
L’induismo ha ripreso in età moderna dal cristianesimo forme missionarie che non gli erano mai state proprie, perché esso era legato alle etnie presenti nella penisola indiana.
Per far questo è tornato a semplificare il suo apparato mitologico, privilegiando alcuni tratti dell’induismo originario e mettendone in ombra altri.
Primo fra tutti è farsi missionario dell’induismo è stato Svami Vivekananda che ha scelto di diffondere nel mondo le idee di Shri Ramakrishna Paramahansa, in una versione sincretista dell’induismo, per cui tutte le religioni sono manifestazione dell’unico dio: alcuni maestri indù a lui legati – ci spiega un guru del movimento che vive a Karwar - hanno affermato di aver visto il Cristo risorto in vite vissute precedentemente. I discepoli di Svami Vivekananda insegano l’induismo insieme al vangelo, ovviamente in un’interpretazione peculiare.
Più recentemente, nel 1966, sono sorti gli Hare Krishna. Propongono in chiave missionaria di praticare 4 precetti, oltre alla recitazione del mantra che li caratterizza: essere strettamente latto-vegetariani, non assumere droghe (compresi tabacco, caffè, tè ed alcolici); non praticare sesso, se non con il proprio coniuge ed allo scopo di procreare; non praticare gioco d'azzardo (note da Wikipedia del 7/9/2014). Per le polemiche sorte alla morte del fondatore e per le discussioni sulla questione dei beni del gruppo e sulle diverse accuse di cui sono stati fatti oggetto alcuni responsabili nel passato, cfr. la voce Hare Krishna sul sito del CESNUR http://www.cesnur.com/linduismo-e-i-movimenti-di-origine-induista/gli-hare-krishna-e-gli-altri-gruppi-gaudiya/ . Il mantra che recitano è:
Hare Krishna Hare Krishna
Krishna Krishna Hare Hare
Hare Rama Hare Rama
Rama Rama Hare Hare
Significa: Lode a Krishna, lode a Rama (Krishna e Rama sono due delle dieci “incarnazioni” mitologiche di Vishnu.
6/ La questione del male e del peccato originale e la domanda sulla sofferenza
Forse il problema teologico più grande dell’induismo è l’omissione delle due questioni del peccato e della sofferenza. Prima ancora del buddismo, già nell’induismo la postura del fior di loto indica l’impassibilità di fronte al male. Ad esempio Brahma può essere rappresentato seduto su di un fior di loto che esce dall’ombelico di Vishnu. Il fiore di loto cresce nell’acqua putrescente, cresce sul fango, e vi galleggia sopra quasi senza avvedersene: rappresenta così il distacco dal male esistente nel mondo. Il buddismo ha ripreso questa immagine dall’induismo.
Ebbene questa metafora dice che nel male non si scende veramente, che vi si galleggia sopra, imperturbabili, senza veramente affrontare la cattiveria che c’è nel mondo, semplicemente tagliandosene fuori. Questo dipende ovviamente dal fatto che il male non è ritenuto veramente tale, perché destinato a manifestarsi illusorio nel percorso delle reincarnazioni.
Se muore il proprio padre è considerato non consono alla religione piangere. Si soffre dentro, ma non lo si deve manifestare. Così nel buddismo, dove il pianto è come ritenuto contrario alla padronanza di sé. Questa repressione dei sentimenti è evidente anche in Giappone, dove però il dolore e la tristezza vengono annegati nell’alcool, diffusissimo.
Come del male, così è del peccato. L’induismo non conosce il peccato originale, non arriva alla profondità della comprensione del reale che deriva dal riconoscimento del peccato di origine per il quale anche se si desidera il bene non si riesce a compierlo sempre e comunque, finché non sopraggiunge un amore che viene da fuori, l’amore di Cristo crocifisso. L’uomo può, invece, giungere al bene da solo, se solo lo vuole.
Un aspetto, inoltre, estremamente serio della questione del male è che il male viene adorato in Shiva e Kali – si vedano le teste di serpente che caratterizzano l’iconografa delle due divinità, ma anche Vishnu. Essendoci un dio del male, lo si deve adorare, perché è bene tenerselo buono, perché, essendo pericoloso, non si deve averlo nemico.
L’handicap è considerato in genere come derivato da una colpa. Chi ha malattie deformanti viene abbandonato.
Per tutto questo i temi del male e del peccato sono due aspetti che, invece, interessano moltissimo. E molti sono interessati a conoscere quale sia la visione del cristianesimo su questi due drammi.
7/ La questione dell’inculturazione della fede e della presenza in India: cosa vuol dire oggi evangelizzare?
Visitare tante comunità cristiane (dalle parrocchie alle scuole cattoliche, dalle missio ad gentes alle suore di madre Teresa, dai seminari diocesani a quelli del Cammino, dai religiosi ai diocesani, dalla presenza nelle città a quelle in campagna) pone tante domande ed apre tante prospettive sul futuro della Chiesa in India.
Innanzitutto è evidente che la Chiesa indiana è veramente indiana, non è una Chiesa straniera. Non lo è stata fin dalle origini, dall’arrivo di San Tommaso apostolo, così come non lo è stata ai tempi di San Francesco Saverio che amava la cultura e la lingua del popolo, portando nella penisola indiana quella fede cristiana che era nata in Asia e non in Europa.
Vedendo tante diverse forme di vita cristiana indiana viene in mente subito, come comune denominatore, quell’atteggiamento che fu proprio della vita di Charles de Foucauld: nel suo stile si possono cogliere i tratti peculiari di una vera inculturazione, di un vero annuncio del Vangelo che sia insieme un vero amore alla gente con cui si condivide la vita.
Guardando a fratel Carlo - in Africa del nord, fra i tuareg, ma mutatis mutandis il suo atteggiamento vale anche per l’India – si comprende subito che per amare da indiani cristiani l’India non si tratta tanto di costruire templi alla maniera induista, quanto piuttosto di vivere con la gente amandola e mettendosi al servizio di tutti. La cappella di fratel Carlo fra i tuareg non era diversa da una qualsiasi cappella cristiana. Ma era la sua vita a parlare. Egli conosceva benissimo la lingua tuareg e viveva insieme ai suoi vicini, desiderando annunciare loro il vangelo anche con le parole, perché ne aveva stima e sapeva che la fede cristiana sarebbe stata un dono e non una violenza.
Così anche madre Teresa. Gli indiani la sentono loro, eppure portava il velo come ogni altra suora. Faceva ogni giorno l’adorazione eucaristica e nella sua cappella c’erano solo simboli cristiani. Eppure era amatissima.
L’India, a suo modo, ricorda che senza amore non si può annunziare il vangelo – sarebbe un controsenso.
L’intuizione della missio ad gentes, a suo modo, sembra ripercorrere la via di fratel Carlo. Stare insieme e testimoniare con la vita, prima che con le parole.
L’India ha conosciuto – e conosce – anche tentativi diversi di inculturazione, guidati da sacerdoti che hanno ritenuto di dover aggiungere all’amore alle persone ed alla cultura indiana, anche un amore alla religione della maggioranza, talvolta rischiando forme di sincretismo. Viste a distanza di anni dalle prime realizzazione tali forme di inculturazione sembrano meno decisive rispetto al più semplice condividere la vita con le persone.
Sembrano meno feconde, quasi che ci fosse un pizzico di intellettualismo di troppo, rispetto al quotidiano mangiare le stesse cose, dividere gli stessi dolori e le stesse gioie, lavorare insieme. Ad uno sguardo esterno – questi appunti richiederebbero ben altri approfondimenti e c i scusiamo dei giudizi troppo sintetici e sommari – è come se l’assumere da parte cristiana i segni indù non fosse veramente il punto decisivo, rispetto alla condivisione della vita.
Nell’ashram cristiano di Vidyavanam, ad esempio, Gesù è presentato nella posizione yoga del fior di loto. C’è un grande spazio all’aperto per insegnare la meditazione Yoga e lo schema rimasto sulla lavagna mostra la proposta che viene fatta dell’unione con l’Athman, attraverso la discesa nel profondo della propria anima, rinunciando ai sensi (è evidentemente assente la questione del peccato originale e la questione del corpo che può essere più sano dell’anima!). La resurrezione di Cristo è presentata in parallelo con la storia mitologica di un guru che si convertì alla fede indù e visse nell’immobilità finché le formiche lo coprirono con il loro formicaio: dopo 1000 anni i discepoli lo ritrovarono vivo.
Ma l’esperimento sembra ad un primo sguardo molto “di nicchia”, legato a ristrette cerchie di intellettuali, lontano dalla realtà della gente indiana. Ed, in effetti, ammettono i frati cristiani, pochissimi indù vengono in quel luogo. In compenso il giardino con le piante tropicali è bellissimo, segno straordinario della creazione materiale di Dio. Nell’ashram si cerca di vivere alla maniera indù, ma tutto è pulito e si mangia la carne!
Più impressionante è la missione dei gesuiti nel villaggio di Desnur. La loro dedizione al villaggio in cui vivono è evidente e sincera: perdono la vita per loro. Lì i 3 gesuiti della precedente generazione hanno costruito una chiesa alla maniera di un tempio buddista. Il tabernacolo ha la forma del lingam di Shiva (il fallo, simbolo di fecondità) ed i riti e la preghiera con tutti i simboli architettonici e liturgici sono alla maniera induista. I gesuiti sono evidentemente amati dalla popolazione locale, ma – anche se il giudizio andrebbe approfondito – sembrano più amati loro che il Cristo: nessuno, in tanti anni di presenza, ha mai chiesto il Battesimo. I bambini indù si fanno il segno della croce e recitano il Padre nostro, quasi aggiungendo un’altra divinità a quelle che già hanno. Viene da domandarsi se non sarebbero amati lo stesso per la loro presenza, per l’amore al villaggio, anche senza l’adozione dei simboli indù. La risposta è che forse solo alcuni sono stati aiutati da quei simboli, mentre altri induisti più rigidi possono essere infastiditi dall’assunzione cristiana dei simboli indù. Quei padri hanno conquistato i cuori per il loro amore a Dio e per il loro amore alla gente e tutta quell’elaborazione architettonica e simbolica probabilmente non ha aggiunto più di tanto. Insieme ai gesuiti vive e lavora una comunità di suore che dirige la scuola del villaggio: c’è grande gioia in tutti per questa presenza.
Nella missio ad gentes neocatecumenale decisiva è la testimonianza delle famiglie con tanti figli. I bambini ed i ragazzi vanno a scuola insieme con i compagni indù e le case delle famiglie divengono un luogo di amicizia, di inviti reciproci, di condivisione di vita. Lo stupore per il numero dei figli – mentre ormai ha fatto breccia nella cultura indiana il massiccio indottrinamento statale che vede come una vergogna avere più di due figli – si tramuta presto in simpatia ed affetto per il coraggio di quelle famiglie che hanno tanti figli. Diverse donne indù si sentono capite da quelle donne che non hanno rifiutato la maternità. Anche negli ospedali dove operano alcune donne della missio come medici l’incoraggiamento a non abortire le bambine e a non sterilizzarsi dopo due figli “parla” alle donne indiane, come un segno vero e vivo che riconoscono proveniente da Dio.
Alcune questioni liturgiche potrebbero , invece, creare nel tempo problemi come, ad esempio, la “necessità” di mettere l’altare come mensa al centro anche quando si utilizza la chiesa di una parrocchia dove già c’è l’altare parrocchiale. Sarebbe un peccato che si rovinasse parzialmente il bellissimo lavoro di presenza per dettagli di questo tipo.
Straordinaria è la dedizione: persone che accettano di cambiare città, di trasferirsi da città più benestanti a città meno benestanti solo per essere una presenza, dedicando tutta la vita a questo. I figli sembrano veramente contenti. Loro stessi rendono testimonianza del senso di scelte come queste: se perdono qualcosa livello di studi universitari, guadagno in bontà ed accoglienza, in capacità di generare belle famiglie e di essere gioiosi.
È evidente il desiderio, avvertibile da parte di chiunque, di fare dono della fede a chi non ha ricevuto il vangelo, ben diversa e più ricca della cura della fede di chi è già cristiano. Si tratta perciò di fondare comunità di persone, prima che chiese di mattoni.
Ma tante altre presenze vivono la testimonianza della fede, diversamente le une dalle altre, alla ricerca di un modo di esistere senza rinunciare al desiderio di proporre Cristo, anche se il divieto di evangelizzare paralizza. Ci sono villaggi nella foresta, abitati da discendenti di schiavi fuggiti dai portoghesi nei secoli precedenti, che vivono la fede (ad esempio Gardoli). È quasi come entrare in un pezzo di Africa. Quando furono scoperti nella foresta alcuni decenni fa, ci si accorse che erano rimasti cristiani, di generazione i n generazione, senza la presenza di preti: è la forza dello Spirito.
Assurdo è che alcuni predicatori avventisti del settimo giorno, al posto di amare chi non conosce il Vangelo, abbiano perso tempo a convertire i cattolici di alcuni di questi villaggi in avventisti, per poi vederli tornare nuovamente cattolici oggi: è l’assurdo di un atteggiamento missionario non ecumenico , che crea divisione e fa perdere inutilmente forze e tempo a generazioni di persone.
Le case delle Suore di madre Teresa sono talvolta in quartieri che si sono ormai elevati in qualche modo economicamente dai tempi dalla fondazione ad opera della Madre, pur essendo ancora poveri. Eppure l’attenzione delle Suore resta fissa, senza alcuna deviazione, ai più poveri, fra cui oggi i malati di mente e i portatori di handicap, così come i più anziani che nessuno vuole. Le Suore vivono con loro, conservando un’essenzialità di vita totale, con locali del convento ristrettissimi e pochissimi oggetti per i bisogni primari. Le Suore vivono tutta la vita con i loro poveri, che abitano con loro fino alla morte.
Come volle madre Teresa le suore continuano ad accompagnare i fuori casta o comunque le persone delle classi più basse perché possano morire avendo vicino chi ha cura di loro e chi prega per loro fino all’ultimo giorno. Perché, quando passano gli anni, alla povertà economica, si aggiunge l’estrema povertà, quella di dover morire.
8/ L’italiano in India e nel mondo
È incredibile trovare tanti che parlano italiano: lo parlano vescovi, preti, religiose e laici che hanno studiato teologia nelle università cattoliche romane: è la Chiesa a tenere alto il nome della lingua italiana el mondo. Diceva un giovane di aver sentito il prof. Serianni affermare che nel mondo l’italiano è conosciuto e apprezzato per la musica lirica e per la presenza della Chiesa.
9/ La svastica, simbolo induista
Ovunque compare la svastica, il segno del sole rotante. È evidente da dove Hitler ha preso il simbolo del Terzo Reich, un simbolo volutamente ariano e pre-cristiano. Ma in India non c'è ovviamente alcuna consapevolezza che il nazismo abbia fatto uso di quel simbolo, tanto sono lontanti culturalmente il mondo orientale e quello occidentale.
10/ Il rapporto uomo-animale
L’induismo è tendenzialmente vegetariano, anche se solo i brahmini vivono l’astensione dalla carne in modo assoluto, mentre la maggior parte della popolazione, a seconda della casta cui appartiene, si astiene dalle carni determinati giorni della settimana, ad esempio il lunedì, senza saper indicare bene perché lo fa.
L’uomo è comunque evidentemente superiore all’animale. Solo nello stato di uomo, l’anima può arrivare alla definitiva purificazione, mentre quando ha l’apparenza di animale aspira a divenire prima uomo per potersi poi perdere nell’assoluto.
Se, invece, si accumula Kharma negativo si potrebbe rinascere animali.
L’induismo non era originariamente vegetariano. Lo è diventato dopo l’avvento del buddismo. Mentre il buddismo, diffondendosi fra il popolo, ha abbandonato in diversi luoghi il vegetarianismo. Ad esempio il buddismo tibetano e nepalese non è vegetariano e il Dalai Lama ha più volte dichiarato, anche se ultimamente non mangia carne, che ha sempre gradito la carne di yak.
11/ Le invasioni islamiche in India
In Estremo oriente l’Islam ha condizionato la storia con la stessa tempistica delle invasioni in occidente. Infatti, nel 712 Muhammad ibn-Qasim India Nord-occidentale, è giunto con le sue armate fino a Multan, nel Panjab, negli stessi anni dei primi attacchi a Costantinopoli, dopo la conquista a colpi di scimitarre del nord Africa. È l’espansione ad ovest e ad est dell’islam arabo.
Ma, pian piano, all’espansionismo arabo si sostituì in occidente come in oriente l’espansionismo turco, anch’esso musulmano.
Qui la tempistica è leggermente anticipata rispetto all’occidente, perché le steppe asiatiche – luogo originario delle popolazioni turcofone islamizzate – è più vicino all’India che all’Anatolia.
Mentre le armate turche iniziano l’invasione dell’Anatolia con la prima sconfitta inflitta dai bizantini a Manzikert nel 1077, già nel 998 si registra l’ascesa di Mahmud al trono di Ghazna (nell’odierno Afghanistan) con scorrerie e saccheggi da quella città in molte città indiane del nord.
Nel 1021 viene annesso dal regno musulmano di Ghazna con conquista militare il territorio dell’odierno Pakistan con capitale a Lahore. Dal 1173 non avvengono più solo saccheggi e scorrerie, ma una vera e propria conquista.
Del 1192 è la conquista di Delhi con invasioni ad est sulla piana gangetica. Del 1296, con il sultano Ala ud-Din Khalji, sono ulteriori conquiste a sud di Delhi.
Nel 1398 Timur-i-lang (Tamelano) attacca Delhi e, da musulmano, nel nome del la purezza della religione musulmana massacra 100.000 abitanti della città.
Nel 1504 la capitale è trasferita ad Agra.
Nel 1526 con Babur inizia la dinastia Moghul: si è in presenza ormai di un vero e proprio impero, splendente nei suoi monumenti. A questa dinastia appartiene Shah Jahan (morto nel 1666), famoso per il Taj Mahal.
Si registra nel corso della dinastia Moghul l’esistenza dello Zanana, equivalente indiano-musulmano dell’harem turco.
Sempre nel periodo delle diverse dinastie di genti turche provenienti dalle steppe dell’Asia centrale a partire dal XIV secolo avvennero attacchi islamici anche verso il sud (anche se, a differenza del nord, in un modo o nell’altro i potentati indù riuscirono sempre a riconquistare il potere). È famosa la storia dei 2 fratelli Harihara e Bukka, convertiti forzatamente all’islam, che tornarono all’induismo una volta inviati nel sud da Delhi a controllare la provincia ribelle di Kampili (1357).
L’indebolimento dell’islam avvenne prima nel sud per il frazionamento in sultanati e similmente nel nord, a partire dal ‘700.
La questione fu ovviamente esplosiva ai tempi di Gandhi con la fondazione dei due opposti stati laico/induista e musulmano e l’uccisione di un numero di persone che viene stimato fra le 200.000 e le 350.000.
Oggi l’Islam è la seconda religione dell’India ed è evidente la paura che l’induismo ha dell’Islam. Spesso si evita di contrastare i musulmani, perché altrimenti nascerebbero violenze. Ma i fondamentalisti le fomentano e odiano cordialmente le moschee.
12/ Il buddismo dimenticato dall’India
Il buddismo si inserì nella traduzione induista che andava rinnovandosi, sottolineando la transitorietà della realtà materiale, vista come inconsistente apparenza, e spingendo ad un ulteriore passo verso l’assoluta primazia dello spirituale sul corporeo. Ma la sua opposizione fin dall’inizio netta al sistema delle caste, ai sacrifici proposti dai Veda, alla presenza di rituali complessi e all’adorazione degli dèi del pantheon induista a motivo di una scelta invece ateistica, portarono al rifiuto del buddismo da parte dell’induismo.
L’induismo cercò di anestetizzare il buddismo inserendo il Budda nelle incarnazioni di Vishnu per farlo proprio, ma in realtà lo sentì sempre come estraneo. Infatti, il Buddha come nono avatar è presentato in realtà dall’induismo come un provocatore che istillò le sue dottrine – rifiuto delle caste, dei sacrifici, dell’adorazione degli dèi, ecc. - negli empi per provocarne la rovina!
D’altro canto anche il buddismo conobbe una sua evoluzione per venire incontro alle esigenze rituali e religiose delle persone. Se alle origini il Buddha non si rappresentava se non con simboli (trono, parasole, impronte), a partire dal II secolo d.C. avvenne una mutazione di atteggiamento ed il Buddha venne sempre più rappresentato. Il buddismo tornò ad essere vissuto da molte delle popolazioni che lo accolsero come una religione politeista con divinità da venerare (i bodhisattva) per ottenere aiuti nella vita quotidiana.
Comunque, fra il X ed il XII il buddismo venne di fatto espulso dalla penisola indiana per l’avanzata dell’islam e per la reazione induista, anche se sono state rinvenute iscrizioni buddiste che sono del XV secolo, dopo di che esso è praticamente scomparso in India, sotto la pressione delle due religioni maggiori della penisola.
13/ L’unità della famiglia regge, finora, nel contesto induista
A differenza di quanto avviene in Africa e in Sud-America, la famiglia sembra reggere ed essere il sostegno della società indiana. Le coppie sono molto unite ed, anche se il matrimonio è spesso combinato dai genitori, uomo e donna non abbandonano la persona che hanno sposato e si dedicano con grande impegno ai figli. Questa è certamente una ricchezza del paese e l’unità della famiglia appare evidente immediatamente in ogni luogo del paese.
14/ La schizofrenia spirito-corpo nelle diverse interpretazioni induiste: dal disprezzo del corpo al Kamasutra
L’induismo è una realtà non unitaria e, per certi aspetti, confusiva - come si evince dal dialogo con alcuni guru odierni – al punto che se ne possono trarre ermeneutiche molto diverse, a volte coesistenti contemporaneamente. Se ne può trarre un’interpretazione assolutamente spiritualista, che rifugge dall’impegno diretto nel mondo, dalla carne, dalla sessualità, oppure un’interpretazione manichea, che combatte il piacere corporale, o ancora un’interpretazione edonista, come quella che ne dà il Kamasutra che è, a suo modo, un’espressione della cultura indù. L’autore potrebbe essere di epoca Gupta, fra il III ed il Vi secolo d.C.).
Anche il mantra Oṃ è da un lato manifestazione della dimensione spirituale, ma è identico con l’espressione della gioia sessuale – sottolinea una delle guide dell’itinerario. Alcune Chiese avevano iniziato a dipingere quel mantra sulle loro porte, ma il fenomeno è, per fortuna, in recessione.
15/ Rischi che la Chiesa corre nella sua identità
Un episodio rivelativo. Viene messa una bomba in Chiesa dai fondamentalisti con conseguenti morti da parte cristiana. Un vescovo si difende dicendo: ma noi non abbiamo mai evangelizzato, perché avete messo quella bomba? Il contesto culturale può portare a convincersi che si può rinunciare all’evangelizzazione e quasi vantarsene dinanzi all’opinione pubblica.
16/ Un arcivescovo dice…
Padre, cosa ha da dire ai seminaristi? Godete della vostra vocazione. Lo ripeto sempre ai miei seminaristi.
Eccellenza, perché secondo lei sono pochi oggi i seminaristi? Io credo non perché non si presenta la vocazione in maniera adeguata, ma perché non si presenta la gioia della fede. Solo dalla convinzione dell’assoluta novità e necessità del vangelo possono nascere le vocazioni.
Qualcuno aggiunge: d. Fabio sintetizzò così il problema all’inizio del suo servizio per le vocazioni. Nella crescita del corpo umano le cellule sono all’inizio indifferenziate e poi pian piano si specializzano: cellule del sistema nervoso, del sistema digerente, della cute e così via: sono poche le vocazioni perché mancano le “cellule” specializzate per la vocazione o sono poche perché sono deboli le “cellule indifferenziate”, cioè quelle della fede?
17/ Il mio migliore aforisma zen sull’India
Il modo di utilizzare il clacson da parte di qualsivoglia guidatore indiano è la prova certa della consistenza dei corpi, contro ogni spiritualismo e reincarnazione.
18/ La testimonianza delle scuole cristiane
La Chiesa indiana testimonia il Signore anche con le “opere di carità spirituale”. Testimonia la fede anche con le sue scuole. Una scuola con 2000 alunni può averne solo 2 cristiani e gli altri 1998 in maggioranza induisti e musulmani. È la testimonianza di una cura del fratello che si realizza nell’educazione dei suoi figli, nella formazione del cuore e della mente delle nuove generazioni.
Dovremmo riscoprirlo in Italia, dove abbiamo dimenticato che creare scuole è opera di carità. Istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi: carità!
Dov’è invece la passione di tanti cristiani italiani per la scuola? Siamo poveri di carità, perché non amiamo la scuola e le nuove generazioni.
19/ Filosofia nelle università indiane
La filosofia occidentale viene studiata nelle università indiane – racconta uno studente di filosofia indiano -, ma con un percorso assolutamente parallelo a quello induista. Non si opera mai un confronto fra l’itinerario occidentale e quello orientale, la filosofia d’occidente e quella d’oriente non vengono mai fatte intersecare.
La filosofia che più potrebbe aiutare a rompere gli schematismi in cui è rinchiuso il mondo indiano - prosegue - è quella post-moderna, se riuscisse a togliere quella chiusura e rigidità tipica della prospettiva induista, rendendo più “debole” la sua visione.
20/ A più della metà degli abitanti del mondo è proibito ricevere il Vangelo liberamente
Un flash improvviso al mattino: ma se in India – più di 1 miliardo di persone -, in Cina – 2 miliardi di persone -, in tutti i paesi a maggioranza islamica – cifra difficilmente stimabile, ma probabilmente vicina al miliardo di persone –, se in tutti questi paesi, ed altri ancora come la Birmania, la Corea del nord, ecc. ecc., è proibito annunciare il Vangelo, vuol dire che più della metà della popolazione del pianeta è esclusa a forza dalla possibilità di diventare cristiana, dalla gioia e dalla libertà del Vangelo!
21/ L’antiCristo, l’evangelizzazione negata e la prova dell'esistenza di Dio
Si potrebbe aggiungere che questa è una prova dell’esistenza dell’antiCristo che vuole sia proibita l’evangelizzazione. Ed una prova, quindi, della presenza del Cristo. L’antiCristo non può negare che il Cristo esista: ne attesta la presenza, scagliandosi contro di Lui. In fondo l’impedimento di predicare il vangelo è una chiara, anche se implicita, affermazione della bellezza della fede cristiana: ogni paese che nega l’annuncio cristiano sa bene che, se esso fosse libero, conquisterebbe i cuori.
22/ Le origini del Vangelo in India
La presenza del Vangelo in India è antica quanto il cristianesimo. La fede cristiana è stata portata qui dall’apostolo Tommaso che è stato martirizzato nel luogo dove sorge ora la città d Chennai, un tempo chiamata Madras. Le più antiche comunità cristiane sono nel Kerala dove San Tommaso fondò 7 chiese locali. Non si spiegherebbe la venerazione del sepolcro di Tommaso sull’altra costa della penisola indiana, lontano dal Kerala, se non ci fosse un fondamento storico.
Un testo apocrifo dice che Tommaso «convertì alla fede 17490 bramini, 350 Vaisyas e 4280 Sudra. Consacrò 2 vescovi, ordinò 7 preti, 4 dei quali vennero chiamati Rabban, e fece 21 diaconi». È interessante che questo testo – pur non storicamente affidabile - mostra subito come il Vangeli venne a misurarsi con il sistema delle caste, rendendo fratelli persone di caste diverse.
Come la stele di Xi’an del VII secolo in Cina (che è del 635 ca. ed è oggi conservata nel Museo della Foresta delle steli) prova la presenza di missionari cristiani fin da allora nell’impero cinese e l’accettazione della loro presenza da parte dell’imperatore, così la presenza di Tommaso e della Chiesa fin dai primi secoli prova che il cristianesimo non venne lì importato da occidentali, ma fu una naturale espansione in Asia, cui la Terra Santa appartiene, dei primi credenti che volevano donare la fede a chi ancora non conosceva Cristo.
Pian piano la chiesa locale perse i contatti con Gerusalemme, a causa delle invasioni islamiche, ma conservò i rapporti con la Chiesa caldea (odierno Iraq e Persia) in particolare con Ecbatana, che autorizzava la consacrazione dei vescovi locali.
Il più antico documento che attesta che San Tommaso abbia evangelizzato l’India è l’opera siriaca detta Dottrina degli Apostoli. Successivamente questo dato è reperibile negli Atti apocrifi di San Tommaso ed in tantissimi padri della Chiesa: Sant’Efrem, che ne canta nei suoi Inni, ma anche Gregorio di Nazianzo, Ambrogio, Girolamo, Gaudenzio di Brescia, Paolino di Nola, Giovanni Crisostomo, Gregorio di Tours, il Venerabile Beda e gli antichi martirologi.
Si sa, d’altro anto, che esistevano rotte commerciali verso l’India del sud e che in Kerala esistevano comunità ebraiche.
Le 7 chiese che vantano una fondazione da parte di Tommaso in Kerala, sono Cranganore (Maliankara), Palur (Palayur), Parur (Kottakavu), Kokkamangalam, Niranam, Chayal (Nilakal), Quilon (Kollam).
Anche Marco Polo e Giovanni di Monte Corvino attestano nei resoconti dei loro viaggi di essere a conoscenza della predicazione di San Tommaso in India (Marco Polo, in particolare, afferma di averne visitato la tomba nel 1292).
Di fatto la primitiva Chiesa dell’India non si separò mai da Roma, poiché non ebbe alcuna conoscenza delle tensioni nate con il Concilio di Calcedonia.
All’arrivo dei portoghesi, questi riconobbero che i cristiani di quelle chiese erano in piena comunione con Roma. I portoghesi vollero la nascita di una Chiesa latina, ma il papa riconobbe che esisteva una Chiesa di rito orientale e che essa aveva il diritto di proseguire a celebrare nel rito antico a fianco di quella latina: è la Chiesa di rito siro-malabar.
Successivamente la Chiesa ortodossa di Siria inviò missionari per legare a sé i cristiani dell’India, creando una ulteriore gerarchia. Una parte di questa Chiesa si staccò poi dall’ortodossia ed entrò in comunione con Roma: è la Chiesa siro-malankar.
In Chennai si venera il luogo del martirio dell’apostolo presso la chiesa di Our Lady of Expectation sul St. Thomas Mount National Shrine. È venerata altresì al Little Mount la grotta nella quale si ritiene che San Tommaso si ritirasse in preghiera e, dove sorge ora la cattedrale di Mylapore, il sepolcro dell’apostolo.
23/ Portoghesi e missionari
I portoghesi, quando giunsero qui nel cinquecento, pensavano che queste terre non fossero mai state evangelizzate e si stupirono di trovare invece già esistente in India la Chiesa. Diverse testimonianze raccontano che gli indigeni raccontarono a Francesco Saverio e agli altri missionari del passaggio di San Tommaso in quelle terre (ad esempio nell’isola di Socotra vicino la penisola arabica).
I portoghesi, prima di raggiungere Goa, raggiunsero l’isola di Angediva (o Anjadip), dove eressero la prima chiesa indiana, detta di Nostra Signora delle fonti: oggi l’isola è base militare e pertanto difficilmente visitabile.
Il porto di Goa divenne poi, poco tempo dopo, la principale base portoghese.
Anche in India hanno convissuto - e talvolta si sono scontrate – diversi modi di vedere il rapporto fra l’occidente e la popolazione locale. I “laici” portoghesi, dopo aver richiesto la presenza delle Congregazioni religiose per non lasciare le popolazioni locali senza il dono della fede, si sono poi dedicati spesso solo allo sfruttamento economico della situazione.
Ben diverso è l’atteggiamento dei religiosi stessi che, nella stragrande maggioranza dei casi, si sono votati, invece, esclusivamente alla popolazione locale, cercando di condurli al Vangelo.
A Cuncolim, si ricordano i 7 martiri con p. Bevilacqua che li guidava.
Nella Cappella di san Francesco Saverio nella Basilica del Bom Jesus di Goa è conservato il corpo del santo, mentre il suo braccio destro, che battezzò migliaia e migliaia di persone, è oggi nella Chiesa del Gesù di Roma.
È straordinario un vescovo indiano che, nella liturgia alla tomba del Santo, con semplicità spiega che si sente figlio nella fede di San Francesco Saverio. La sua fede cristiana dipende da quella di San Francesco Saverio, come quella d un figlio che l’ha ricevuta dal proprio padre: padre è il giusto appellativo d Francesco Saverio per tutti i cristiani di rito latino.
La maggioranza dei preti indiani di rito latino non accetterebbe l’accusa ingiusta rivolta talvolta a Francesco Saverio di aver portato in India la cultura europea.
Più a est, nelle Filippine, i missionari spagnoli arrivarono addirittura dall’America Latina, mentre l’Islam spingeva per islamizzare il sud dell’arcipelago. Poiché le Filippine non avevano nessun tipo di ricchezza appetibile, lì i missionari ebbero campo libero in assenza dei conquistatori, e nelle Filippine non si verificò nessuno di quei terribili eventi di soprusi che avvennero invece nelle Americhe e nelle Indie a motivo dei “laici” portoghesi e spagnoli.
Così è descritto, nel sito dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, il monumento funebre che contiene il corpo di San Francesco Saverio a Goa:
«Nel 1698 venne inviato a Goa da Firenze e montato sul posto un grandioso “catafalco” di pietre pregiate e bronzo, donato da Cosimo III de’ Medici alla chiesa gesuitica di Goa, quale supporto per l’urna argentea con le spoglie di San Francesco Saverio. Il grandioso monumento quadrilatero, sviluppato in altezza per circa 5 metri, era composto da oltre quaranta pezzi, realizzati con ingegneristica precisione, in modo da collegarsi secondo incastri precisi, che consentissero un facile montaggio una volta che l’opera fosse arrivata nelle Indie orientali.
Realizzato su modello dello scultore Giovan Battista Foggini, che all’epoca dirigeva la manifattura medicea e che realizzò personalmente i quattro rilievi bronzei delle fiancate, il mausoleo impegnò l’antico “Opificio” dal 1689 al 1695, anno nel quale venne esposto all’ammirazione dei fiorentini nella Cappella dei Principi, preziosa architettura di pietre dure al cui interno il mausoleo ben si intonava. Dopo due anni di esposizione, la monumentale opera fu affidata a due artefici della manifattura, e suddivisa in numerose casse venne imbarcata su una nave portoghese, con la quale giunse a Goa nell’autunno 1698. I due fiorentini riuscirono a montare il mausoleo nella chiesa dei Gesuiti, all’interno della cappella consacrata a San Francesco Saverio, in sole due settimane, coadiuvati dalle maestranze locali, per intraprendere pii un lungo viaggio di ritorno concluso agli inizi del 1700».
Così scrive Francesco Saverio nella lettera 48,2 scritta da Cochín, il 27 gennaio 1545:
«Quanto alle notizie di questi luoghi dell'India, vi faccio sapere che in un regno dove vado Dio nostro Signore ha indotto molta gente a farsi cristiana e di conseguenza in un mese ho battezzato più di diecimila persone, secondo questo metodo: quando giungo nei villaggi dei pagani, dove mi mandano a chiamare affinché li faccia cristiani, riunisco tutti gli uomini e i ragazzi dei villaggio da una parte e, cominciando con la confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, faccio far loro tre volte il segno della croce e invocare le tre Persone, confessando un solo Dio. Finito ciò, recito la confessione generale e quindi il Credo, i Comandamenti, il Pater Noster, l'Ave Maria e la Salve Regina. Tutte queste orazioni le tradussi circa due anni fa nella loro lingua e le so a memoria. Indossata una cotta, ad alta voce recito le orazioni nell'ordine che ho detto e così come io le recito tutti mi rispondono, grandi e piccoli, secondo l'ordine suddetto. Finite le orazioni fornisco loro una spiegazione nella loro stessa lingua sugli articoli della fede e sui comandamenti della legge. Dopo faccio in modo che tutti chiedano pubblicamente perdono a Dio nostro Signore per la vita passata e questo ad alta voce, alla presenza degli altri infedeli che non vogliono essere cristiani, per confusione dei cattivi e consolazione dei buoni. Tutti i pagani si meravigliano nell'ascoltare la legge di Dio e si confondono nel vedere come possono vivere senza sapere né conoscere che Dio esiste. I pagani mostrano una grande contentezza nell'udire la nostra legge e mi rendono onore, anche se non vogliono ammettere la verità pur conoscendola. Terminato il discorso come faccio loro, chiedo a tutti, ai grandi come ai piccoli, se credono veramente in ciascun articolo di fede: tutti mi rispondono di sì e così io recito ad alta voce ogni articolo, domando a ciascuno di loro se credono ed essi, poste le braccia in croce sul petto, mi rispondono di sì e così io li battezzo, dando a ciascuno per iscritto il proprio nome. Quindi gli uomini vanno nelle loro case e mandano le loro mogli e la famiglia ed io le battezzo nello stesso modo con cui ho battezzato gli uomini.
Finito di battezzare la gente, ordino di demolire le case dove custodivano i loro idoli e, dopo che son divenuti cristiani, faccio in modo che rompano in minutissimi pezzi le immagini degli idoli. Non finirei mai di scrivere la grande consolazione che prova la mia anima nel vedere distruggere gl'idoli per mano di coloro che erano idolatri. In ogni villaggio lascio le orazioni scritte nella loro lingua, con l'ordine di insegnarle ogni giorno, una volta al mattino e un'altra volta all'ora del vespro. Finito di fare ciò in un villaggio, vado in un altro e in questo modo cammino di luogo in luogo facendo cristiani, e ciò con molte consolazioni, assai più grandi di quelle che potrei scrivervi per lettera o spiegarvi di persona.
Vi è un'altra località più distante, a cinquanta leghe da quella dove vado, i cui abitanti mi mandarono a dire che volevano essere cristiani e che mi pregavano di andare a battezzarli: io non potei muovermi essendo impegnato in cose di grande servizio per il Signore. Pregai un chierico di andare a battezzarli e dopo che vi fu andato e li ebbe battezzati, il re di quel luogo compì grandi stragi e crudeltà verso molti di loro, in quanto si erano fatti cristiani. Siano rese grazie a Dio nostro Signore che non mancano i martiri ai nostri giorni, e poiché con la devozione si va così lentamente popolando il Cielo, Dio nostro Signore permette, per la Sua grande provvidenza, che il glorioso numero degli eletti si vada completando a causa delle crudeltà compiute sulla terra».
Famosissima è la lettera in cui parla dell’Università di Parigi, dove aveva studiato e dove aveva incontrato Ignazio di Loyola (dalle "Lettere" a sant'Ignazio di san Francesco Saverio, sacerdote, Lett. 20 ott. 1542, 15 gennaio 1544; Epist. S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, ed. G. Schurhammer - I. Wicki, t. I, Mon. Hist. Soc. Iesu, vol. 67, Romae, 1944, pp. 147-148; 166-167):
«Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. Non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina. Da quando dunque arrivai qui non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto. Così ho salvato un numero grandissimo di bambini, i quali, come si dice, non sapevano distinguere la destra dalla sinistra. I fanciulli poi non mi lasciano né dire l'Ufficio divino, né prendere cibo, né riposare fino a che non ho loro insegnato qualche preghiera; allora ho cominciato a capire che a loro appartiene il regno dei cieli. Perciò, non potendo senza empietà respingere una domanda così giusta, a cominciare dalla confessione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnavo loro il Simbolo apostolico, il Padre nostro e l'Ave Maria. Mi sono accorto che sono molto intelligenti e, se ci fosse qualcuno a istruirli nella legge cristiana, non dubito che diventerebbero ottimi cristiani. Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani. Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti! In verità moltissimi di costoro, turbati da questo pensiero, dandosi alla meditazione delle cose divine, si disporrebbero ad ascoltare quanto il Signore dice al loro cuore, e, messe da parte le loro brame e gli affari umani, si metterebbero totalmente a disposizione della volontà di Dio. Griderebbero certo dal profondo del loro cuore: "Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?" (At 9, 6 volg.). Mandami dove vuoi, magari anche in India».
24/ Omelia sulla tomba di San Francesco Saverio: appunti
Perché San Tommaso è venuto in India da così lontano?
Perché San Francesco Saverio è venuto in India da così lontano?
Perché Madre Teresa, che era albanese, ed altri cristiani, come quelli della missio ad gentes, vengono da così lontano e sono disposti a trasferirsi da una città all’altra?
La risposta è semplice: perché il Vangelo è essenziale come il pane, perché è buono come il pane. Perché se non offri il vangelo è come se negassi il pane a chi ha fame.
Papa Francesco lo dice chiaramente nell’Evangelii Gaudium: lo scandalo maggiore è che non ci preoccupiamo di offrire il Vangelo, è che non ci accorgiamo che i poveri hanno esigenze spirituali ed hanno diritto di accedere al Vangelo, a Cristo, alla Parola, ai sacramenti (EG 200 «Desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. l’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua parola, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria»).
Visitando l’India e venendo in contatto con il suo vorticoso sviluppo economico ci si accorge bene che l’India è più ricca dell’Italia (è di poco tempo fa la notizia che l’acciaieria Lucchini di Piombini è stata comprata da un magnate indiano, altrimenti avrebbe chiuso). Non siamo noi a poter aiutare l’economia dell’India, semmai è l’India che potrebbe aiutare i poveri ed i disoccupati d’Italia. Il dono che possiamo fare all’India è invece quello del vangelo e della libertà religiosa, che aiuti gli indiani a redistribuire meglio le ricchezze, a scoprire una speranza più grande, ad accogliere una fede che divenga immediatamente carità.
Ecco perché tutti costoro sono venuti in India, perché l’India non aveva questo pane del Vangelo.
Ma un indiano potrebbe dire: dicendo questo mi disprezzi, perché affermi che io ho bisogno del Vangelo, perché sostiene che io manco di qualcosa, mentre io ho una cultura millenaria e magnifica.
Anche qui la risposta è semplice: no, fratello, non è la cultura indiana che ha bisogno del vangelo. È piuttosto ogni cultura che ha bisogno del vangelo. Nessun uomo può arrivare a comprendere che Dio è amore al punto da prendere su di sé il nostro male sulla croce.
Neanche l’occidente ne è stato capace: né Socrate, né Platone, né gli antichi fondatori dell’induismo, né i latini, né i greci, né gli indiani, né gli americani… nessuno ha potuto conoscere Dio e tutti erano degnissimi! Perché l’amore si conosce solo per rivelazione, solo Dio può venire in mezzo a noi. Nessuno può inventare Gesù Cristo ed il suo dono per noi. Tutti possiamo solo accoglierlo e questo non ci sminuisce, anzi ci fa sentire tutti uniti nel ricevere il dono di un amore che esiste prima di noi e che noi pure non conoscevamo.
Noi non troveremo mai Dio da soli, nessuno. Né in occidente, né in oriente. Un comico italiano affermava alcuni anni fa con ironia – forse senza nemmeno accorgersene - una verità sconvolgente della vita: “La risposta è dentro di te, epperò è sbagliata!” Dobbiamo diffidare delle risposte che sono esclusvamente dentro di noi e non nella rivelazione di Dio.
Ma questo dono di Cristo non umilia né la cultura dell’India, né quella dell’occidente. Tutti i nostri antenati, infatti, hanno sempre cercato ciò che è spirituale, ciò che è infinito, ciò che da speranza, anche se non siamo riusciti a trovarlo prima che Gesù venisse.
Dobbiamo valorizzare la ricerca di ogni uomo: non possiamo vivere solo di pane e di denaro. “Non di solo pane vivrà l’uomo”. Questo è evidente e bellissimo nella cultura indiana.
Eppure, nonostante questa bellezza, solo Gesù ci mostra che Dio può venire nella carne e che questa carne ha una consistenza. Possiamo scoprire che abbiamo una sola bellissima vita. Che i poveri non sono tali per peccati precedenti, ma per la nostra ingiustizia attuale, ingiustizia che si manifesta nel sistema delle caste, così come nelle ingiustizie occidentali.
Ho coniato un aforisma – il migliore che ho pensato qui in India: il clacson è in India la prova dell’esistenza della carne. La carne non è apparenza, altrimenti non sentiremmo ogni secondo centinaia di clacson per evitare incidenti! La fede ci invita a prenderci cura di questa carne la cui “consistenza” e importanza è così evidente, perché Dio si è fatto carne. Prendercene cura oggi e non in una successiva reincarnazione che non avverrà mai: questa è la serietà della vita e della libertà.
A partire dall’India si può comprendere meglio come un mercato veramente equo e solidale si preoccuperà della vera ricchezza di cui l’India è mancante: la libertà religiosa ed il rinnovamento morale e spirituale che può venire dal vangelo, capace di confermare ciò che è splendido di quella tradizione e di portarlo a compimento nell’annuncio della creazione della redenzione.
Ricordo un’interessantissima discussione con la responsabile di un gruppo missionario. Quando dissi al gruppo che una comunità di suore aveva chiesto un contributo per far studiare una giovane suora del posto tutti furono contenti: ma lei si oppose dicendo che così toglievamo soldi ai poveri. Risposi prendendola in giro, cercando di farle capire che non solo quella ragazza era poverissima, ma che, soprattutto, ciò che veramente aiutava quel popolo non erano i nostri soldi, ma esattamente la vita di quelle persone che si donavano totalmente e che, annunciando il vangelo, aiutavano tutti ad essere migliori!
I cristiani che vivono in missione hanno come luce Charles de Focauld che si immedesimò totalmente con la vita delle persone che amava. Ognuno di noi deve essere “missionario” immedesimandosi totalmente nell’ambiente in cui il Signore lo chiama. Anche San Filippo Neri voleva partire per le Indie, sentendo i racconti di San Francesco Saverio, ma il suo confessore alle Tre Fontane gli disse: “Le tue Indie sono a Roma”. Ecco allora la nostra domanda seria. Dove sono le nostre Indie? Cioè a chi siamo mandati fra i tanti che non conoscono ancora il Vangelo? Verso quale “periferia” partire? “In uscita” verso quale ambiente, perché non possiamo stare solo con persone che hanno già la grazia della fede?
Suor Fulvia dei Santi Quattro Coronati ci ricorda, in questa ricerca, che le donne nella Scrittura hanno un modo diverso di essere chiamate. Mentre gli uomini ricevono una chiamata diretta da Dio, le donne si accorgono da sole che c’è bisogno di loro, che la vita chiama, e si donano sapendo che dietro la chiamata a servire la vita (così Ester, Giuditta, Rut) c’è la chiamata di Dio.
25/ L’impegno missionario professato sulla tomba di San Francesco Saverio a Goa
Tutti vengono invitati a pregare con questo impegno alla tomba di San Francesco Saverio, nelle mani del vescovo:
Memore della testimonianza di Gesù davanti a Pilato, e del martirio dei santi Pietro e Paolo, di tutti gli apostoli e i santi missionari che hanno dato la loro vita per predicare Cristo , nell'annuncio del vangelo, oggi sulla tomba di san Francesco Saverio, davanti alla Chiesa, io n...... esprimo il mio desiderio di partecipare nella missione della chiesa universale di portare Cristo a tutti quelli che non lo conoscono.
AMEN