Bimbo Down rifiutato da madre in affitto: è mercato, di Marina Corradi
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Riprendiamo da Avvenire del 2/8/2014 un articolo di Marina Corradi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e Le nuove schiavitù nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2014)
Il contratto era chiaro, nero su bianco. La giovane thailandese si era impegnata a portare in grembo il figlio biologico di una coppia australiana, per una cifra attorno ai 12mila euro. La madre surrogata, già mamma di due bambini e molto povera, offriva tutte le garanzie sanitarie del caso. Quando una ecografia rivelò che i bambini erano due, la coppia acquirente offrì perfino un – modesto – compenso ulteriore. Ma poi si è scoperto che la femmina era "perfetta", mentre il maschio no: era Down. Questo nel contratto non era previsto, e i genitori-committenti si sono portati a casa solo la bimba. Il fratello, Gammy, è stato lasciato alla donna che lo ha partorito. Ora è in ospedale per una grave infezione, e la madre "surrogata" se ne prende cura («L’ho portato in grembo per nove mesi, è come se fosse mio», dice). La storia, rivelata da una tv, ha aperto una gara di generosità e per il bambino è stata raccolta una buona cifra. In Thailandia, si noti. Quasi che i connazionali della partoriente si sentissero in dovere di riparare a una cocente ingiustizia.
Forse ci vuole il caso limite, la disumanità evidente perché almeno un po’ di opinione pubblica si accorga della terribile stortura in ciò che viene presentato – quando tutto va liscio dal punto di vista eugenetico – come una cosa normale. Se il signor e la signora X fossero tornati a casa con due bei bambini bianchi come loro, portati in grembo e partoriti da una mamma thailandese, tutto sarebbe stato a posto? No. Ma la realtà è che sta crescendo il mercato delle "fattrici" sane (e se l’espressione suona terribile, tuttavia corrisponde alla verità) dei figli che non si possono o non si vogliono avere in modo naturale. E il fatto è che la giovane thailandese, pur senza colpa, non ha rispettato il contratto. Quei figli dovevano essere "perfetti". E invece è nato anche un bimbo Down, e con una grave patologia cardiaca. Non era forse logico e prevedibile, l’abbandono? Lo hanno lasciato come si lascia all’allevamento un cucciolo malato. Lo hanno rifiutato come si rimanda indietro una merce difettosa.
Ora sul web le foto di baby Gammy, un bellissimo bimbo biondo, interrogano – magari – quelli che trovano la maternità surrogata accettabile. Davvero corrisponde alla dignità umana poter acquistare il corpo di una donna per farle portare in sé il figlio di altri? È giusto sfruttare il bisogno di una donna con una manciata di dollari o di euro che possono, certo, fare gola in una casa in miseria? E davvero quel contratto, una volta nota la condizione di uno dei
nascituri, avrebbe dovuto imporre alla madre surrogata, come pretendevano i genitori biologici, l’aborto? Ma di nuovo, soprattutto, è accettabile chiedere a una donna di farsi incubatrice per un’altra? E perché questa supplenza esercitata da donne giovani e povere, per lo più del Terzo Mondo, viene raccontata come "dono" e non come il duro sfruttamento che è?
Che accade, poi, a una donna che ottemperi perfettamente al contratto, e il giorno dopo il parto consegni il bambino che ha avuto in sé? Non è, anche questo, un fare strame della sua propria umanità? (Ci si può chiedere come dei genitori che hanno pagato un figlio guarderanno quel bambino; o come reagiranno, casomai scoprissero un giorno che un "difetto" di fabbricazione, certo all’inizio non così evidente, pure c’era).
Tutto questo sembra la negazione dell’umano: della umanità del figlio, della madre "affittata" e perfino dei genitori biologici, ridotti a esigenti committenti. Benché almeno nella vicenda di Gammy l’umanità, scacciata da un lato, ritorni dall’altro: è la giovane mamma surrogata che ora vuole prendersi cura di quel bambino, e che dice di sentirlo figlio suo. Perché, per quanto si possa fare con le provette, ciò che sa fare una donna è molto più straordinario. In quell’aspettare, cullare, sentirsi reciprocamente, già prende forma un dialogo antichissimo, fatto di ombra e suono della voce, respiro e battito del cuore. Quei due, sono madre e figlio ben prima che il bambino veda la luce. E solo un tempo di profonda dimenticanza dell’uomo, come il nostro, può pensare di comprare e pagare quei nove mesi; trattando come cosa ciò che non si compra e non si vende, e un figlio, se non arriva "perfetto", come povera merce difettosa.