Elogio della signora che mi puliva la stanza in ospedale, di Michele Falabretti
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Riprendiamo dal sito Bergamopost un articolo di Michele Falabretti pubblicato l’1/7/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/7/2014)
Certo, non si può augurare a nessuno. Ma per capire certe cose, bisogna ammalarsi. Dico sul serio: una malattia non si cerca e non si può rifiutare. Arriva e basta; e in pochi istanti ci si può ritrovare dentro a un ricovero lungo molte settimane, magari in una stanza isolati da tutti.
È quello il momento, tanto per cominciare, che riporta a una condizione di dipendenza totale. Come un bambino piccolo, non puoi esistere se gli altri non vengono da te. Prima lezione: nell’epoca del “mi sono fatto da solo” o del “siate affamati siate folli”, scoprire che si è sempre in debito. Non ho chiesto di venire al mondo e sono costantemente un bisognoso per poterci restare.
Dovrei parlare della grande competenza e capacità dei medici del nostro ospedale, il Papa Giovanni. Dovrei raccontare della dedizione e dell’umanità delle infermiere. Dovrei dirne solo bene: gente con tanta passione in mezzo a storie di sofferenza. Ma c’è una figura che mette insieme tante cose e che ne spiega molte altre.
Era forse il primo giorno di ricovero, nel primo pomeriggio. Entra nella stanza e si mette a pulire. Da buoni bergamaschi, il primo giorno regna il silenzio. Mentre sta per uscire, consegno tutto quello che posso: “Grazie”, dico. La signora si gira, il viso interrogativo: “Perché mi ringrazia?”. “Mi ha pulito la stanza”, rispondo. “Lei pensi a guarire, che io faccio il mio dovere”.
Il fatto è che la pulizia faceva praticamente parte delle cure mediche: quando i valori del sangue giocano come i numeri al lotto, è assolutamente necessario non contaminarsi ed evitare di respirare ogni batterio in grado di mandarti in crisi.
La signora delle pulizie non è un medico. La signora delle pulizie ha imparato a capire i tempi dei protocolli e dei ricoveri, riesce anche a capire come stai guardandoti in faccia – perché nella sua routine ha imparato a fare i conti dei giorni e sa che se hai fatto la chemio stai male. La signora delle pulizie non ti porta le pastiglie, non ti misura la pressione e non è capace di leggere la tabella dei tuoi esami del sangue (che sembra, appunto, l’estrazione giornaliera dei numeri al lotto).
Però ha capito: un po’ dipende anche da lei. La stanza pulita è una delle condizioni per guarire.
La signora delle pulizie non si sente un medico e non fa la saccente dispensando consigli. Lei entra con discrezione ogni pomeriggio, quando la visita di un parente è finita. Ti sorride, ti chiede come stai; e se fuori c’è il sole (che si vede dalla finestra ma non lo senti scaldare il viso) te lo racconta e te lo porta dentro. E intanto pulisce la stanza. E il giorno che stai per uscire e tornare alla vita, ti saluta con un sorriso come se fosse guarita anche lei. Si capisce che un po’ le dispiace, però ti dice: “Venga a trovarci, ma qui nel letto non voglio vederla più”.
La signora delle pulizie è quella che ti fa capire quando il mondo funziona. I medici capiscono cosa hai dentro e danno le istruzioni, le infermiere fanno gli interventi più tecnici. La signora delle pulizie partecipa con la scopa e lo straccio in mano: è solo quando tutti fanno la loro parte che le cose funzionano davvero. Fino al punto da percepire che se oggi sto bene è anche perché la signora delle pulizie ha capito che può lavorare accanto a medici e infermiere considerando il suo lavoro importante come quello degli altri. Pensavo fosse un sogno, una di quelle robe da grandi discorsi. Qualche settimana vissuta al Papa Giovanni, e di questa realtà si vive ogni giorno nella più assoluta normalità. Che, purtroppo, diventa anonima: perché ci piace di più stare a perdere tempo per le nostre geremiadi.
Quando sono uscito dall’ospedale, ho fatto un giro in Città Alta. Ero in piazza del Duomo e sono tornato a guardare qualcosa che in noi bergamaschi è scritto da secoli: il capitello della colonna del Palazzo della Ragione più vicina al Duomo. C’è l’idea di società: tante persone che si prendono per mano. Ho sorriso, pensando che lì c’era già la signora delle pulizie, che prendeva per mano il signore che mi portava da mangiare, che teneva per mano l’infermiera, che prendeva la mano del medico, che prendeva per mano me.