1/ La breccia di Porta Pia e l’amicizia non solo “inimica”. Non ci fu solo il 20 settembre 1870, ma anche il 21 settembre che rivela un incredibile dialogo fra la nuova Italia e Pio IX. Appunti di Andrea Lonardo sulla documentazione immediatamente successiva alla Presa di Porta Pia 2/ De Amicis, l’autore del libro Cuore, inviato a Roma per la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870: «I ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e robusti come ciclopi: baciano il piede alla statua di San Pietro. Un pretino par che dica: - Sono cristiani queste bestie feroci! Meno male! Una lunga fila di soldati è inginocchiata intorno all'altar maggiore». Appunti di Andrea Lonardo
- Tag usati: questione_romana, risorgimento, scritti_andrea_lonardo, unita_italia
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo sul nostro sito due articoli di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli Scritti (20/4/2014)
1/ La breccia di Porta Pia e l’amicizia non solo “inimica”. Non ci fu solo il 20 settembre 1870, ma anche il 21 settembre che rivela un incredibile dialogo fra la nuova Italia e Pio IX. Appunti di Andrea Lonardo sulla documentazione immediatamente successiva alla Presa di Porta Pia
«Nella sua lettera a Pio IX dell’8 settembre 1870[1] con cui annunciava l’ingresso delle truppe italiane in quel che rimaneva del secolare Stato della Chiesa, il re d’Italia Vittorio Emanuele II aveva invitato il pontefice a non voler cogliere in questo “provvedimento di precauzione” un atto ostile, quanto piuttosto una “indeclinabile necessità” motivata dalla comune apprensione “per la sicurezza dell’Italia e della santa Sede”, e gli aveva esplicitamente promesso, all’art. 2 del modus vivendi accluso, che una parte di Roma, detta città leonina[2], sarebbe rimasta sotto la “piena giurisdizione e sovranità” del capo della Chiesa[3]»[4].
Così scrive S. Marotta: incredibile è quella “comune” apprensione di due contendenti, il re Vittorio Emanuele II e papa Pio IX, che pure sembrano amici e si stimano!
Dai documenti appare chiaro che la decisione di lasciare al Papa un sia pur esiguo dominio - senza specificare espressamente se tale territorio avrebbe avuto lo statuto di vero e proprio stato o un differente tipo di sovranità - venne da parte piemontese[5]:
«Se dunque l’atto ufficiale di capitolazione della Piazza di Roma, firmato a Villa Albani il 20 settembre, recitava ancora una volta che l’intera città con bandiere ed armamento era consegnata al re d’Italia “tranne la parte che è limitata al sud dai bastioni di Santo Spirito, e che comprende il monte Vaticano e Castel Sant’Angelo, costituenti la città leonina”, ciò non fu dovuto ad un’istanza sollevata dai rappresentanti dell’esercito pontificio, ma all’iniziativa del generale Cadorna che, inserendo tale clausola, si atteneva a precise direttive del governo di Firenze, confermategli per telegramma il 18 settembre[6]. La preoccupazione di evitare fino all’ultimo l’atto di violenza era stata all’origine della lunga attesa davanti alle mura di Roma, prima di iniziare le operazioni di attacco, e di nuovo la necessità di garantire al pontefice un pur esiguo lembo di territorio era stato il criterio con cui il generale italiano aveva proceduto all’occupazione della città, arrestando infatti le truppe prima dell’attraversamento di ponte Sant’Angelo».
La non chiara definizione dello status del territorio governato dal papa persisterà fino al Concordato del 1929, ma l’origine di tale autonomia ha inizio nel 1870. Mai le autorità italiane negli anni che seguirono violarono i confini assegnati al pontefice, ma, al contempo, come aveva ben scritto Giosuè Carducci chiamando Mastai “cittadino”, più volte si opporranno alla pretesa del papa di avere una voce autonoma che si rivolgesse direttamente ai capi delle nazioni, come avvenne ad esempio in occasione della I guerra mondiale: solo il re ed il suo governo dovevano avere rapporti immediati con le diverse nazioni, il pontefice li doveva avere previa consultazione con le autorità italiane[7].
La concordia discorde che nacque il 20 settembre 1870 è evidente nei fatti che avvennero il giorno successivo. Non è chiaro se alla sera del 20 o nella notte si verificarono dei tumulti nella città leonina– si può ipotizzare che furono provocati da personaggi di un più accesso anticlericalismo, come mazziniani o garibaldini, che probabilmente, approfittando della situazione volevano forzare la mano ai piemontesi, introducendosi nei Palazzi apostolici o, comunque, nella città leonina.
Allora – raccontano le fonti – il papa Pio IX richiese al generale Cadorna di occupare la città leonina, arrestandosi al colonnato del Bernini ed alle mura del palazzo Apostolico.
Così recitano le fonti[8]:
«Sera. Il ministro e il capo dello stato maggiore sono ricevuti dal papa e dal cardinale Antonelli. (…) d’ordine di Sua Santità si scrive al generale Cadorna, invitandolo a occupare la città leonina. Questa lettera è portata l’indomani dal barone Arnim a Cadorna, mentre questi assiste allo sfilamento delle truppe pontificie. Cadorna ordina che il desiderio del papa sia esaudito e occupata la città leonina»[9].
Al tenore del testo di questo Diario corrisponde la richiesta esplicita che fu recapitata al generale Cadorna[10]:
«A S.E. il generale Cadorna – Comandante il 4° corpo d’esercito
Roma, 21 settembre 1870
La Santità di Nostro Signore mi incarica significarle che desidera che Ella prenda delle disposizioni energiche ed efficaci per la tutale del Vaticano, mentre essendo state sciolte tutte le sue truppe non ha modo d’impedire disordini sotto la sua residenza sovrana. Con distinta considerazione
Il generale comandante le truppe - Kanzler»[11]
Il generale Cadorna informò il re della richiesta, dichiarando che riteneva opportuno obbedire alla richiesta pontificia[12]:
«T. riservato.
Roma, 20 settembre 1870, ore 23,50 (pervenuto ore 2,15 del 21)
Per disordini successi in città leonina, causati da sdegno popolare contro Gendarmi pontifici, papa chiese truppe con insistenza per tutela ordine. Ho aderito, parendomi ciò opportuno e conveniente. Ne informo V.E.»[13]
Al generale giunse la risposta del re che lo rassicurava, invitandolo a procedere come suggeriva di fare, poiché tutto doveva essere adempiuto, nei limiti del possibile, per venire incontro ai desideri di Pio IX[14]:
«Il suo contegno verso il Pontefice deve essere sommamente benevolo e conciliativo, usargli tutti i riguardi dovuti ad un sovrano, rassicurarlo sulla ferma volontà del governo italiano d’impedire ogni offesa o sfregio alla religione e ai suoi ministri, mantenere severamente l’ordine e la sicurezza delle persone, delle proprietà. (…) Del resto si ispiri ai sensi espressi da S.M. nella lettera al Pontefice, ed alle istituzioni date al conte di San Martino. Lanza»[15].
Il generale Cadorna rispose al pontefice, sottolineando comunque, a scanso di equivoci, che le truppe entravano nella città leonina solo perché richieste dal papa e non per iniziativa italiana[16]:
«Ho aderito immantinente alla richiesta fatta da S. Santità per la tutela del Vaticano, rappresentatami dalla S. V. che poteva ancora riconoscere come organo del governo pontificio perché prima della reddizione. Ciò ho fatto molto di buon grado sebbene deciso, come da disposizioni avute dal governo di S.M. il Re d'Italia, ad astenermi da qualsiasi ingerenza nella città leonina, ma trattandosi della tutela dell'ordine specialmente nella residenza del Sommo Pontefice, io non ho esitato un istante ad annuirvi.
Su’ (sic) tale riguardo però debbo soggiungerle come io dovessi ritenere dopo quanto Ella mi disse verbalmente nel trattare delle condizioni della resa, che con le truppe e milizie non combattenti che desiderava stessero nella città leonina, fosse pienamente assicurato l'ordine e la tranquillità; di modo che non erami sfuggito che ciò era si grande interesse, ma solo credeva esservisi provvedute dopo le assicurazioni esplicite dell’E.V.»[17].
Marotta così esplica il motivo di tale dichiarazione:
«Esprimendo la propria sorpresa per una tale richiesta, Cadorna teneva ad allontanare da sé eventuali accuse di imprevidenza, sottolineando come fosse stato Kanzler stesso ad assicurargli il 20 settembre che la truppa rimasta a disposizione del papa sarebbe stata sufficiente a garantire l'ordine e la sua sicurezza. A suo parere, non era dunque per negligenza dell'esercito italiano che si erano verificati quegli incidenti, del resto prevedibili»[18].
Cadorna si preoccupò comunque di affrontare immediatamente la questione delle fasi successive all’ingresso delle truppe italiane nella città leonina: la presenza di esse doveva essere considerata permanente? Anche in questo dettaglio non irrilevante emerge l’atteggiamento di benevolenza del governo italiano nei confronti del papa, quasi esistesse un’“amicizia” fra i due contendenti:
«Nella giornata del 22 settembre Cadorna ricevette due brevissimi telegrammi, indirizzatigli rispettivamente il primo da Visconti Venosta e il secondo da Lanza. Al ministro degli esteri il generale alle 12 circa aveva scritto: “Come V.E. già conosce, occupata ieri con truppe in seguito di richiesta che ho desiderato autentica anche città leonina. Mi occorre ora conoscere nettamente dal Governo se debbo dichiarare che truppe saranno ritirate dietro richiesta consimile”[19]. Appunto alle 14,30 Visconti Venosta brevemente gli rispondeva: “Ella può dichiarare esplicitamente che le truppe saranno ritirate dalla città leonina sulla medesima richiesta per la quale furono mandate”[20]. Alle 18,45 un telegramma riservato del presidente del consiglio gli confermava: “riguardo alla continuazione della occupazione della città leonina per parte delle nostre truppe di cui al suo telegramma n. 198 si conformi volontà papa”[21]»[22].
Le disposizioni erano, quindi, ancora una volta di conformarsi alla volontà del papa. E subito il generale Cadorna informò di tale decisione il pontefice:
«Prima della reddizione della Guarnigione di Roma ricevei dal Generale Kanzler, che allora avea ancora carattere Ufficiale, una Nota con cui chideami che avessi provveduto alla tutela dell’ordine nella città leonina, minacciata da turbolenze di piazza. Io avea ragione di credere che ciò non avvenisse, dopo le dichiarazioni avute personalmente dal Generale Kanzler, quando si recò al mio Quartier Generale di Villa Albano (sic!) per trattare delle condizioni di resa. Ne era tanto più convinto, in quanto che avea annuito interamente e di buon grado, secondo le istruzioni formali ed esplicite del Governo di S.M. il Re d'Italia, a tutte le dimande da lui fattemi per ritenere le Truppe e milizie non dipendenti dal Ministero per le armi, le quali rimasero ad esclusiva dipendenza di S.S. il Sommo Pontefice nella città leonina. Tuttavia chiestami della Truppa pel Vaticano la mandai subito a tutela dell’ordine, che è mia cura serbare dovunque, e molto più presso la residenza di S.S.
Stando le cose in tali termini, io ho l’onore di dichiarare ora all’E.V. eminentissima, che come le Truppe Italiane sono entrate nella città leonina per desiderio di S.S. il Santo Padre, così saranno immediatamente ritirate ad ogni cenno me ne verrà fatto dell’E.V. giacché il Governo di S.M. il Re d’Italia tiene a rispettare l’indipendenza del Sommo Pontefice.
Con quest'occasione aggiungo all’E.V. come un Uffiziale che è a Castel Angelo si è a me rivolto perché provvedessi alle munizioni ed armi che sono in detto forte senza cura né custodia, e che potrebbero dar luogo ad inconvenienti; ma io mi asterrò da qualunque passo, senza averne formale invito dall'E.V.
Spero che l’E.V. vorrà scorgere in questa comunicazione che ho l’onore di rivolgerle i sensi di ossequio e di rispetto che fedele interprete dei sensi di S.M. il Re D’Italia e del suo Governo, ho pel Sommo Pontefice e per l’indipendenza della sua Autorità, soggiungendoLe come ascriverei a mia grande ventura, se mi si offrisse l’opportunità di fare personalmente atto di omaggio al Santo Padre.
Il Luogotenente Generale Comandante il 4° Corpo d'Esercito R. Cadorna»[23].
Una volta che giunse tale dichiarazione, la risposta del pontefice si fece attendere per due giorni. Evidentemente doveva essere chiaro da parte vaticana che il tenore della risposta avrebbe implicato indirettamente l’accettazione o meno della definitiva presenza di truppe italiane nella città leonina. Infine giunse la risposta del cardinale Antonelli, di cui è conservato l’originale estremamente tormentato, fino alla redazione finale:
«Facendomi un dovere di corrispondere a siffatta di Lei comunicazione è mestievi il premettere un qualche schiarimento all’uopo necessario. Le truppe non dipendenti dal Ministero delle armi consistono in poche Guardie nobili <che prestano un servizio di Anticamera, e di scorta nelle sortite del S. Padre>, in un centinaio di uomini della Guardia Svizzera ed in pochi gendarmi destinati [al servizio] <alla perlustrazione> interna de’ palazzi di S. S., mentre la Guardia Palatina [che] è un corpo non assoldato, ma bensì di volontari, <nella generalità auti[sti]<eri><che [presta servizio] adempie al suo istituto abitual[e]<mente> come Guardia d'onore nelle anticamere del Santo Padre, e nelle sagre funzioni. Con sì ristretto numero di militari, cui incombe di prestare assistenza onorevole alla S.S. e di attendere alla polizia interna de’ Sagri palazzi apostolici, vedrà facilmente l’E.V. esser loro impossibile di provvedere all'ordine esterno, ed insieme all’officio proprio della polizia nel Vaticano, avuto specialmente riguardo alla condizione in cui [trovasi] è ridotta questa capitale. Il perché si ravvisò opportuno il presidio da Lei destinatovi, come ne sarà [<per ora>] opportuna la continuazione.
Quanto al rilievo da Lei dedotto rapporto al Castel s. Angelo, ed alle munizioni ed armi, che vi si conservano, non saprei in che modo provvedervi [nella scarsezza della milizia] <nel ristretto numero di veterani> lasciat[a]<i> al S. Padre, e nel bisogno altronde sentito di custodir[lo]<e quel Forte> [ed anco] <e di> preserva[rlo]<ne l'armamento> da ogni possibile pericolo.
[Mi riservo di parteciparle in seguito quando possa l’E.V. conseguire lo scopo del desiderio espressomi] <Del resto nella posizione [condizione] in che trovasi <oggi>[ridotto] il Santo Padre non saprei indicarle quando potrebbe offrirsi l’opportunità cui accenna l’E.V.> nella fine del citato suo foglio, ed intanto mi valgo del presente incontro per dichiararle i sensi della mia considerazione»[24].
Quando sopraggiunse la risposta vaticana il segretario agli esteri Albert Blanc comunicò al ministro questo messaggio[25]:
«Papa e Antonelli esprimono in conversazioni particolari bienveillant (sic) per le nostre truppe di cui riconoscono condotta esemplare. L’impressione generale è che il Vaticano non è radicalmente ostile tuttavia non è impossibile che sia ancora lanciata la scomunica»[26].
Il tenore di questo telegramma mostra che in quei giorni ci furono conversazioni frequenti fra le autorità italiane e quelle pontificie e che, nonostante la possibilità di scomunica, da parte papale si riconosceva la condotta esemplare delle truppe.
Blanc, che era come si è detto l’inviato degli Esteri a Roma, testimoniò addirittura della disponibilità da parte vaticana a concedere alloggio e assistenza medica ai soldati nelle strutture ospedaliere pontificie che erano all’interno della città leonina, come, ad esempio, il Santo Spirito in Sassia[27]:
«Il Cardinale mi parlò poi dell’opportunità che noi, senza preoccuparci di questioni politiche che è inteso debbono essere lasciate da parte, riducessimo le nostre truppe anche nelle caserme della città leonina come nel Castello Sant'Angelo, per non lasciarle in questa stagione e nella notte all'aria aperta. Io osservai che il generale poneva in ciò tanto scrupolo che non permetteva neppure che s'inviassero negli ospedali della città leonina altri ammalati che quelli dei distaccamenti stanziati nella città leonina stessa. A ciò il Cardinale replicò che era per il papa quistione di semplice carità d’aprire tutti gli ospedali ai nostri soldati; egli mi pregò di dire al Generale che disponesse pure degli ospedali militari anche della città leonina e s’impegnò spontaneamente di ottenere dal papa che ordinasse al Commendatore capo dell’Ospedale di Santo Spirito, di fondazione particolare, di ammettere gratuitamente i nostri militari in quello stabilimento»[28].
Lo stesso atteggiamento di disponibilità, sebbene con alcune varianti, emerge anche nella relazione che Cadorna fece al ministro Ricotti il 26 settembre 1870[29]:
«A questo ufficiale diedi pure lo incarico di far sentire al prefato (sic) cardinale, che sarebbe stato necessario per l’igiene che le truppe destinate a tutela dell’ordine nella città leonina, fossero quivi ricoverate in qualche locale, invece di rimanere al bivacco per le piazze e per le vie, come stettero finora. Ed inoltre che i malati di queste truppe fossero ricoverati nell’Ospedale di S. Spirito e nell’Ospedale militare che trovasi in quella parte della città. Alla prima domanda rispose adesivamente il cardinale, ed anzi egli spontaneamente, non conoscendo al momento quali fossero i locali da utilizzarsi per alloggiare Truppe della città leonina, propose che si occupasse da noi il Castello S. Angelo, che pel bisogno di cui trattasi offre considerevoli risorse. (...) In quanto alla seconda richiesta, cioè per gli Ospedali, si riservò di rispondere, perché non dipendeva totalmente da lui il poter dare l’adesione: promise però d’interessarsene. S. eminenza il cardinale Antonelli fece pure verbalmente istanza all’Ufficiale di Stato Maggiore, perché fossero ritirate altre munizioni abbandonate sui bastioni dietro al palazzo Vaticano, e si vuotassero i cannoni rimasti carichi. E finalmente dimostrò il desiderio che i veterani (circa 200) rimasti in Castel S. Angelo fossero provvisti da noi di viveri e delle loro competenze»[30].
In questa versione dei fatti sembra essere il generale italiano a fare la richiesta di poter alloggiare le truppe nell’ospedale di Santo Spirito, ma tale richiesta mostra, a suo modo, le relazioni “amichevoli” fra le due parti.
Tra l’altro Cadorna così scrisse successivamente al cardinale Antonelli il 26 settembre[31]:
«Sono riconoscente a Vostra Eminenza che nell’interesse dell’igiene delle Truppe mi abbia spontaneamente fatta facoltà di poter accasermare porzione delle medesime nel Castello S. Angelo ed in quegli altri locali già ad uso militare in codesta parte della città. Con questa misura mi sarà dato di raccogliere in siti più convenienti per la loro salute i drappelli che ora bivaccano per le piazze e per le vie e che forniscono appunto le Sentinelle e le pattuglie a tutela della pubblica quiete.
Ringrazio pure l’Em.V. dell’intenzione manifestatami per mezzo del precisato ufficiale di Stato maggiore d’interessarsi onde siano accettati all’Ospedale di S. Spirito e nell’Ospedale Militare gli individui appartenenti alle Truppe alloggiate nella città leonina i quali cadessero ammalati: su questo riguardo attenderò dall’Em.V. il cenno che ebbe la cortesia di promettermi»[32].
Addirittura si giunse, da parte italiana, all’atto di dissuadere gli ufficiali italiani dal visitare i Musei Vaticani – diversi ufficiali dovevano essersi presentati in quei giorni per ammirarne le opere, altrimenti non si spiegherebbe un tale intervento disciplinare – per non infastidire le autorità pontificie che dovevano aver fatto presente il fatto in forma privata[33]:
«Eppure in una comunicazione “minore” al Segretario di Stato, con la quale lo avvertiva di aver provveduto ad evitare che gli ufficiali italiani si presentassero in Vaticano per visitare i musei, onde rimediare ad una scomoda presenza di cui il Pontefice evidentemente si era lamentato, Cadorna sembrerebbe non riuscire a trattenere una certa reazione polemica:
“Benché le domande degli Uff. possono essere giustificate e sensate dal desiderio di ammirare le meraviglie artistiche raccolte nel Vaticano, tuttavia ho dato ordine che d’or innanzi si attengano dall’inoltrare simili domande”»[34].
La stessa “delicatezza” appare nella relazione con cui Blanc riferisce dell’incontro avuto con il cardinale Antonelli in merito alla possibilità che un’autorità di alto livello da parte italiana renda visita al pontefice[35]:
«Dissi poi che ero informato come lo era anche il Generale Cadorna che sua Maestà non avea mandato espressamente un personaggio a Sua Santità per pura delicatezza, ma che se Sua Eminenza credesse che al papa non dispiacesse ricevere un suo inviato Sua Maestà gli manderebbe subito uno dei Ministri, essendo suo vivissimo desiderio fare ogni cosa possibile per rendere la situazione meno penosa per Sua Santità. Il cardinale mi rispose che apprezzava la delicatezza di un’astensione che era preferibile per ora, l’invio d’un ministro o altro personaggio espressamente mandato non potendo attualmente che accrescere la difficoltà»[36].
2/ De Amicis, l’autore del libro Cuore, inviato a Roma per la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870: «I ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e robusti come ciclopi: baciano il piede alla statua di San Pietro. Un pretino par che dica: - Sono cristiani queste bestie feroci! Meno male! Una lunga fila di soldati è inginocchiata intorno all'altar maggiore». Appunti di Andrea Lonardo
Roma, 26 settembre 1870, sei giorni dopo la Brecciadi Porta Pia. Edmondo De Amicis, che nel 1886 scriverà Cuore, entrato in Roma al seguito dell’esercito comandato dal generale Cadorna, al fine di redigere un resoconto degli eventi annota:
«Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa alta che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! I ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e robusti come ciclopi; la cosa alta è la statua di S. Pietro. I soldati le baciano il piede. Un pretino poco distante guarda e sorride con un'aria di sorpresa e di compiacenza. Par che dica: - Sono cristiani queste bestie feroci! Meno male!
Una lunga fila di soldati è inginocchiata intorno all'altar maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno contemplando le statue, e per convincersi che sono di marmo, mettono loro le mani sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di essi, che mi ha l'aria di un monferrino: - Aj'e nen a dije; a l'è un bel travaj.
Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! Qui l'effetto è veramente prodigioso! È bello il vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intravveduto l'abisso. In altri il volto e l'occhio s'illuminano come a una visione di cielo. È una meraviglia che ha dell'estasi. È il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti è magnificenza che seduce e splendore che affascina, non grandezza che ispira. Ci si sente il teatro. Si pensa più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che a Quegli cui furono dedicati; più ai pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima è così tenacemente legata alla terra dalle meraviglie dell'arte, che a sprigionarla e levarla in alto occorre assai maggior forza e più difficile lotta, di quel che a farla uscir vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe servire d'asilo»[37].
Così De Amicis descrive il rapporto che si venne immediatamente a creare fra le nuove autorità ed il clero della capitale, il giorno dopola Brecciadi Porta Pia:
«La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino sul Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che danno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano. Due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto. Altri tenevano in mano un pane di munizione. Altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: - Che cosa dicono i frati? - So' chiù etaliani de noautri - mi rispose ridendo.
La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n'era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre. Discorrevano di politica»[38].
Egli testimonia che svanì subito la paura che si aveva da parte di preti e frati e, comunque, di cittadini dell’ormai dissolto Stato Pontificio:
«A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose.
- Per me sono contentissimo - rispose, e lo diceva sinceramente. - Tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio. - E poi a bassa voce: - Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.
- Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui a guastare il mestiere ai preti, lei?
- Io? ... Nemmen per sogno.
Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all'entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente italiani degli altri.
Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole: - È una buona persona il nostro curato, gliel'assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati del Re; non gli facciano nessun male, lo dica ai soldati, ci faccia questa carità ...
Quella donna credeva fermamente che il mandato dell'esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch'essa non abbia messo fuor della finestra la bandiera tricolore.
Passava un drappello di seminaristi per una via di Nepi, poco dopo che v'erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tono burlesco: - Ora ... Quelli là ... È finita ... - E mi guardava.
- Perché finita? - gli domandai.
- A questi lumi di luna ...
- Ma che lumi di luna! I seminarii e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.
Restò sorpreso, e poi domandò: - In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?
- Sicuro.
- E passeggiano per le strade?
- Passeggiano per le strade.
- E nessuno gli dice nulla?
- E cosa volete che gli dicano?
C'era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza. Avranno anche dato ad intendere a quella povera gente che gl'italiani distrussero le chiese e innalzarono i templi della dea Ragione?
In una via remota di Roma, poco dopo l'entrata dell'esercito, si vide un vecchietto che, all'aria, doveva aver avuto una tal paura delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l'italiano per non essere accoppato. Cominciò collo sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo: - Accidenti ai preti.
Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte di proposito. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio severo: - Per essere italiano non c'è mica bisogno di dir delle insolenze ai preti, sapete.
Il vecchio rimase attonito.
- Non ce n'è proprio bisogno - soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il viendront-ils degli zuavi.
Un oste, all'apparir dei soldati, s'affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: W. Pio IX. Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:
- Lasciate quella roba dove si trova.
- Ma io ...
- Lasciatela.
- Ma io non son mica per il Papa; io sono per lor signori.
- Ma per essere per noi signori non c'è mica bisogno di rinnegare il Papa.
- Ma questa roba ...
- Ma quella roba vi potrà ancora servire, e tra poco, speriamo, perché le cose s'aggiusteranno.
- Lei dice bene.
- E voi facevate male.
Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s'adoperavano a mettere negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, alla finestra assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall'onorare d'un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.
Un solo frate mostrò d'aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia.
- Fa nen 'l farseur - gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza.
E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete e un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch'era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all'uno all'altro.
- Si va a Roma, reverendo.
- Dio v'accompagni!
- Senti! È dei nostri!
Il prete si mise una mano sul cuore.
- Viva! Viva! - si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.
Non ho sentito mai, né altri può affermare d'aver mai sentito un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi sì; osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull'uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano; non so se ci sarebbero stati quando fossero passati degli zuavi»[39].
I soldati italiani avevano ricevuto l’ordine di riservare tutti gli onori ai cardinali dell’urbe:
«Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinnanzi ai bersaglieri, presso Castel S. Angelo, poco dopo ch'era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l'atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo e un atto così quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni»[40].
Egli cerca di attribuire questa venerazione dei soldati perla Romacristiana alla falsa propaganda dei preti, ma, senza volerlo, rende invece testimonianza alla fede cristiana ed all’amore verso il papa che l’esercito di Vittorio Emanuele II – ed il re stesso – nutrivano in cuore:
«Roma pel nostro esercito e pel nostro popolo sarà una forza.
Non è una forza oggi, né può essere. Per il nostro popolo Roma non è che la città capitale del mondo cattolico; le sue tradizioni son quelle della Chiesa; l'affetto che da lei muove non è che la reverenza religiosa; il suo nome non desta nella moltitudine altro sentimento o ricordo o immagine di grandezza fuori delle pompe splendide e delle cerimonie solenni del culto, delle chiese, dei giubilei, dei concilii, dei santi, dei martiri, dei pontefici antichi, delle cacciate dei barbari, del coronamento degl'imperatori, delle grandi lotte e dei grandi trionfi della religione, di tutte le vicende e di tutte le glorie che la Chiesa diffonde e celebra in ogni parte della terra dal pergamo, nelle scuole, coi libri, colle immagini, colle preghiere, coi mille mezzi che sono in mano sua. L'immagine di Roma per il popolo è avvolta d'un velo bianco, circonfusa del nimbo radiato, cogli sguardi nel cielo e la preghiera sul labbro; è la Roma nuova, la Roma cristiana, la Roma sacerdotale. Ma che è per lui quella antica? La Roma delle mille battaglie e delle mille vittorie, libera, potente e sovrana? La città di Fabrizio, di Bruto, di Paolo Emilio, di Catone, di Pompeo? Tutta la meravigliosa tradizione antica che a noi, benché tanto lontani e tanto dissimili nepoti, accende ancora l'anima d'entusiasmo e d'orgoglio, che cos'è ora per il popolo? Egli la ignora, egli non sa di Roma antica, le sue rovine sono coperte dal velo della religione; il governo del pontefice le lasciò così fredde e mute perché scaldate e interrogate parlerebbero di amor di patria, di gloria guerriera, di virtù cittadina, ed egli vive della negazione di queste tre forze; fra l'Italia nova e quelle rovine stanno diciannove secoli di pertinace lavoro inteso a distruggere lo spirito di libertà e d'indipendenza che ne gittò le fondamenta e le difese e le accrebbe e le fece grandi e temute; la tradizione di Roma antica è soffocata e sepolta.
Ma quando si solleverà il velo della religione, non per squarciarlo, ma per avvicinarlo al cielo, e il sole della libertà batterà su tutto codesto mondo sopito, allora quelle tradizioni si ravviveranno e diventeranno una forza pel popolo italiano. Diventeranno una forza quando su quei colli e tra quelle mura, dove sorse il più grande esercito del mondo ed ebbe il suo più lungo regno la vittoria, pianterà la sua bandiera l'esercito dell'Italia nuova, caldo di quell'amor di patria e di libertà che fece insuperabile l'antico. Diventeranno una forza quelle tradizioni e quelle memorie quando da ogni parte d'Italia si accorrerà tra quelle mura a raccoglierle, a trarne inspirazioni ed auspici, a sentirle più vive e più possenti nella contemplazione delle rovine che ce ne fanno fede.
Certo il nostro orgoglio nazionale non si può alimentare di quelle glorie; sono troppo remote, non sono più nostre, il tempo di disseppellire le superbie antiche è trascorso per l'Italia col regno dell'Arcadia. Ma che dalla memoria della grandezza di Roma, quando vi sia la sede dello Stato non ci debba derivare un legittimo sentimento di alterezza, che ci dia vigore e fiducia; che la sua storia, insegnata al popolo colla solenne illustrazione dei luoghi e dei monumenti, non valga a fortificargli nell'animo il sentimento della patria e della dignità nazionale; che l'idea di possedere codesta Roma a poco a poco qualche cosa non gli susciti e non gl'ispiri di nuovo e di generoso nell'anima, è impossibile. Tutto quel ch'è grande lo ispira. Nel cospetto delle Piramidi il pensiero s'innalza e si dilata; e i monumenti di Roma parlano ben altro linguaggio al cuor nostro.
Noi amiamo tanto più Roma perché è l'ultima città che ci aspetta; perché sperò molte volte e fu molte volte delusa; perché vide risorgere a vita nuova, l'una dopo l'altra, tutte le sue sorelle, e ne sentì i canti e le grida trionfali, senza poter mandar loro il suo saluto. L'amiamo perché la sua augusta immagine, ogni volta che ci sorrise la fortuna, ci corresse la gioia sconsiderata dei trionfi richiamandoci ai pensieri alti e solenni; perché è il primo nome che ci fece battere il cuore da giovanetti e sognare un risorgimento della grandezza antica; perché anche adesso per noi è una promessa, una speranza, un buon augurio. L'amiamo perché il mondo la venera, perché gli stranieri di ogni angolo della terra vengono a visitarla con riverenza ed affetto, perché tutti i grandi artisti l'amarono e la celebrarono nei canti e nelle tele; e sì, e l'amiamo anche perché raccolse l'ultimo sospiro di Arnaldo da Brescia, e udì il lamento di Galileo, e adorò Raffaello e pianse Torquato, e fu bagnata del sangue di migliaia di martiri caduti in nome della nuova legge che sanzionò la libertà e l'eguaglianza sulle rovine della schiavitù e della tirannide; l'amiamo infine perché è una regina scoronata ed afflitta, perché sarà una regina possente e gloriosa, perché è nostra e siam suoi, perché è bella, meravigliosa ed eterna.
Dell'animo dei Romani riguardo all'Italia si dice quello che di noi riguardo a loro: non si mossero, non hanno tutta quella gran fretta che si crede, forse amerebbero meglio d'essere lasciati in pace.
Non è vero.
Certo v'è in Roma una parte del popolo che non si moverebbe, anche potendo, per essere ricongiunta all'Italia. Ma è di quella città come fu e sarà sempre di tutte. Il popolo si divide in tre maniere di gente. I giovani custodiscono e tengono vivi gli affetti ardenti, maturano e preparano la esecuzione dei propositi arditi. L'altra parte del popolo accoglie essa pure quegli affetti, ma li cela, approva e sollecita col desiderio quei propositi, ma non vi presta l'opera sua, o per manco di coraggio, o per manco di fiducia, o per manco di speranza. Ma quando vegga l'opera avviata e la riuscita sicura, batte le mani, scende in piazza, si mescola ai vincitori, resta sinceramente e lietamente con loro. La terza parte, o per convinzione o per interesse, rinnega quegli affetti e combatte quei propositi; ma se gli uni e gli altri trionfino, essa non può restare spettatrice indifferente o nemica del trionfo; prima esita, poi si commove, poi si lascia vincere dal sentimento del vero, del giusto e dell'utile, e fa causa comune coi primi. Così è in Roma. Si può egli credere che ci sia un romano, anche tra i più freddi per l’Italia e per la libertà, il quale al veder entrare il nostro re e i nostri reggimenti per porta del Popolo, non si scota, non si ricreda, non mandi anch’egli il suo saluto?»[41].
Ancora De Amicis scrive in un altro passaggio:
«È una desolazione il vedere come tutto quel tratto di città che si stende dal Campidoglio al Colosseo, e ch'è pieno di meravigliosi monumenti e di auguste rovine, sia stato maltrattato dai Papi. Pare che abbiano voluto distruggerne o snaturarne ogni efficacia. Dappertutto hanno ficcato chiese; in mezzo alle colonne dei templi antichi, accanto agli archi, in mezzo ai muri; e ce l'hanno ficcate per dispetto, si direbbe, facendosi largo col piccone, rovinando, tagliando, accorciando, stringendo. Piego i ginocchi davanti alle immagini sacre; ma immaginate che figura debbono fare dentro il Colosseo dieci o dodici tabernacoli di campagna, e qua e là, per gli archi e pei pilastri corrosi e anneriti dai secoli, lapidi di marmo bianco, immagini di madonne e crocifissi colossali. È una stonatura che urta. Non si può passar di là senza provare un moto d'indignazione»[42].
Ma, alla fin fine sembra vero ciò che egli scrive da Firenze, qualche giorno prima della Breccia di Porta Pia, il 27 agosto 1870, annota:
«Noi commettiamo un grave errore giudicando di Roma e in generale della quistione del papato; ed è quello di astrarre sempre ed assolutamente dalla religione, come se tutti fossero spregiudicati e incuranti come molti di noi; e questo non è vero; la religione è ancora per molti una convinzione, la più profonda e più salda delle convinzioni; è ancora una forza, un ostacolo, una barriera formidabile; una barriera a cui dovremo girare attorno, ma che non potremo e certo non dovremo mai cercare di abbattere, che ci travolgerebbe, vinti e vincitori, nelle sue tristi rovine»[43].
Roma merita un altro sguardo:
«È una città che stordisce, ecco la vera parola. Non mi ricordo chi sia quell'illustre straniero che, entrando in Roma per porta del Popolo, fu sorpreso e commosso a tal segno dallo spettacolo della piazza, del Pincio, delle tre grandi strade, delle chiese, degli obelischi, di tutte le meraviglie che s'abbracciano da quella porta con uno sguardo solo, che fu costretto ad appoggiarsi sul braccio del suo vicino. Tale è veramente l'effetto che fa Roma in quel punto. Il primo bisogno che si sente è di aver accanto qualcuno da stringergli il braccio e lasciargli il livido. Se non ci fosse gente intorno, si manderebbe un grido»[44].
Interessanti sono anche le notazioni che Gabriella Romani, curatrice della nuova edizione del testo di De Amicis, propone ai lettori. Per l’autore del libro Cuore l’unità d’Italia e degli italiani non potrà che essere un fatto di cuore, non potrà che nascere da un senso di appartenenza intimamente ed emotivamente sperimentato:
«L'unità italiana è fatta nei cuori, e quando è fatta là, si fa presto a tradurla nelle leggi, nelle abitudini, nelle convinzioni, nella vita. (Doctor Veritas)
Così Leone Fortis, alias Doctor Veritas, scriveva il 7 luglio del 1878 su «L’Illustrazione Italiana» a favore di un progetto d'unità culturale che identificava nel "cuore" uno dei principali organi di espressione dell'italianità per un paese da poco tempo unificato, ma ancora tutto da fare dal punto di vista dell'identità nazionale. Alcuni scrittori, tra cui Edmondo De Amicis, si dimostrarono particolarmente sensibili ai richiami del "cuore" poiché, sulla scia degli ideali tardo-romantici risorgimentali, erano convinti che l'idea della nazione italiana si sarebbe diffusa più con la forza emotiva dei sentimenti che non con i sillogismi della logica e della ragione. All'epoca De Amicis non aveva ancora scritto il libro che gli avrebbe procurato la fama internazionale, Cuore (1886) - romanzo in cui la scuola veniva descritta come primo grande strumento di riforma culturale nazionale -, ma già nel 1870 in un volumetto intitolato Impressioni di Roma, di cui riproponiamo oggi la ristampa, egli ricorreva all'immagine del cuore per infiammare di amor patrio il pubblico dei lettori e contribuire, in tal modo, al progetto di formazione nazionale degli italiani»[45].
Note al testo
[1] Vittorio Emanuele II a Pio IX, lettera dell’8 settembre 1870 conservata autografa in Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Archivio Particolare Pio IX, Sovrani e Particolari, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 20 settembre 1870, ora ne I documenti diplomatici italiani (d’ora in poi DDI). Prima serie 1861-1870. Volume 13: 5 luglio-20 settembre 1870, Roma 1963, 491-492. Il papa replicherà l’11 settembre, inviando la risposta attraverso il conte Ponza di San Martino. La lettera però [...] giungerà al re solo il 23 del mese, a breccia ormai aperta.
[2] Nota de Gli scritti: per “città leonina” si intende quella parte di Roma che è stretta dalle mura costruite da papa Leone IV fra l’848 e l’852 d.C. per proteggere la basilica di San Pietro dagli arabi che l’avevano attaccata e saccheggiata nel primo dei due assalti che l’urbe ebbe a subire da parte araba nell’846. Cfr. su questo Gli arabi nel Lazio nei secoli IX e X, di Giuseppe Cossuto e Daniele Mascitelli.
[3] Allegato alla lettera dell’8 settembre 1870 di Vittorio Emanuele a Pio IX, in P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, III: La questione romana dalla convenzione di Settembre alla caduta del Potere Temporale con appendice fino alla morte di Vittorio Emanuele II (1864-1870), 2: I documenti, Roma 1961, 271-272.
[4] Così S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 33.
[5] S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, pp. 34-35.
[6] “Essendo esauriti i mezzi conciliativi, governo del re ha deciso che le truppe operanti sotto i di Lei ordini debbano impadronirsi di forza della città di Roma, salva sempre la città leonina, lasciando a S.V. scelta del tempo e dei mezzi. Nel comunicarle questo ordine del consiglio dei ministri, mi limito a rammentarle che le condizioni politiche richiedono più che mai prudenza, moderazione e prontezza. Prego segnarmi ricevuta di questo, ripetendomi intero testo telegramma, per assicurarmi contro ogni errore di trasmissione per telegrafo”. Telegramma del ministro della guerra Ricotti al generale Cadorna, 18 settembre 1870, in R. Cadorna, La liberazione di Roma…, 152.
[7] Cfr. su questo l’ottimo studio di C. Cardia, Risorgimento, Unità d’Italia, Chiesa cattolica.
[8] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 39.
[9] Il “diario pontificio” di Fortunato Rivalta, custodito in ASR e utilizzato come fonte anche da Vigevano, riferisce ogni dettaglio dell’agonia di Roma pontificia di dieci in dieci minuti, dalle 5:10 alle 10, e poi i fatti del pomeriggio dalla capitolazione, che il diario fissa alle 15, fino alla sera. Il diario di Rivalta fu pubblicato per la prima volta da R. De Cesare, Roma e lo stato del papa…, 681-683. In seguito è stato pubblicato anche da N. Miko, Das Ende…, II, 493, doc. 2298.
[10] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 48.
[11] Cfr. R. Cadorna, La liberazione di Roma…, 189. Il biglietto ricevuto da Cadorna non è presente neanche nella raccolta dei Documenti Diplomatici Italiani curata dagli archivisti del ministero degli esteri. Resta dunque il dubbio di dove esso possa trovarsi. Un’ipotesi è che questo documento, come forse anche la copia dell’atto di capitolazione di Roma in possesso delle autorità italiane, sia finito tra i documenti di un fondo archivistico attinente ad un periodo posteriore.
[12] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 45.
[13] Telegramma riservato di Cadorna a Ricotti, 20 settembre 1870, in DDI, s. I, vol. 13, 579, doc. 840.
[14] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 49.
[15] Lanza a Cadorna, telegramma del 22 settembre 1870, DDI, s. II, vol. I, 11, doc. 16 e R. Cadorna, La liberazione di Roma…, 221.
[16] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 50.
[17] Cadorna a Kanzler, lettera del 22 settembre 1870. N. Miko, Das Ende…, II, 546, doc. 2369.
[18] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 50.
[19] DDI, s. II, vol. 1,11, doc. 18.
[20] Ibid., s. II, vol. 1,10, doc. 14. Ma il telegramma era stato riferito anche da Cadorna nelle sue memorie. R. Cadorna, La liberazione di Roma…, 222.
[21] DDI, s. II, vol. 1,10, doc. 15.
[22] S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 51.
[23] ASV, Segreteria di Stato. Spoglio Pio IX, busta 32, fascicolo 1; in S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 54.
[24] ASV, Segreteria di Stato. Spoglio Pio IX, busta 32, fascicolo 1. Il testo è sempre in S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 55, con le seguenti indicazioni: Sono state segnalate tra parentesi quadre le cancellazioni e tra parentesi uncinate le aggiunte apportate direttamente nel testo da una grafia diversa rispetto a quella della minuta, corrispondente inconfondibilmente a quella di Antonelli, mentre il corpo del testo è stato probabilmente trascritto da un segretario sotto dettatura.
[25] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 57.
[26] Il segretario generale agli esteri, Blanc, al ministro Visconti Venosta, telegramma del 22 settembre 1870, ore 8,50 (pervenuto ore 9,05) in DDI, s. II, vol. 1,11, doc. 17. Il telegramma prosegue: “Comandante generale prega V.E. di rispondergli sul modo di contenersi verso il papa. Ci vuole certamente molta prudenza per non esporre la sua dignità. Cependant pourriez scrivergli assicurandolo delle dispositions du Gouvernemnt (sic) qui sont probablment (sic) favorables à tout acte de courtoisie et de respect fait avec précaution convenable”.
[27] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 59.
[28] Lettera di Blanc a Venosta del 26 settembre 1870, in DDI, serie II, vol. 1,62-64, doc. 78.
[29] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, pp. 60-61.
[30] Cadorna a Ricotti, lettera del 26 settembre 1870, in DDI, s. II, vol. 1,66, doc. 81.
[31] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, pp. 61-62.
[32] Testo integrale del telegramma in S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 71.
[33] Così S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 65.
[34] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 74.
[35] In S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in A. Melloni – G. Ruggieri, Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, Carocci, Roma, 2010, p. 66.
[36] Lettera di Blanc a Visconti di Venosta, del 26 settembre 1870, in DDI, s. II, vol. 1,63-64, doc. 78.
[37] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 71-72.
[38] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 97-98.
[39] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 92-97.
[40] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 99-100.
[41] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 18-22.
[42] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, p. 64.
[43] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, p. 23.
[44] E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, p. 60.
[45] G. Romani, Nota, in E. De Amicis, Impressioni di Roma. La breccia di Porta Pia. 20 settembre 1870, G. Romani (a cura di), Marsilio, Venezia, 2010, pp. 163-164.