La conversione dell'Innominato spiega quella di Manzoni, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /04 /2014 - 23:03 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal blog di Giovanni Fighera, La ragione del cuore, un articolo sui Promessi sposi di Alessandro Manzoni (è il quattordicesimo articolo sui Promessi sposi - rimandiamo agli altri del suo blog per ulteriori approfondimenti). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/4/2014)

Non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: non un discorso o una morale, ma un affetto e un abbraccio! Manzoni nei Promessi sposi ci descrive la conversione dell’Innominato, a metà del romanzo, in posizione centrale, a testimonianza dell’importanza dell’episodio. Fallito il matrimonio a sorpresa, come abbiamo visto, Lucia e Renzo fuggono da Pescarenico: Lucia trova rifugio in un convento di Monza nella convinzione di trovare quella protezione di cui altrove non potrebbe godere; Renzo si trasferisce a Milano dove ingenuamente si trova coinvolto nei tumulti popolari scaturiti dalla carestia. Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia, ma, una volta scoperto il suo nascondiglio pressola Monaca di Monza, comprende che l’unica possibilità per riuscire nell’impresa è ricorrere al sostegno dell’Innominato.

Questi è un personaggio realmente esistito. La Marchesa Margherita Provana Di Collegno, che conosceva bene Manzoni, scrive sul suo diario: «Sentii da Manzoni che l’Innominato è un Visconti, ed è personaggio verissimo». L’identificazione più attendibile dell’Innominato sarebbe con Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Gera d’Adda. Il fatto sorprendente è che Manzoni è un discendente di Bernardino da parte di madre. L’autore de I promessi sposi è, quindi, parente dell’Innominato. Un amico molto stretto di Alessandro Manzoni come Hermes Visconti afferma che lo scrittore, raccontando la conversione dell’Innominato, ha voluto svelare anche il segreto della sua.

In sintesi questa è la vita di Francesco Bernardino Visconti. Nato nel 1579 inprovincia di Bergamo, a soli diciassette anni inizia la sua attività criminale insieme con la sua banda, commette numerosi delitti. Contro di lui vengono emesse più grida. Fugge nel cantone dei Grigioni fino a quando ritornerà in Italia stabilendosi nel castello di Chiuso. La conversione avviene durante la visita pastorale di Federigo Borromeo nel lecchese. L’ultima notizia storica dell’Innominato risale al 1647 quando Francesco Bernardino lascia tutta la sua eredità all’oratorio di S. Maria delle Grazie a Bagnolo Cremasco.

Una volta ancora, come nel caso della Monaca di Monza, Manzoni cambia considerevolmente la data della vicenda (anticipandola) per trasformare l’Innominato in un protagonista del romanzo. Il vero poetico, potremmo dire, trionfa sul vero storico in due fondamentali deroghe della storia.

Nel Fermo e Lucia l’Innominato viene designato con il titolo di Conte del Sagrato in riferimento ad un omicidio avvenuto sul sagrato di una chiesa. Ne I promessi sposi Manzoni sceglie un nome che conferisce al personaggio un’aura di eroicità e di grandezza. L’autore ci descrive con acume psicologico la situazione esistenziale in cui si trova l’Innominato quando Don Rodrigo si reca da lui  per chiedere il rapimento di Lucia. Il ribaldo assume su di sé l’impegno senza neppure aver dato all’interlocutore il tempo di spiegare. È un’abitudine al male che lo induce a dire subito sì, ma non appena Don Rodrigo, che neppure conosce, se ne va, inizia a percepire una «cert’uggia», come un fastidio fisico sempre più crescente, come un peso allo stomaco che sempre più si fa sentire, quando non si è digerito eppure si continua a mangiare.

Infatti, all’inizio, l’Innominato nei primi tempi che perpetrava  i suoi delitti sentiva  una sorta di rimorso che cercava di cacciare e che, poi, scomparve. Il cuore, finché non è ancora ottenebrato, oscurato e corrotto funge da criterio  di giudizio con cui paragoniamo quanto ci accade e anche, quando ne siamo inconsapevoli, ci dice se quanto facciamo è buono per noi: la cartina di tornasole è, infatti, la letizia, che scaturisce da una corrispondenza tra quanto accade e quanto desidera autenticamente il nostro cuore. Ora, dopo tanti anni di delitti e omicidi, non si riprende la coscienza dell’Innominato ormai annichilita, il suo non è un rimorso di coscienza, ma un peso fisico, come l’evidenza concreta, oggettiva delle sue azioni, che gli stanno tutte davanti e «sono lui», ovvero lo seguono anche se lui ne è inconsapevole.

Da tempo, però, l’Innominato iniziava a sentire anche il limite ontologico dell’uomo, la vecchiaia e la morte: quella stessa morte che una volta, quando era giovane, destava in lui sentimenti di lotta e sollecitava ancor più il suo coraggio, ora, invece, gli appare come qualcosa che lo riguarda, lui, singolarmente, e che deve essere affrontata non in campo aperto, ma nel buio della sua camera, come un «giudizio individuale», «una ragione indipendente dall’esempio». Di fronte alla morte si percepisce solo e ancor più solo, perché lui si sente per delitti e sopraffazioni molto più avanti di tutti gli altri.

Inoltre, quel Dio che l’Innominato non ha mai negato o affermato, perché lui ha sempre vissuto come se non esistesse, ora gli sembra che gli gridi dentro di sé «Io sono, però», espressione che riecheggia l’ebraico «Iahvé». Una voce gli sembra, infatti, dire: «Fingi e vivi come se io non esistessi, io comunque ci sono e prima o poi con me dovrai fare i conti».

Ebbene, in mezzo a questa crisi, giunge al castello dell’Innominato quella Lucia che il collega di ribalderie Egidio, l’amante della Monaca di Monza, ha facilmente fatto rapire. Quella ragazza debole e apparentemente senz’armi appare all’Innominato non certo indifesa. La fede non l’abbandona in questo momento difficile. Di fronte al suo carceriere esclama: «In nome di Dio…», ponendo così un dito nella piaga dell’Innominato che risponde: «Dio, Dio, … sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola. Di farmi…?».

Allora Lucia pronuncia quella frase che salverà l’Innominato: «Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Anche una semplice frase, un istante possono servire per la nostra salvezza o la salvezza altrui: è il concetto di merito cristiano, per cui non c’è istante che, se offerto a Dio, non possa valere per la salvezza di sé e del mondo. Qui, sarà ben presto evidente che poche parole pronunciate con fede e per fede si stamperanno nella mente sconvolta del ribaldo e nella notte che sta per sopraggiungere lo tratterranno da un folle gesto.