Apologetica in riva al mare. Il dialogo tra cristianesimo e Roma pagana nell’«Octavius» di Minucio Felice, di Marco Beck
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 4/7/2013 un articolo scritto da Marco Beck. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sui Padri della Chiesa e Roma, vedi la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (9/3/2014)
Ostia antica, Porta Marina
In un luminoso mattino d’autunno, liberi da impegni lavorativi dal momento che sono in corso «le ferie per la vendemmia», tre amici passeggiano in riva al mare, su una spiaggia della costa laziale, «gustando lo straordinario piacere di sentire la sabbia morbida cedere e affondare» sotto i loro piedi. Ma soprattutto assaporando la gratificazione insita in una conversazione di alto profilo intellettuale.
Così, con questa ambientazione di sapore quasi romanzesco, Marco Minucio Felice apre il suo dialogo onomasticamente intitolato Octavius. La passeggiata colloquiale si dipana lungo il litorale di Ostia in una data imprecisabile, comunque compresa nella prima meta del III secolo dopo la nascita di Cristo.
Il potere supremo è, in questo periodo, nelle mani dei Severi. Grazie alla loro tolleranza religiosa, l’imperium sta godendo di una pausa di quiete nell’aspra conflittualità innescata dal diffondersi del Verbo cristiano.
Solo dopo il 250 si scateneranno le persecuzioni di Aureliano, Valeriano e Decio. I protagonisti di questo avvincente, serrato dibattito a tre voci sono: l’eponimo Ottavio, un neofita cristiano venuto dall’Africa a Roma per questioni d’affari, l’intellettuale pagano Cecilio e l’autore stesso, a sua volta convertitosi al cristianesimo nella scia di Ottavio.
D’un tratto si accende una controversia ideologico-teologica tra quest’ultimo e Cecilio, ancorato all’osservanza del culto politeistico connesso con il mos maiorum.
Minucio arbitrerà la loro sfida, riservandosi il ruolo di giudice super partes. Assicura che prescinderà dalla propria visione filo-cristiana per assegnare la palma della vittoria a colui che meglio riuscirà ad argomentare pro fide sua.
L’antico apologista non può ovviamente sapere (ma lo sa, o dovrebbe saperlo, il suo lettore d’oggi) che proprio Ostia, sul finire del IV secolo, sarebbe stata scenario di un’altra, ben più celebre conversazione: interlocutori, in un clima di elevato misticismo, Agostino e sua madre, in procinto di ritornare insieme in Africa.
Dove però il futuro vescovo d’Ippona sarebbe sbarcato orfano, essendosi Monica ammalata e spenta appena pochi giorni dopo quell’intimo colloquio col figlio dinanzi all’infinito orizzonte di Dio (Confessioni, IX, 10, 23-33).
Ma chi era, in realtà, Minucio Felice? Se lo chiede preliminarmente nella sua esaustiva introduzione, Mario Spinelli, che, a fronte del testo critico latino mutuato dall’edizione canonica di Michele Pellegrino (1947), ha di recente pubblicato una nuova traduzione dell’Octavius. E non solo l’ha corredata di note puntuali, ma l’ha anche integrata - per estendere il panorama della cultura protocristiana in terra d’Africa - traducendo e postillando nella seconda parte del medesimo volume undici testi di Atti e passioni dei martiri africani, fra cui la straordinaria Passio Perpetuae et Felicitatis (Città Nuova, 2012, pagine 408, euro 82).
Quale profilo identitario si può dunque attribuire a Minucio? Per certo sappiamo solo che esercitava in Roma, dove si era trasferito dalla nativa provincia d’Africa, la professione d’avvocato. Riduttivo, in forma di litote, il giudizio «forense» espresso su di lui da Lattanzio: non ignobilis inter causidicos. Ricca di stima, invece, la lapidaria valutazione di Girolamo: insignis causidicus.
Supponiamo pure che Minucio non sia stato un “principe del foro”. Come scrittore, tuttavia, rivela un indiscutibile talento letterario. Imbevuto di cultura classica, nutrito da letture di poeti e prosatori sia greci sia latini (da Omero a Virgilio, da Lucrezio a Ovidio, da Tito Livio a Seneca e Plutarco), come attestano inequivocabili riecheggiamenti disseminati nell’Octavius, dal punto di vista retorico e stilistico Minucio si ispirava in primo luogo alla trattatistica filosofica di Cicerone e, in subordine, ai dialoghi di Platone.
Sul piano contenutistico, il principale punto di riferimento e il quasi contemporaneo (e conterraneo) Tertulliano. Le fitte consonanze intertestuali tra l’Apologeticum e l’Octavius hanno anzi sollevato la vexata quaestio dell’anteriorità o posteriorità di una delle due opere rispetto all’altra.
Era forse Tertulliano a dipendere da Minucio, o viceversa? Ultimamente, i filologi hanno risolto il dilemma adottando in maggioranza la seconda soluzione. Il che nulla toglie, anche riconosciuti i debiti di Minucio nei confronti di Tertulliano, all’importanza e all’originalità del risultato conseguito dall’avvocato-apologista.
L’oratio di Cecilio assume inizialmente i connotati di un’arringa difensiva del paganesimo: giustifica la fedeltà alla tradizione, all’apparato del culto tributato agli dei dell’Olimpo romano sul fondamento di un ancestrale sostrato mitico e nel rispetto di un secolare assetto sociale.
Questo atteggiamento assertivo si rovescia poi in un’abrasiva polemica contro la dottrina e la prassi dei cristiani. In sostanza, si tratta di un ricorso acritico e superficiale a un repertorio di pregiudizi, diffidenze, mistificazioni radicato in una diffusa disinformazione: presunta immoralità, assurda speranza in una vita ultraterrena, subdolo nascondimento nell’ombra, e cosi via.
Venuto il suo turno, Ottavio fa anzitutto osservare a Cecilio che l’esistenza di un unico sommo Dio creatore dell’universo è da un lato percezione elementare di anime umili e semplici; dall’altro, vertice concettuale raggiunto da eminenti pensatori poeti, spiriti illuminati. Costoro vanno considerati come naturaliter cristiani. Specularmente, i cristiani possono essere qualificati come i veri filosofi.
A questa pars construens subentra, ricalcando lo schema dell’interlocutore pagano, un’accanita pars destruens. Ottavio sferra un attacco frontale contro l’intero sistema politico, etico e religioso su cui poggia il «politeismo di Stato», coacervo - a suo dire - di miti grotteschi e obbrobriose credenze, fomentatore di sanguinose guerre di conquista.
Completata quest’opera di demolizione, il defensor verae fidei riprende a dipingere, nella sua perorazione finale, un’immagine appassionatamente positiva del cristianesimo. Le verità di fede professate dai cristiani sono suffragate dalla ragione, giacché corrispondono alle intuizioni degli antichi filosofi pagani.
E il loro valore è testimoniato dall’integrità dei costumi, dalla dedizione al bene comune, dall’eccellenza delle opere compiute: Non eloquimur magna, sed vivimus (38, 6) «Non parliamo di grandi cose, ma le viviamo».
Cala, a questo punto, un silenzio colmo di stupore, di ammirazione. Ammessa la propria sconfitta dialettica, Cecilio annuncia l’intenzione di convertirsi.
Si affaccia alla fine un solo motivo di perplessità. Perché i capisaldi della dottrina cristiana non vengono approfonditi più di tanto? Perché nell’arco del dialogo la figura di Cristo non emerge mai in modo esplicito?
Perché il kèrygma, il cuore del messaggio evangelico, rimane come “sfumato”? Perché si tace della Chiesa, del sacerdozio, dei sacramenti? Secondo Mario Spinelli, questa cauta evangelizzazione, questa reticenza sulla crocifissione e la resurrezione, obbedisce a una consapevole strategia.
Minucio intende dialogare con la classe dirigente e con l’intellighenzia della Roma pagana, per attirarle verso l’adesione a un cristianesimo presentato come elevazione dello spiritus e della ratio incontro a un Dio unico trascendente, piuttosto che come un rapporto attivo-contemplativo con la persona del Figlio incarnatosi in Gesù per la salvezza di tutti gli uomini.
In altri termini, il progetto apologetico di Minucio propone un primo passo, non troppo impegnativo, in direzione del catecumenato. Un passo propedeutico ma comunque affascinante.
Nella prospettiva di un Dio ammantato di sfolgorante paternità. E alla conquista di una dimensione morale e spirituale incomparabilmente superiore a ogni altra esperienza religiosa.