La censura degli spettacoli in età elisabettiana e la chiusura dei teatri durante il governo di Cromwell, negli anni di Galilei e del teatro barocco. Appunti di Andrea Lonardo sul volume di P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII
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Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo sul volume P. Spinucci, in Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulla Riforma, vedi la sezione Storia e filosofia.
Il centro culturale Gli scritti (16/2/2014)
«Portato davanti ai giudici della Star Chamber, Prynne ebbe una sentenza indubbiamente sproporzionata nei confronti della sua “sedizione” religiosa [nel 1633; da puritano aveva denunciato il teatro come opera del demonio], ma perfettamente in armonia con lo spirito dei tempi per la sua “sedizione” politica: taglio delle orecchie, incisione sulla guancia delle lettere S.L. (“Seditious Libeller”) con un ferro rovente, una multa di 5.000 sterline, espulsione da Lincoln's Inn, annullamento della laurea in legge e prigione a vita»[1].
P. Spinucci, in Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, racconta questo episodio nel contesto delle lotte che videro il teatro oggetto di ricorrenti polemiche durante la riforma inglese, fino al momento di massima crisi, quando Oliver Cromwell decretò la sistematica distruzione di tutti i teatri presenti sul territorio inglese.
Spinucci inserisce la polemica inglese nell’ambito dei modelli culturali dell’epoca, che andava scoprendo come il teatro fosse un luogo importante per l’acquisizione di un consenso o l’espressione di un senso di disagio nei confronti di chi era al governo.
Già nella Ginevra calvinista si giunse ad un controllo delle opere che si rappresentavano a teatro e fu lo stesso Calvino ad avocare a sé le decisioni ultime in materia:
«[La rilevanza pubblica del teatro] spiega l'atteggiamento incostante che il Consiglio ginevrino adottò nei riguardi del dramma. Anche quando, a suo giudizio, la “piece” non conteneva nulla “contre Dieu”, la decisione finale spettava sempre a Calvino (“Si mr. Calvin est de cet avis”), e Calvino decideva ovviamente con un occhio attento alla ragion di Stato, e con l'altro alle reazioni dei rigoristi, ma sempre secondo le proprie convinzioni personali. Ecco così la proibizione di una “ballade” ad opera del solito Abel Poupin (1551) e il permesso di ristampa concesso invece nel 1561 ad una tragedia di Beza, Il Sacrificio di Abramo; la rappresentazione nel 1561 di una commedia di Conrad Badius, Le Pape Malade e sette anni più tardi la via libera per un'altra commedia, questa volta di Jacques Bienvenu, dal titolo evidentemente ispirato alla precedente, Le Monde Malade et Mal Pansé, il tutto dosato al contagocce e interamente sottoposto alla decisione di un teocrate che applicava ferreamente il principio del “cuius religio eius et ludus”. È noto che anche questo prudente dosaggio, ispirato al principio di non privare di colpo la città da ogni forma di “oblectamenta”, non durò che sino al 1572, quando al Sinodo di Nimes le Chiese riformate di Francia decisero la completa abolizione di ogni spettacolo popolare con la sola eccezione delle rappresentazioni scolastiche di chiaro intento didattico-accademico. A Ginevra, insomma, una controversia di tipo umanistico non ebbe neppure modo di nascere e di manifestarsi. La psicosi del “contra Dieu” non poteva evidentemente coesistere nemmeno con una “mimesis” esorcizzata.
C'è tuttavia un aspetto che nella politica ginevrina verso il teatro riveste un'importanza particolare: tra le poche rappresentazioni consentite sino al 1572, figurano due commedie: Le Pape Malade e Le Monde Malade et Mal Pansé. Purtroppo il testo di entrambe è andato perduto e non si hanno elementi per dire se le due opere fossero di carattere anti-romano sull'esempio di quanto dal Faustbuck germanico sarebbe trapassato nel Dr Faustus di Marlowe, oppure trasfigurazioni didattico-allegoriche di controversie teologiche. Ma il fatto stesso che opere di questo tipo poterono trovare udienza anche a Ginevra, sta a dimostrare che, nonostante l'avversione contro le “inanes et histrionicae fabulae, Veneris illecebrae”, neppure Ginevra andò esente da quella che fu una caratteristica costante di tutte le chiese riformate: una spregiudicata strumentalizzazione del teatro a fini polemici e controversiali. Non importa quale fosse la loro avversione contro il “disguising” diabolico, ma quando si trattava di attaccare Roma, allora anche il “disguising” diventava una predicazione della “verità”»[2].
Spinucci confronta poi la visione calvinista del teatro con quella che si affermò nell’Inghilterra anglicana:
«Se nella città di Calvino, agli inizi il teatro fu tollerato per ragion di Stato (“Video non posse negari omnia oblectamenta”) e poi rapidamente strangolato, anche nelle sue manifestazioni più chiaramente didattiche ed edificanti, come un “ludus” peccaminoso, in una intransigente interpretazione teocratica e moralistica del principio del “cuius regio eius et religio”, alla luce dello stesso principio esso fu invece variamente utilizzato e strumentalizzato in Inghilterra per la promozione della Riforma. A Ginevra tutte le manifestazioni della “mimesis”, sia pure di natura religiosa e di soggetto biblico, furono sempre sospettosamente considerate come “inanes et histrionicae fabulae, Veneris illecebrae”, mentre in Inghilterra attori e drammi “persuaded the people to worship theyr Lord God aright”. A Ginevra, guerra aperta tra “mimesis” e teocrazia con brevi e sporadiche parentesi di tolleranza tattica; a Londra, alleanze alterne tre “mimesis” e Chiese, seguite da una tacita alleanza permanente conla Chiesa nazionale dell'“establishment” religioso e politico.
Riformatori blandi e riformatori intransigenti, la Chiesa del compromesso anglicano e la Chiesa catara dell'allineamento oltranzista, furono tutti sostanzialmente d'accordo nell'usare del teatro come di un secondo pulpito per la promozione della “verità”, specialmente quando si trattò di mimare le ragioni storiche e morali della frattura antiromana. Tuttavia i riformatori del compromesso anglicano, in nome della “true religion”, non esitarono a bloccare il dramma controversiale quando videro in esso un pericolo eversivo verso la religione nazionale; a sua volta, sotto Edoardo VI l'ala più avanzata del Protestantesimo tornò ad usare i “poore minstrels” per un indirizzo più marcatamente protestante del paese, mentre con Mary Tudor furono i cattolici a strumentalizzare la scena per la “restaurazione della verità” nell'Inghilterra scismatica; a sua volta Elisabetta nei primi anni del regno usò abbondantemente il dramma in funzione antiromana e antispagnola. Cattolici inglesi e cattolici romani, riformatori blandi e riformatori intransigenti, ognuno con la sua “verità” da difendere o da promuovere, furono tutti d'accordo nell'accaparrarsi di volta in volta il teatro come potente strumento di suggestione popolare. Era naturale che, una volta entrato nella “guerra dei credi”, il teatro finisse per cadere nelle mani del potere che della Riforma regolava i tempi, i modi e le forme con una strategia squisitamente politica dei mezzi e dei fini, attento soprattutto al problema della unità - o meglio, dell'equazione “comformity-uniformity” - civile e religiosa del paese. E poiché l'unità nazionale fu la preoccupazione forse più caratterizzante del regno di Elisabetta, non sorprende che venissero considerati eversivi gli estremismi controversiali di parte che rimettevano ogni volta in forse il concetto stesso di Riforma, salvo ad essere tollerati e persino incoraggiati nei momenti in cui la manifestazione della polemica e del dissenso servisse a perseguire i fini del crescente centralismo della Corona. Nei primi anni del regno di Elisabetta il teatro - dramma o “mask” che fosse - rientrava anch'esso nella sfera strumentale di questa politica, e se talvolta esso cadde in mano alle frazioni centrifughe delle opposte parti religiose, sempre la Corona riuscì a ricuperarne il controllo nel quadro di una “comformity” religiosa ch'era l'altra faccia della “comformity” politica, facendo gli spettacoli il “panem et circenses” della “populace”, ma anche lo splendore quasi ritualistico della corte»[3].
Nell’Inghilterra elisabettiana il teatro fu sottoposto a numerosi attacchi da parte dei pulpiti dei ministri anglicani, da parte del governo e della stessa corona, ma la politica riuscì a tenerlo sotto controllo, utilizzandolo come strumento per il consolidamento dell’establishment religioso voluto dai reali anglicani.
«Le vicende del teatro inglese negli ultimi quattro decenni del sec. XVI costituiscono un tale groviglio di fatti, di pretesti e di capovolgimenti tattici che, a prima vista, sembra impossibile rintracciarvi un coerente filo conduttore. A scorrere la letteratura polemica del tempo, o a ripercorrere la lunga storia delle vessazioni e degli attacchi da ogni direzione a cui fu sottoposto il teatro a partire del 1563, è già sorprendente che esso, verso la fine del secolo, riuscisse non soltanto a raggiungere una posizione economica e sociale ormai inattaccabile, ma soprattutto una condizione di splendida autonomia creativa.
Mai, infatti, una forma d'arte ebbe a subire tanti attacchi concentrici come il teatro inglese sotto il regno di Elisabetta: avversato dai pulpiti, messo alle corde dalle restrizioni vessatorie delle autorità municipali, oggetto di “pamphlets” ingiuriosi e feroci, il teatro inglese riuscì ogni volta ad ampliare puntualmente lo spazio della propria sopravvivenza, ma anche a conquistarsi uno spazio per la propria libertà creativa.
Questa vicenda sarebbe, sotto tutti gli aspetti, storicamente anomala, se dietro di essa non ci fosse stato un elemento determinante a spiegarne il positivo punto di arrivo, cioè la volontà della Corona a fare del teatro un elemento insostituibile della propria politica di governo e, in via subordinata, lo specchio del proprio “cosmos” politico e religioso, il “ludus” della “populace” e lo sfarzo “liturgico” della Corte, e in ogni caso un suggestivo strumento indiretto di unità nazionale»[4].
Spinucci sottolinea come i grandi autori dell’epoca, ad esempio W. Shakespeare, lasciano trasparire nei loro scritti le tensioni politiche e religiose dell’epoca – altri autori hanno colto recentemente tali preoccupazioni rifesse nell’opera del grande drammaturgo, ma sottolineando che le sue parole potrebbero lasciar intendere piuttosto la nostalgia degli anni nei quali l’Inghilterra era cattolica:
«Ovviamente la crisi non era nata in quel trapasso da un monarca ad un altro, ma era già latente nel compromesso a metà strada con cui il Protestantesimo inglese aveva concretizzato l'ideale della Riforma religiosa, cioè in una chiesa di stato, rigidamente ancorata ad una “comformity” in cui il centralismo politico alimentava costantemente sia un centralismo religioso che un verticalismo istituzionale.
Elisabetta era ancora viva quando, in Hamlet, Marcello, un personaggio secondario, quasi bisbigliava a se stesso:
C'è qualcosa di marcio nello stato danese
e a lui faceva eco lo stesso Amleto:
(I, v, 90)
Il mondo è fuori di sesto! O quale maledetto, mortificante congiuntura che dovessi esser nato proprio per ridurlo nuovamente all'ordine»[5].
I puritani, di fede calvinista, si opposero a questa accettazione del teatro da parte anglicana, in diverse maniere, contestarono il teatro in sé come realtà di origine demoniaca ed il suo utilizzo religioso-politico da parte della corona. Fra gli oppositori puritani del teatro Spinucci indaga con attenzione la figura di William Prynne che scrisse in proposito un testo esplicito nel condannare la malvagità intrinseca del teatro:
«Quando, ad esempio, nell'Atto I [dell’Histriomastix], Prynne vuole dimostrare che il teatro è una diretta invenzione del diavolo e, quindi, intrinsecamente “peccaminoso, pernicioso e maligno”, ecco la trappola sofistica che egli fa puntualmente scattare contro la “mimesis”:
Maggiore. Tutto ciò che ha avuto diretta origine dal Diavolo, è peccaminoso, pernicioso e maligno.
Minore. Ma il dramma ha avuto diretta origine da Satana.
Conclusione. Ergo, tutte le opere di teatro sono intrinsecamente peccaminose, perniciose e maligne»[6].
Come si è già detto, Prynne venne pubblicamente punito per il suo tentativo di combattere l’establishment religioso:
«Portato davanti ai giudici della Star Chamber, Prynne ebbe una sentenza indubbiamente sproporzionata nei confronti della sua “sedizione” religiosa, ma perfettamente in armonia con lo spirito dei tempi per la sua “sedizione” politica: taglio delle orecchie, incisione sulla guancia delle lettere S.L. (“Seditious Libeller”) con un ferro rovente, una multa di 5.000 sterline, espulsione da Lincoln's Inn, annullamento della laurea in legge e prigione a vita.
I dettagli della esecuzione insieme alla sproporzione della pena e al contenuto chiaramente politico della sentenza, contribuirono non poco a trasformare agli occhi dei Puritani “this minor prophet, Prophet Prynne” (come lo aveva chiamato il conte di Dorset) in un “major prophet” della Causa»[7].
Quando i puritani presero il potere con Cromwell passarono da perseguitati a persecutori. Si opposero inizialmente in forma generale al teatro, già nel 1642 e giunsero poi a misure drastiche nel 1647 quando venne emanata l’ordinanza che prevedeva la distruzione sistematica dei teatri. Tutti i teatri vennero così demoliti dalle fondamenta (si confronti il fatto con la contemporanea esaltazione del teatro barocco in territori cattolici):
«L'Order of the Lords and Commons concerning Stage-playes era, infatti parte di una più generale Declaration... for the Appeasing and quietting of all unlawfull Tumults and insurrections in the Severall Counties of England, and Dominion of Wales, recante la data del 2 settembre 1642.
Il testo dell'Order va citato per intero, almeno nella sua parte centrale, non soltanto per il suo accorato linguaggio d'imminente palingenesi vetero-testamentaria, ma perché ripeteva in sintesi le ragioni e i pretesti di tutta la lunga campagna puritana contro il teatro:
Whereas the distressed Estate of Ireland, steeped in her own Blood, and the distracted Estate of England, threatned with a Cloud of Blood, by a Civill Warre, call for all possibles meanes to appease and avert the Wrath of God appearing in these Judgements; amongst which, Fasting and Prayer having bin often tryed to be very effectuall; have bin lately, and are still enjoyned; and whereas publicke Sports doe not well agree with publicke Calamities, nor publicke Stage-plyes with the Seasons of Humiliation, this being an Exercise of sad and pious solemmnity, and the other being Spectacles of pleasure, too commonly expressing lascivious Mirth and Levitie: It is therefore thought fit, and Ordeined by the Lords and Commons in this Parliament Assembled, that while these sad Causes and set times of Humiliation doe continue, publicke Stage-Payes shall cease, and bee forborne. Instead of which, are recommended to the people of this Land, the profitable and seasonable Considerations of Repentance, Reconciliation, and peace with God. Which probably may produce outward peace and prosperity and bring againe Times of Joy and Gladnesse to these Nations.
Die Veneris Septemb. 2. 1642.
Il passo è assolutamente tipico dello stile e della mentalità puritani, come di tutti i radicalismi ideologici: il teatro e tutti i “publicke sports” offerti come offa propiziatrice contro la “wrath of God”; ogni forma di “mirth and levitie” messa come sfondo ad un paese che ha tutte le connotazioni sinistre di un incombente giudizio di Dio; un invito al digiuno e alla preghiera preso direttamente dalle lamentazioni bibliche dei profeti; e, infine, una gloriosa tradizione letteraria e civile cancellata con quattro secche parole da provvedimento amministrativo: “stage-playes shall cease and bee forbone”.
Nonostante la sua retorica apoditticità moralistico-religiosa, l'Order del 1642 poteva tuttavia dirsi giustificabile quale provvedimento di emergenza, come faceva supporre anche la contorta fraseologia con la quale esso era stato stilato: “while these sad Causes and set Times of Humiliation doe continue”. Di fatto, proprio quando ebbero fine le “sad Causes and set times of Humiliation” (la persona del re non era più che un ingombrante oggetto di patteggiamento tra il Parlamento presbiteriano e la Causa Indipendente) si ebbe il nuovo Order dell'11 febbraio 1647, che dava il colpo finale a tutta la “mimesis” inglese: da temporanea, la soppressione degli spettacoli diventava permanente (“forthe utter suppression and abolishing of alla stage-playes and interludes”): abolito ogni privilegio di patronato e ogni tipo di “patent” (“notwithstanding any license whatsoever fram the King or any person or persons to that purpose”) gli attori venivano riportati di colpo alla condizione di “vagrants”, soggetti alla fustigazione, se sorpresi a vagabondare senza un “lawfull living”, mentre i teatri e ogni luogo di pubblico spettacolo non soltanto dovevano essere chiusi, ma addirittura demoliti dalle fondamenta, quasi sradicati come un'infezione morale dal suolo inglese: quello che era stato il sogno della monomania distruttiva di Prynne, veniva attuato con un provvedimento politico-amministrativo da parte di un Parlamento per il quale il teatro era uno dei baluardi più temuti e più validi del “vecchio ordine” da sostituire con il “nuovo”»[8].
Anche gli attori dovettero reinventarsi in una nuova professione, passando dalla notorietà all’indigenza – Prynne aveva ipotizzato un indennizzo alla gente di teatro, ma tale ipotesi non ebbe seguito:
«La loro [degli attori] condizione può essere sintetizzata da quanto capitò ad uno dei superstiti compagni di Shakespeare, John Lowin, del quale sappiamo che aprì una locanda, The Three Pigeons, a Brentford dove morì vecchissimo e “his poverty was as great as his age”. Della “carità dei cristiani” promessa da Prynne agli attori disoccupati non si trova la più piccola traccia»[9].
Note al testo
[1] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 254.
[2] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, pp. 30-31.
[3] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, pp. 67-68.
[4] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 95.
[5] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 166.
[6] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 239.
[7] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 254.
[8] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, pp. 274-276.
[9] P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, p. 277.