Scuola ed inter-cultura: il posto della dimensione religiosa. Tre testi di Filippo Morlacchi, Andrea Lonardo e della Congregazione per l’Educazione Cattolica

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /02 /2014 - 14:26 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati: , , , ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Indice

1/ La scuola: ambiente nodale per l’incontro con le religioni, di Filippo Morlacchi

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Filippo Morlacchi, direttore dell’Ufficio di pastorale scolastica della diocesi di Roma, pubblicato in “Orientamenti pastorali” 12/2013 (61), pp. 31-37. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti su scuola ed educazione, vedi la sottosezione specifica nella sezione Catechesi e pastorale. Vedi anche la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)

Scuola e integrazione: un’opportunità bruciata?

Talvolta ho l’impressione che l’integrazione degli immigrati e degli stranieri nelle scuole sia una partita ancora tutta da giocare, eppure sotto certi aspetti già quasi archiviata. Partiamo da alcuni dati numerici elementari.

Il numero complessivo degli stranieri in Italia cresce soprattutto per effetto dell’immigrazione dall’estero; ma se si parla di minori, le cose stanno diversamente. L’Istat dichiara che al 1° gennaio 2013 sul territorio italiano gli stranieri rappresentano il 7,4% della popolazione; ma la percentuale di bambini stranieri sul totale dei nati è invece più del doppio (15%). La percentuale di alunni non italiani è in continua crescita per ciascun ordine di scuola; nella scuola dell’obbligo ormai su 100 alunni 9 sono stranieri. Nell’anno scolastico 2011/2012 (ultimi dati disponibili da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) il numero degli alunni non italiani era pari a 755.939 unità. Rispetto all’anno scolastico precedente l’aumento è pari al 6,4%, dovuto essenzialmente agli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia (44% degli alunni stranieri in totale) piuttosto che alla consistenza del flusso migratorio (3,6%).

È evidente, quindi, che la scuola non può sottrarsi alla vocazione di essere luogo di confronto e integrazione: non solo perché frequentata da bambini e ragazzi, spontaneamente aperti al futuro e curiosi nei confronti del nuovo e del diverso; ma anche perché molti di loro sono “stranieri sui generis”,[1] che crescono comparando inevitabilmente, giorno dopo giorno, le usanze familiari (linguistiche, alimentari, religiose…) con quelle dei propri compagni e compagne di classe.

Tuttavia, a volte mi sembra che il molto parlare di integrazione abbia già ingenerato in più di qualcuno una precoce insofferenza. Attualmente ho impressione che il mainstream degli operatori scolastici si sia spostato verso le cosiddette “questioni di genere”: altro argomento certo delicato e importantissimo, ma che forse ha distolto troppo presto l’attenzione dal dibatto sull’immigrazione. In alcuni educatori noto una diffusa stanchezza: “la prima grande ondata migratoria è già passata, quel che si poteva fare si è fatto, ormai molti alunni stranieri parlano l’italiano (o, più spesso, il dialetto locale) con una discreta disinvoltura, l’emergenza è in fondo superata, ci stiamo abituando alla situazione, si sono raggiunti certi equilibri, chi voleva integrarsi lo ha fatto, chi non vuole integrarsi è libero di non farlo, basta che rispetti le leggi e paghi le tasse…”. È possibile che l’insistenza un po’ allarmistica e talora martellante con cui si è affrontata la questione negli anni passati abbia “bruciato” l’impegno collettivo, suscitando reazioni di saturazione e facendo sì che la cura di promuovere un’educazione rispettosa e inclusiva sia rimasta appannaggio di pochi specialisti.

La scuola come ambiente di vita: l’integrazione “naturale” dei bambini

La scuola non è solo un luogo di incontro, ma un vero e proprio “ambiente di vita”: gli alunni, fin dalla più tenera età, vi trascorrono buona parte della giornata (si pensi in particolare alle classi ad orario prolungato nelle scuole primarie), vi stringono le amicizie fondamentali e coltivano relazioni affettivamente significative, vi sperimentano salutari conflitti di crescita, imparando a confrontare la piccola esperienza della propria famiglia con più ampie relazioni sociali, ecc. Proprio in quanto ambiente di vita, la scuola rappresenta il laboratorio ideale per l’edificazione di rapporti di accoglienza e di fraternità.

Gli occhioni spalancati dei bambini sono metafora della loro curiosità. Un bambino non ha pregiudizi. La differenza non suscita in lui alcuna diffidenza: per i bambini, ogni persona è fatta come è fatta. Ciò che per un adulto può esser classificato come una “stranezza”, per loro è solo una “caratteristica”. Il fanciullo non ha schemi pregiudiziali e quindi i tratti più originali degli altri non lo insospettiscono più di tanto e non contraddicono le sue aspettative. Per questo motivo, i primi anni di scuola sono il luogo più funzionale per una valida educazione interculturale e interreligiosa.

Spesso nei primi anni di scuola, quando il canale comunicativo privilegiato è quello affettivo, i processi di conoscenza reciproca e di integrazione si sviluppano spontaneamente, senza alcun intervento educativo speciale. Ben più complesso è l’inserimento dei ragazzi stranieri nelle superiori. Nel caso di adolescenti non nati in Italia, spesso con significativi problemi di lingua, e soprattutto con un vissuto di sradicamento più consapevole e sofferto, l’intervento di uno specialista diventa fondamentale. E invece, purtroppo, man mano che si sale nei gradi di scuola, l’attenzione all’integrazione e la presenza di personale specializzato si dirada, fino a divenire praticamente assente.

I contesti di meticciato culturale e linguistico già avviato sono quelli in cui la dimensione religiosa acquista un significato decisivo. La religione manifesta infatti il nucleo più profondo della persona e rappresenta l’espressione più radicale dell’identità personale. Nell’ambiente scolastico, in cui il confronto e il dialogo si sviluppa non solo fra bambini, ma anche, attraverso di loro, fra genitori che rivendicano la propria libertà di educazione, il tema si fa ancora più delicato e scottante. Lo dimostra il dibattito sull’insegnamento scolastico della religione, che si mostra tutt’altro che sopito, e che negli ultimi anni è assai vivace già nella delicata fase della scuola dell’infanzia (4-6 anni).

L’identità religiosa rappresenta infatti uno dei più delicati punti di attrito nell’educazione dei fanciulli. Prima dell’adolescenza le opzioni etiche sono ancora piuttosto elementari e facilmente condivisibili: le regole essenziali di comportamento sono le stesse per tutti i bambini, indipendentemente dalla loro specifica appartenenza religiosa. L’unico aspetto educativo su cui già nei primissimi anni di vita i genitori vigilano costantemente, è la fede religiosa o, nel caso di famiglie non credenti, la visione del mondo. Per questo motivo, fintanto che non si affronta la questione religiosa, il nocciolo del problema dell’integrazione e del dialogo non viene affrontato.

Esempi ed esperienze

Le situazioni e le modalità relazionali cambiano radicalmente a seconda dei diversi contesti (tipologia di territorio, ambienti urbani o rurali, presenza dell’una o dell’altra minoranza straniera, ecc.). A titolo di esempio, mi limito a brevi considerazioni a partire dalla situazione di Roma, che mi è più familiare. Nella Capitale la comunità immigrata più rappresentativa, capillarmente disseminata su tutto il territorio urbano, è quella rumena, perlopiù di confessione ortodossa. In questo caso il confronto interreligioso – o, più propriamente, ecumenico – è senza dubbio l’aspetto più facile del dialogo. Le differenze tra ortodossia e cattolicesimo sono modeste, e soprattutto non sono percepite come minacciose: i pregiudizi che rendono difficile la convivenza tra italiani e rumeni nascono da altri presupposti.

Nel caso della popolosa comunità cinese, tendenzialmente concentrata nel solo quartiere Esquilino, il problema maggiore sembra essere rappresentato dalla propensione di questa etnia a conservare un rigido isolamento; anche in questo caso l’aspetto religioso sembra incidere in misura modesta. La comunità islamica è certamente ben rappresentata, come testimonia la presenza di numerose moschee, ma è ripartita tra diverse provenienze nazionali (Marocco, Sudan, Bangladesh…): in questo caso il dialogo interreligioso non riesce ad esaurire il confronto con le diverse identità culturali.

Nel caso delle folte comunità latinoamericane o di quella filippina, quasi totalmente cattoliche, non si pongono problemi di dialogo interreligioso; ma il confronto culturale è invece assai complesso. Infine va segnalato che non sempre il dialogo interreligioso comporta un dialogo con stranieri. L’esempio tipico è quello della vivace comunità ebraica romana: spesso sono italianissimi, romani a tutti gli effetti, eppure esprimono un’identità religiosa e culturale fortemente identitaria, che si manifesta anche nella presenza di una scuola ebraica assai frequentata.

Non mancano esperienze di dialogo e di integrazione nella scuola variamente collaudate. Ne segnalo alcune, anche stavolta a mero titolo di esempio: la maggior parte del lavoro di integrazione è infatti svolto nascostamente da tante maestre e da tanti insegnanti nelle loro classi, senza che nessuno lo sappia. Da alcuni decennila Comunità di Sant’Egidio svolge un prezioso servizio educativo, con numerosi volontari che favoriscono l’accoglienza dei bambini rom che frequentano – spesso, purtroppo, a singhiozzo – tanti istituti romani. Nel novembre 2013 è stato celebrato il 30° anniversario della Scuola di Lingua e Cultura Italiana, promossa dalla Comunità: alle attività di promozione umana, di primaria importanza, si affiancano così iniziative di natura culturale, che coinvolgono anche adulti, nelle quali la dimensione religiosa viene tenuta in debita considerazione. Il “Centro Astalli”, espressione del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS), offre da oltre un decennio due progetti per le scuole romane: “Finestre – Storie di rifugiati” e “Incontri”, quest’ultimo dedicato alla conoscenza delle cinque principali religioni mondiali (buddismo, cristianesimo, ebraismo, induismo, islamismo). Alcuni credenti delle diverse fedi spiegano a turno alle classi le proprie usanze, e invitano a conoscere i propri luoghi di culto nella città. Anche il Comune di Roma ha promosso negli anni scorsi un “tavolo interreligioso” per favorire la conoscenza nelle scuole delle diverse religioni.

A dire il vero, le modalità di realizzazione di questi progetti non convincono del tutto: gli incontri con gli alunni si svolgono in giornate distinte, senza far incontrare gli esponenti delle varie fedi. Più che un “tavolo interreligioso” sembra trattarsi di una sequenza di “tavolini separati” in cui ciascuno espone la propria appartenenza, senza un vero confronto; di conseguenza, le diverse convinzioni e usanze descritte possono facilmente essere percepite dagli studenti come espressioni più o meno stravaganti di “folklore religioso”, in un contesto sostanzialmente relativistico, in cui si trasmette solo la percezione di una confusa varietà di appartenenze. L’iniziativa del Tavolo interreligioso è stata sospesa da qualche anno, forse anche  per via della difficoltà di trovare persone disposte a presentare la propria religione in orario antimeridiano (gli incontri erano in orario scolastico, cioè lavorativo). A riprova del fatto che il dialogo è sempre impegnativo.

Il laboratorio dell’insegnamento scolastico della religione

Se il confronto con l’identità religiosa è un nodo imprescindibile del vero dialogo interculturale, è necessario affrontare anche l’argomento dell’insegnamento scolastico della religione. In Italia vige un modello di questo insegnamento peculiare nel panorama europeo. Per questo motivo alcuni esperti di pedagogia religiosa lo considerano una “anomalia” da superare; personalmente, ritengo al contrario che si tratti di un modello straordinariamente efficace, anche in vista di una migliore integrazione culturale e religiosa.

L’insegnamento religioso nelle scuole italiane è un insegnamento confessionale (l’acronimo “IRC” significa “Insegnamento della Religione Cattolica”), e quindi presenta i contenuti specifici della fede cattolica; ma ha una forma scolastica e culturale, non catechistica, e pertanto è offerto a tutti: anche ad alunni di famiglie non cattoliche o non credenti, rinunciando a qualsiasi forma di proselitismo.

Qualcuno vorrebbe sostituirlo con una “storia delle religioni” o una “fenomenologia del fatto religioso”. Ma, come ebbe a dire quasi un secolo fa il filosofo G. Gentile, «non ha senso dire “religione sì, ma non una data religione” [...]. Sarebbe come dire: “poesia sì, ma né Omero, né Dante, né Shakespeare, né altri”». In altre parole, non si può imparare “il linguaggio”, ma sempre una concreta lingua storico-naturale, e solo a partire da quella se ne possono apprendere altre.

Inoltre – ed è il secondo punto da sottolineare – non è bene che la religione sia presentata da parte di docenti distaccati e neutrali (almeno nelle intenzioni dichiarate), come se si trattasse di un relitto da museo. Le religioni sono ancora ben vive, e proprio questo esige un dialogo attento e perseverante. Un insegnamento puramente comparativista sarebbe scarsamente utile proprio dal punto di vista dell’educazione interreligiosa. Nessun conflitto religioso, infatti, nasce oggi in relazione alle divinità del Pantheon greco o sumero, per il semplice fatto non ci sono più credenti di quelle religioni.

L’educazione interreligiosa ha senso solo se riguarda persone reali, e non astrazioni. Non esistono scontri tra le “religioni” o le “culture”, ma solo tra persone concretissime che credono una data fede o incarnano una data cultura. Dirò di più: le tensioni sorgono solo tra persone profondamente convinte della propria fede. Per chi, come me, ha un interesse molto blando per il calcio, non si pongono problemi di conflitto con chi parteggia per una squadra diversa: i problemi veri nascono quando si incontrano due tifosi accaniti, o – fuor di metafora – due credenti convinti. Sono loro che devono imparare a rispettarsi e a convivere serenamente.

Infine, ritengo che l’insegnamento aconfessionale delle religioni, presentato da alcuni come “più inclusivo”, esprima un punto di vista profondamente egocentrico (o eurocentrico) e poco aperto, nonostante le apparenze contrarie. Se infatti si vuol favorire l’integrazione degli stranieri, la cosa migliore è consentire loro di conoscere meglio la cultura e la religione del paese in cui vengono a vivere. L’Italia rimane un paese essenzialmente segnato dal cristianesimo cattolico, ed è doveroso offrire a chi viene nel nostro Paese innanzi tutto la possibilità di conoscere adeguatamente questa fede e la cultura che ha generato.

Per gli immigrati che vivono in Italia è certamente più utile conoscere il cattolicesimo, che non le altre religioni mondiali. Solo dal “nostro” punto di vista si percepisce come innovativo e interessante lo studio delle altre religioni. Dovremmo invece piuttosto “fare gli onori di casa”, e offrire generosamente ciò che è nostro agli ospiti che vengono a trovarci. A tal fine, anche a Roma e nel Lazio, come già in altre città e regioni italiane, le comunità ecclesiali diocesane hanno diffuso nelle scuole un dépliant multilingue (italiano, inglese, spagnolo, rumeno, ucraino, arabo, cinese, filippino) come gesto di accoglienza, per spiegare alle famiglie straniere come funziona l’IRC e invitare gli alunni a scegliere di avvalersene, anche come laboratorio di approfondimento culturale e di integrazione.

Si tratta dunque di educare ad una «identità chiara e gioiosa» (Evangelii Gaudium n. 251), custodendo le differenze e insegnando a rispettarle. Ultimamente papa Francesco si è espresso su questo tema con parole illuminanti: «Dialogare non significa rinunciare alla propria identità quando si va incontro all’altro… Un incontro in cui ciascuno mettesse da parte ciò in cui crede, fingesse di rinunciare a ciò che gli è più caro, non sarebbe certamente una relazione autentica… Dobbiamo avere il coraggio e la pazienza di venirci incontro l’un l’altro per quello che siamo. Il futuro sta nella convivenza rispettosa delle diversità, non nell’omologazione ad un pensiero unico teoricamente neutrale» (Discorso ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, 28 novembre 2013). Solo su questi presupposti di sincerità e apertura è possibile costruire un dialogo efficace, anche nella scuola.

2/ Inter-cultura a scuola: la religione come dimensione decisiva, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito alcune note scritte da Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)

I atto

Roma. In una classe di scuola media ci sono 19 battezzati e 1 musulmano. Per lo spettacolo natalizio una parte dei docenti si oppone a che si parli del Presepe e dell’Incarnazione per paura di offendere il ragazzo islamico. Ma ecco che un’insegnante di inglese risolve così, con grande buon senso, il problema. È responsabile delle recite della scuola e allora…
Sipario. Compare per primo il giovane musulmano e dice: Mi chiamo Muhamed e non so cosa è il Natale, potreste spiegarmelo per favore voi che siete miei amici? Appaiono in scena i battezzati e recitano il Natale. Ad un certo punto, Muhamed interviene nuovamente, raccontando di alcune feste religiose che egli celebra con la sua famiglia. Poi riprende la narrazione del Presepe. Ecco l’inter-cultura!

II atto

Sardegna. Un gruppo di maestre non vuole che si parli del Natale per paura di violare il principio di laicità a motivo della presenza di un bambino non battezzato in una classe.

Interviene la maestra più semplice e saggia e domanda alle altre: “Voi siete d’accordo che i bambini possano esprimersi liberamente senza costringerli ad una visione particolare?” Tutte rispondono ovviamente che sono d’accordo.
Lei si rivolge allora ai bambini e dice: “Bambini, disegnate cosa è per voi il Natale”.
E i bambini disegnano il bue, l’asinello, gli angeli, la Madonna e san Giuseppe insieme ai propri genitori ed il bambino Gesù
. Lei allora domanda: “Bambini cosa avete disegnato?” E tutti  cominciano a spiegare le diverse figure del Presepe.

Il silenzio sulla dimensione religiosa mortifica lo sviluppo del bambino

Solo seguendo vie analoghe la scuola manifesta il suo potenziale formativo e permette una vera integrazione. Il silenzio sulla religione non facilita l’integrazione, né permette agli studenti di esprimersi pienamente. Infatti ogni uomo, anche il piccolo d’uomo, sente l’esigenza di esprimere ciò in cui crede. L’esigenza religiosa appartiene al bambino fin da piccolo, anche se cresce in una famiglia atea.

Maria Montessori scriveva

«Anche il problema dell’educazione religiosa, la cui importanza ancora non sentiamo pienamente, dovrà essere risolto dalla pedagogia positiva. Se le religioni nacquero insieme alle civiltà, esse ebbero probabilmente radice nell’umana natura. Noi abbiamo assistito allo spettacolo edificante di un istintivo amore alla sapienza dei fanciulli, che avevamo giudicati [per] un pregiudizio dediti ai divertimenti [e] ai giochi vuoti di pensiero. Il fanciullo che disprezza il gioco dinanzi al sapere si è rivelato il vero figlio di quell’umanità che fu attraverso i secoli creatrice della scienza e del progresso civile. Noi avevamo deturpato il figlio dell’uomo relegandolo invece a giocattolo degradante, nell’ozio e nel soffocamento di una disciplina male intesa.
Ora il fanciullo dovrà […], nella sua libertà, rivelarci se l’uomo è veramente in natura la creatura religiosa. Negando a priori il sentimento religioso nell’uomo, e privando l’umanità dell’educazione di questo sentimento, potremmo incorrere in un errore pedagogico, simile a quello che ci faceva a priori negare nel fanciullo l’amore alla conoscenza e al sapere: e che ci spingeva a domarlo nella schiavitù, per renderlo apparentemente disciplinato. Anche affermando che solo l’età adulta è adatta all’educazione religiosa, potremmo incorrere in un profondo errore, quale è quello che ci fa oggi dimenticare l’educazione dei sensi nell’età in cui essi sono educabili, cioè nel bambino; mentre la vita dell’adulto è poi praticamente un’applicazione dei sensi della raccolta di sensazioni nell’ambiente, dal che risulta il fallimento della vita pratica e uno squilibrio che disperde tante forze individuali.
Non per fare un paragone tra l’educazione dei sensi come guida alla vita pratica e l’educazione religiosa come guida alla vita morale, ma, solo per servirmi a scopo illustrativo di un’analogia, noto come spesso nella vita morale si osservano dei fallimenti nei non religiosi e molte forze individuali, che pur riconosciamo preziose, [si disperdono] miseramente. Quanti uomini hanno fatto l’esperienza di ciò! E allorché alcuni hanno la tardiva rivelazione della propria coscienza religiosa nell’età adulta o sotto la squassante esperienza del dolore, la mente è inabile a stabilirsi un equilibrio, perché fu troppo stabilmente formata in un campo privo di spiritualità. Allora vediamo spettacoli egualmente pietosi o di conversioni a un fanatismo di religiosità formale e inferiore o di lotte intime drammatiche tra il sentimento che cerca tra le tempeste l’unico suo porto e la mente che riconduce inesorabilmente la coscienza tra i flutti travolgenti dell’alto mare senza pace. Fenomeni psicologici di altissima importanza; e problemi umani la cui gravità è forse tra tutti gli altri suprema.
Noi siamo ancora in Europa e specialmente, tra le più civili nazioni, in Italia, pieni di pregiudizi e di preconcetti su tale argomento – veri schiavi del pensiero. Noi crediamo che la libertà di coscienza e di pensiero consista nel negare alcuni principi di sentimento – come per esempio quelli religiosi -, mentre la libertà non esiste mai là ove si combatte per soffocare qualche cosa, ma solo dove si lascia l’espansione illimitata alla vita. Chi veramente non crede, non teme ciò che non crede e non combatte ciò che non esiste: e se crede e combatte, allora diviene soldato contro la libertà» (M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, I edizione del 1909, nuova edizione del 1950, pp. 152-153).

Il silenzio sulla dimensione religiosa impedisce l’integrazione

D’altro canto, un bambino non ha alcun problema a convivere in classe con chicchessia, non ha alcun problema che si parli di Dio, anzi lo esige!

Se proprio si volesse decidere di dare segni di attenzione a chi appartiene a religioni diverse, si tratterebbe di vietare piuttosto che i crocifissi, le minigonne, i baci e le scollature in classe. I segni religiosi non scandalizzano gli immigrati che provengono da tradizioni profondamente religiose: li scandalizza piuttosto l’assenza di moralità e fede del razionalismo occidentale.

Proprio il riferimento alla religione divine decisivo per l’incontro con quelle culture per le quali il rapporto con Dio – e conseguentemente con il culto, la ritualità, la morale – è abituale come l’aria che si respir, cioè per le culture dei nuovi immigrati.

L’allora pontefice Benedetto XVI ebbe a dire in un’intervista:  

«Abbiamo il nostro compito di mettere meglio in rilievo ciò che noi vogliamo di positivo. E questo dobbiamo anzitutto farlo nel dialogo con le culture e con le religioni, poiché il continente africano, l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. E’ importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente, ma occorre una razionalità più ampia, che vede Dio in armonia con la ragione, dobbiamo mostrare che la fede cristiana che si è sviluppata in Europa è anche un mezzo per far confluire ragione e cultura e per tenerle insieme in un’unità comprensiva anche dell’agire. In questo senso credo che abbiamo un grande compito, di mostrare cioè che questa Parola, che noi possediamo, non appartiene – per così dire – ai ciarpami della storia, ma è necessaria proprio oggi» (dall’intervista rilasciata da Benedetto XVI a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006).

Papa Francesco gli ha fatto eco affermando: «Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (Evangelii gaudium 200).

Compito della scuola è quello di integrare

Compito della scuola non è vigilare perché di Dio non si parli, quanto piuttosto permettere agli alunni di vivere una vera integrazione inter-culturale, venendo a conoscere la fede cristiana che è una delle radici, insieme alla cultura di stampo illuministico, del paese in cui sono venuti a vivere

Questa conoscenza della religione del paese in cui si vive – senza che essa diventi catechesi, ma nemmeno senza che essa sia ignorata o trattata al pari di religioni lontanissime dal contesto vitale in cui la scuola è situata - è il contesto nel quale ha senso poi che anche i bambini di culture diverse esprimano il loro credo religioso. Una conoscenza serena della fede cristiana permetterà a bambini di culture nelle quali vige un tassativo divieto di conoscere il Vangelo di superare, almeno in forma germinale, tale tabù.

Non si dimentichi poi che la maggioranza degli immigrati in Italia è di fede cristiana – ortodossi dell’Est Europa o cattolici provenienti dall’America Latina o dalle Filippine, ma anche dall’Egitto e dall’Eritrea. L’inter-cultura aiuterà a far comprendere ai giovani alunni come esistano forme diverse di cristianesimo da quello europeo, forme che pure si riconoscono in Cristo, nel suo vangelo e nella Chiesa da lui fondata sugli apostoli.

3/ Approccio relativista, approccio assimilazionista o approccio interculturale? Qual è il giusto atteggiamento per permettere l’integrazione di studenti di diverse culture nella nostra scuola? (dal documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica)

Riprendiamo sul nostro sito alcuni brani del documento Educare al dialogo interculturale nella scuola cattolica. Vivere insieme per una civiltà dell’amore, pubblicato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica il 28/10/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2014)

APPROCCI AL PLURALISMO

Diverse interpretazioni

21. Se il pluralismo è un dato indiscutibile del mondo di oggi, il problema diventa quello di valorizzare il potenziale presente nel dialogo e nell'integrazione fra le diverse culture. La via del dialogo diventa possibile e fruttuosa quando si fonda sulla consapevolezza della dignità di ogni persona e sull'unità di tutti in una comune umanità per condividere e costruire insieme un medesimo destino.[2] D'altra parte, la scelta del dialogo interculturale, resa necessaria nella situazione del mondo attuale e dalla vocazione di ogni cultura, si presenta come un'idea-guida aperta sul futuro, in risposta a diverse interpretazioni del pluralismo avanzate e realizzate in campo sociale, politico e, per quanto di nostro interesse, educativo.

I due principali approcci alla realtà del pluralismo che sono stati messi in atto nel tentativo di dare una risposta, quello relativista e quello assimilazionista, pur presentando aspetti positivi, sono entrambi incompleti.

Approccio relativista

22. Coscienza della relatività delle culture e scelta del relativismo sono due opzioni profondamente diverse. Riconoscere che la realtà è storica e mutevole, non porta necessariamente all'approccio relativista. Il relativismo, invece, rispetta le differenze ma nel contempo le separa nel loro mondo autonomo, considerandole come isolate ed impermeabili e rendendo impossibile il dialogo. La «neutralità» relativista, infatti, sancisce l'assolutezza di ogni cultura nel proprio ambito, impedisce di esercitare un criterio di giudizio metaculturale e di giungere a interpretazioni universalistiche. Tale modello si fonda sul valore della tolleranza, che si limita ad accettare l'altro senza implicare uno scambio e un riconoscimento nella reciproca trasformazione. Una simile idea di tolleranza veicola infatti un significato sostanzialmente passivo del rapporto con chi ha una diversa cultura; non richiede necessariamente che ci si prenda cura dei bisogni e delle sofferenze dell'altro, che si ascoltino le sue ragioni, che ci si confronti con i suoi valori, e, meno ancora, che si sviluppi l'amore per l'altro.

23. Un approccio di questo tipo è alla base del modello politico e sociale del multi-culturalismo, che non presenta soluzioni adeguate alla convivenza e non aiuta il vero dialogo interculturale. «Si nota, in primo luogo, un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente: le culture vengono semplicemente accostate e considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo che non aiuta il vero dialogo interculturale; sul piano sociale il relativismo culturale fa sì che i gruppi culturali si accostino o convivano, ma separati, senza dialogo autentico e, quindi, senza vera integrazione».[3]

Approccio assimilazionista

24. Non è certamente più soddisfacente quello che viene chiamato approccio assimilazionista, caratterizzato non dall'indifferenza verso l'altra cultura, ma dalla pretesa di adattamento. Un esempio di questo approccio si ha quando, in un Paese a forte immigrazione, si accetta la presenza dello straniero solo a condizione che rinunci alla propria identità, alle proprie radici culturali per abbracciare quelle del Paese ospitante. Nei modelli educativi basati sull'assimilazione, l'altro deve abbandonare i suoi riferimenti culturali facendo propri quelli di un altro gruppo o del paese di accoglienza; lo scambio si riduce a mero inserimento delle culture minoritarie con assente o scarsa attenzione alla loro cultura d'origine.

25. A livello più generale l'approccio assimilazionista è messo in atto da parte di una cultura con ambizioni universalistiche che cerca di imporre i propri valori culturali attraverso la propria influenza economica, commerciale, militare, culturale. È qui evidente il pericolo «costituito dall'appiattimento culturale e dall'omologazione dei comportamenti e degli stili di vita».[4]

Approccio interculturale

26. Anche la comunità internazionale riconosce che i tradizionali approcci alla gestione delle differenze culturali nelle nostre società non si sono dimostrati adatti. Ma come superare le barriere di posizioni incapaci di interpretare positivamente la dimensione multiculturale? Scegliere l'ottica del dialogo interculturale significa non limitarsi solo a strategie di inserimento funzionale degli immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale, anche considerando che il problema si pone non solo quando ci sono emergenze migratorie, ma come conseguenza dell'elevata mobilità umana.

27. Infatti, in una significativa prospettiva dell'educazione, «oggi le possibilità di interazione tra le culture sono notevolmente aumentate dando spazio a nuove prospettive di dialogo interculturale, un dialogo che, per essere efficace deve avere come punto di partenza l'intima consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutori».[5] In questa visione la diversità cessa di essere intesa come problema, per farsi risorsa di una comunità caratterizzata dal pluralismo, occasione per aprire l'intero sistema a tutte le differenze, riguardanti la provenienza, il rapporto uomo-donna, il livello sociale, la storia scolastica.

28. Tale approccio si basa su una concezione dinamica della cultura, che evita sia la chiusura sia la manifestazione delle diversità secondo rappresentazioni stereotipate o folkloristiche. Le strategie interculturali sono efficaci quando evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare gli eventuali conflitti. In definitiva, si tratta di costruire un nuovo approccio interculturale orientato a realizzare l'integrazione delle culture nel reciproco riconoscimento.

[…]

ALCUNI FONDAMENTI DELL'INTERCULTURA

L'insegnamento della Chiesa

29. La dimensione interculturale è, in certo modo, parte del patrimonio del cristianesimo, a vocazione «universale». Infatti, nella storia del cristianesimo, si legge un percorso di dialogo con il mondo, alla ricerca di una più intensa fraternità tra gli uomini. La prospettiva interculturale, nella tradizione della Chiesa non si limita a valorizzare le differenze, ma collabora alla costruzione della umana convivenza. Ciò diviene particolarmente necessario all'interno delle società complesse nelle quali occorre superare il rischio del relativismo e dell'appiattimento culturale.

30. La riflessione sulla cultura e sulla sua importanza per il pieno sviluppo delle potenzialità dell'uomo e della donna è stata oggetto di innumerevoli interventi ecclesiali, soprattutto nel Concilio Vaticano II e nel magistero seguente.

Il Concilio Vaticano II, nel considerare l'importanza della cultura, affermava che non si dà esperienza veramente umana senza inserimento in una determinata cultura. Infatti, «è proprio della persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura».[6] Ogni cultura, che comporta una riflessione sul mistero del mondo ed in particolare sul mistero dell'uomo e della donna, è un modo di dare espressione alla dimensione trascendentale della vita. Il significato essenziale della cultura consiste «nel fatto che essa è una caratteristica della vita umana come tale. L'uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche che l'uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da tutto ciò che esiste per altra parte nel mondo visibile: l'uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un modo specifico dell'“esistere” e dell'“essere” dell'uomo. L'uomo vive sempre secondo una cultura che gli è propria, e che, a sua volta, crea fra gli uomini un legame che pure è loro proprio, determinando il carattere inter-umano e sociale dell'esistenza umana».[7]

31. Inoltre, il termine cultura indica tutti quei mezzi con i quali «l'uomo affina e esplica le molteplici sue doti di spirito e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia sia in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano».[8] Quindi sono comprese sia la dimensione soggettiva - comportamenti, valori, tradizioni che ciascuno fa propri - sia quella più oggettiva, cioè le opere dell'uomo e della donna.

32. Conseguentemente «la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e [...] assume spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti, dal diverso modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine le diverse condizioni comuni e le diverse maniere di organizzare i beni della vita. Così dalle usanze tradizionali si forma il patrimonio proprio di ciascuna comunità umana. Così pure si costituisce l'ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, si inserisce, e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà».[9]

Le culture manifestano una loro profonda dinamicità e storicità, per cui subiscono dei cambiamenti nel tempo. Tuttavia, al di sotto delle loro modulazioni più esterne, mostrano significativi elementi comuni. «Le diversità culturali vanno perciò comprese nella fondamentale prospettiva dell'unità del genere umano», alla luce della quale è possibile cogliere il significato profondo delle stesse diversità, al contrario del «radicalizzarsi delle identità culturali che si rendono impermeabili ad ogni benefico influsso esterno».[10]

33. L'interculturalità nasce, quindi, non da un'idea statica della cultura, bensì dalla sua apertura. Ciò che fonda il dialogo tra le culture è soprattutto la potenziale universalità, propria di ogni cultura.[11] Di conseguenza: «il dialogo tra le culture [...] emerge come un'esigenza intrinseca alla natura stessa dell'uomo [nella] consapevolezza che vi sono valori comuni ad ogni cultura, perché radicati nella natura della persona [...]. Occorre coltivare negli animi la consapevolezza di questi valori, per alimentare quell'humus culturale di natura universale che rende possibile lo sviluppo fecondo di un dialogo costruttivo».[12] L'apertura ai valori superiori comuni all'intero genere umano - fondati sulla verità e, comunque, universali, quali giustizia, pace, dignità della persona umana, apertura al trascendente, libertà di coscienza e religione - implica un'idea di cultura intesa come contributo ad una più ampia coscienza dell'umanità, in opposizione alla tendenza presente nella storia delle culture, a costruire mondi particolaristici, chiusi e ripiegati su se stessi.

Note al testo

[1] Mi sottraggo al dibattito sullo jus soli, ma risulta evidente che tali bambini nascono in un contesto culturale e linguistico naturalmente “ibrido”.

[2] Cfr. Consiglio d’Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale «Vivere insieme in pari dignità», Strasburgo (maggio 2008), p. 5: «L'approccio interculturale offre un modello di gestione della diversità culturale aperto sul futuro, proponendo una concezione basata sulla dignità umana di ogni persona (e sull'idea di una umanità comune e di un destino comune)».

[3] Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 26.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 53.

[7] Giovanni Paolo II, Discorso all'UNESCO, Parigi (2 giugno 1980), n. 6.

[8] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 53.

[9] Ibid.

[10] Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace, n. 7 e n. 9.

[11] Commissione Teologica Internazionale, Fede e Inculturazione (8 ottobre 1988), Cap. I Natura, Cultura e Grazia, n. 7.

[12] Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell'amore e della pace, n. 10 e n. 16.