I santi della carità in età barocca. Lezione sulla spiritualità in età barocca tenuta presso la Chiesa di San Pantaleo in Roma
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Presentiamo sul nostro sito il file audio di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la Chiesa di San Pantaleo, il 18/1/2014. Per le ulteriori lezioni del Corso di storia della Chiesa di Roma, vedi le sezioni Roma e le sue basiliche e Audio e video. Sull'arte barocca, vedi la lezione L'età barocca e la fede, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2014)
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Ufficio catechistico di Roma www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )
Santi dell’età barocca
Itinerari di formazione e spiritualità
Viaggio di studio in Grecia (orientativamente 21-30 luglio)
Corso sulla storia della Chiesa di Roma (VII anno): dall’età barocca all’illuminismo
- Sabato 15 febbraio 2014 – ore 9.45-12.00 Santa Maria in Via Lata: Dalla monarchia assoluta all’illuminismo.
- Sabato 12 aprile 2014 – ore 9.45-12.00 Santa Susanna alle Terme di Diocleziano: La nascita degli Stati Uniti
ed il pensiero liberale.
Maestri della catechesi e dell’educazione. Stage su Giovannino Guareschi.
Venerdì 14 (sera) e sabato 15 (mattina) marzo 2014, Pontificio Seminario Romano Maggiore.
Bernini, Borromini e il barocco: la trasmissione della fede nell’arte
- Lunedì 5 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 Santa Maria della Vittoria: Bernini.
- Lunedì 12 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 San Carlino alle Quattro Fontane: Borromini.
- Lunedì 19 maggio 2014 – ore 21.00-22.30 Santi Luca e Martina al Foro Romano: Pietro da Cortona e gli altri.
Materiali disponibili sul canale Youtube Catechistiroma
- CRESIME 3. Gola, astinenza e timor di Dio. I 7 doni dello Spirito Santo, i vizi e le virtù
- PRIME COMUNIONI 3. SPIEGARE AI BAMBINI ADAMO, LA CREAZIONE E I 7 GIORNI
On-line le prime relazioni scritte dello stage su Genesi (Di Segni, Penna, Maspero)
Un’offerta per le fotocopie e per lasciare qualcosa alla chiesa che ci ospita, se possibile!
1/ San Giuseppe Calasanzio (José de Calasanz, da lui mutato in Giuseppe della Madre di Dio, Peralta del Sal in Aragona, 1557 – Roma, 1648)
Dal sito degli Scolopi e da quello della Treccani
Il Calasanzio nel 1597 sentendo compassione per i bambini poveri ed abbandonati che vivevano a Roma, fondò a Trastevere, nella Parrocchia di Santa Dorotea, la "prima scuola pubblica e gratuita d'Europa". Il suo scopo educativo rimase riassunto nel lemma "pietà e lettere" che può tradursi per "fede e cultura". Alla sua opera diede il nome di "Scuole Pie."
Il centro delle sue idee educative vi fu il rispetto per la personalità di ogni bambino e il vedere in loro l'immagine di Cristo. Per mezzo delle sue Scuole Pie, tentò di servire le necessità intellettuali, fisiche e spirituali dei giovani a suo carico. Il Calasanzio fu amico di Galileo, il grande scienziato, e diede grande importanza alle scienze e alla matematica, come all'umanistica, nell'educazione della gioventù.
Per continuare il suo lavoro educativo fondò l'Ordine delle Scuole Pie, un Ordine religioso i cui membri, conosciuti come gli Scolopi, professano quattro voti religiosi solenni: povertà, castità, obbedienza, e dedizione all'educazione della gioventù.
Il sogno e il desiderio di San Giuseppe Calasanzio di educare tutti i bambini, le sue scuole per i poveri, il suo appoggio alla scienza di Galileo, e la sua vita di santità al servizio dei bambini e dei giovani, gli fecero guadagnare l'opposizione di molti nelle classi dirigenti della società e nella gerarchia ecclesiastica. Ma il Calasanzio mostrò una pazienza esemplare di fronte ai problemi.
Questo dono o carisma è stato ricevuto dal Calasanzio, soprattutto come l’accettazione di una nuova missione educativa ed evangelizzatrice alla quale parteciparono i suoi primi compagni. Questo ha dato luogo ad un rapporto particolare e speciale nel condividere il ministero, l’alloggio, la preghiera e tutto ciò che implica la vita comunitaria. Si dice che quando il Calasanzio e un piccolo gruppo di seguaci abbracciarono la vita religiosa, questo consolidò tutto il vissuto fino ad allora. La Chiesa approva la Congregazione nel 1617 e come Ordine con un voto specifico di dedizione per l’educazione della gioventù nel 1622 con il nome di Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie.
Negli anni successivi fino alla morte, il Calasanzio promuove la espansioni del carisma, si prende cura dell’applicazione del dono della fondazione perché sia ben fatta e lo difende sempre di fronte a esperienze o interpretazioni che si allontanano dall’origine.
Fondatore del primo Ordine Religioso dedicato specificamente all’educazione popolare cristiana attraverso la scuola, sempre ha sottolineato tre caratteristiche importanti del carisma presenti fin dal inizio, lo afferma esplicitamente nelle Costituzioni del 1621 e sempre durante gli anni di espansione e anche nei tempi di conflitto: dare la priorità all’educazione fin dalla prima infanzia, l’educazione ai poveri e l’educazione nella pietà.
Intervenne poi una crisi dell’Istituto, derivata dalla vitalità sorprendente, fomentata all'interno dai fratelli laici aspiranti al sacerdozio e all'esterno dall'emulazione e dalle opposizioni, soprattutto dei gesuiti, culminò nella deposizione di G. Calasanzio (1642) e nella dispersione dell'ordine in una semplice società di case indipendenti (1646); ma G. Calasanzio mantenne salda la sua fiducia nell'istituto che doveva presto risorgere.
Morì a Roma il 25 di agosto del 1648. Convinto che il suo ordine ed il suo sogno non sarebbero cessati. E così fu, perché fu dichiarato santo nel 1767, ed il Papa Pio XII lo dichiarò nel 1948 "celestiale patrono di tutte le scuole popolari cristiane".
Recentemente, Papa Giovanni Paolo II affermò che San Giuseppe Calasanzio prese per modello Cristo e cercò di trasmettere ai giovani, oltre alla scienza profana, la saggezza del Vangelo, insegnando loro a cogliere l'azione amorosa di Dio.
I luoghi ed il contesto del Calasanzio a Roma, oltre a Santa Dorotea ed a San Pantaleo
La scuola è così bene accolta, che rapidamente si moltiplica il numero dei bambini che la frequentano. Da circa 40 bambini che c’erano al principio, si passa subito a 100, e in seguito a 500, 700, 800, 1.000 alunni. E il Calasanzio deve affittare nuove case, sempre più grandi e più care: Piazza del Paradiso, Palazzo Vestri, Palazzo Mannini, Palazzo Torres.
In 4 anni, il numero dei religiosi arriva a 77, e le scuole da essi mantenute sono ormai 10. Ma il Calasanzio non è ancora soddisfatto. È tale l’apprezzamento che sente per questo compito di insegnare e educare, che desidera vedere il suo Istituto elevato alla massima categoria all’interno della Chiesa, equiparato agli istituti di vita contemplativa o apostolica, così venerati nel corso della storia della Chiesa. Papa Gregorio XV, nel 1621, dichiara le Scuole Pie Ordine Regolare Mendicante. Il Calasanzio torna a essere nominato Superiore Generale. L’Ordine cresce e si espande a velocità vertiginosa: 300 religiosi, con 21 scuole, nel 1631; nel 1646 il numero dei religiosi supera i 500, lavorando in 37 case, sparse in tutta l’Italia e nell’Europa Centrale.
da Galileo «giullare» umanista. L’altra faccia di una vittima, di Paolo Mieli, dal Corriere della sera del 10/12/2013 (on-line su www.gliscritti.it)
La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture».
Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca - e la circostanza colpisce - di piena Restaurazione.
Heilbron (Galileo. Scienziato e umanista, Einaudi) suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede».
Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa». «Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato chela Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo».
Ma la novità era che di fatto si autorizzavano - pur con le cautele di cui si è detto - la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamentela Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù - fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi – l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso.
La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa.
dal Memoriale di san Giuseppe Calasanzio, sacerdote al Card. M.A. Tonti, 1621 (Ephem. Calas. 36, 9-10: Roma 1967, pp. 473-474; L. Picanyol, Epistolario di san Giuseppe Calasanzio, 9 voll.: ediz. Calas., Roma 1951-1956).
È missione nobilissima e fonte di grandi meriti quella di dedicarsi all'educazione dei fanciulli, specialmente poveri, per aiutarli a conseguire la vita eterna. Chi si fa loro maestro e, attraverso la formazione intellettuale, s'impegna a educarli, soprattutto nella fede e nella pietà, compie in qualche modo verso i fanciulli l'ufficio stesso del loro angelo custode, ed é altamente benemerito del loro sviluppo umano e cristiano. La scuola é un mezzo formativo insostituibile, non solo per preservare i fanciulli dal male, ma soprattutto per indirizzarli efficacemente al bene, qualunque sia la loro condizione familiare o sociale. L'assiduo contatto con l'insegnante può incidere così profondamente sull'animo dei giovani da trasformare del tutto la loro vita. Come teneri virgulti, i giovani si lasciano facilmente volgere dall'educatore nella direzione da lui voluta; ma sarà ben difficile riprenderli e rieducarli, quando avessero preso pericolose deformazioni.
L'accurata educazione dei fanciulli, specialmente poveri, non solo favorisce la loro promozione in senso umano e cristiano, ma é da tutti altamente apprezzata: dai genitori, che hanno la soddisfazione di vedere i loro figli indirizzati sulla via del bene; dalle autorità dello stato, che possono contare su cittadini onesti e sudditi fedeli; dalla Chiesa soprattutto, che acquista in loro dei membri attivi e validi per le varie espressioni del suo apostolato. La missione educatrice richiede molta carità, pazienza a tutta prova, umiltà profonda: ma chi vi consacra la vita, e chiede a Dio di essere fedele al suo impegno educativo, oltre alla gioia di sentirsi scelto come cooperatore della verità, avrà da Dio stesso sostegno e conforto, e riceverà da lui la ricompensa di cui parla il libro santo: «Coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,3).
Tutto questo certamente otterranno coloro che, vincolandosi a questa missione nella donazione piena di una vita consacrata, si sforzano di seguire Cristo e di piacere a lui solo, che ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40).
2/ Basta la Bibbia? I Padri della Chiesa
da Tornare alle origini significa semplicemente tornare alla Scrittura o riscoprire insieme ad essa anche i Padri della Chiesa? J. Ratzinger e il ritorno alle fonti. Appunti di Andrea Lonardo, on-line su www.gliscritti.it (commentando J. Ratzinger, I Padri nella teologia contemporanea, in J. Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca, Milano, 2005, pp. 143-161).
b/ Un abbozzo di risposta: la “paternità” dei padri come interpreti autentici della Scrittura e della rivelazione tutta
Il dilemma posto sui Padri è, in fondo, il grande dilemma della teologia e della fede contemporanee, quello fra la scienza e la fede: sono esse lontane l’una dall’altra o la fede ha bisogno della scienza e la scienza della fede?
«L’interrogativo circa l’attualità dei Padri ci pone dunque di fronte al braccio di ferro della teologia contemporanea impostole dall’essere tesa fra due mondi: quello della fede e quello della scienza. Eppure quanto accade oggi alla teologia non costituisce qualitativamente qualcosa di totalmente nuovo, ma è soltanto un ritorno acuito dell’antico dilemma fra auctoritas e ratio, che ha sempre seguito la sua strada con la gravità che gli è tipica»[2].
Separando Scrittura e Tradizione, Scrittura e Padri, si può arrivare al paradosso di dimenticare che la Tradizione non è altro che interpretazione delle Scritture! La condizione, infatti, che permette un vero amore ai Padri è che essi siano tramite risplendente ad un vero apprezzamento della Scrittura e non dimenticanza di essa:
«Ci si deve infatti domandare innanzitutto se si possa essere testimone della Tradizione in modo diverso da quello di interprete della Scrittura e di ricercatore del suo significato autentico. Forse la saggezza delle formule di Trento e del 1870 si fonda proprio sul far convergere la Tradizione nella spiegazione della Scrittura e nel considerare i Padri come interpreti della Tradizione perché essi sono tramite alla Bibbia»[3].
Se l’esegesi ritiene talvolta di poter fare a meno dei Padri nella comprensione del messaggio biblico, non diversamente avviene dal punto di vista della teologia: anch’essa, infatti, sembra voler qualche volta ridimensionare il ruolo dei Padri:
«L’importanza dei Padri, che dal metodo storico-critico dell’interpretazione della Scrittura abbiamo visto ridotta al minimo, ora è posta in questione anche dal pensiero dogmatico e nel campo della stessa Tradizione»[4].
Questo appare evidente se si considera con attenzione la storia della teologia orientale e la si confronta con quella dell’occidente cristiano:
«Mentre la teologia della Chiesa orientale non cerca altro che essere teologia patristica, l'orientamento della Riforma nei confronti dei Padri è fin dall'inizio discorde ed è rimasto tale fino ad oggi. Melantone ha lottato con vigore per provare che nella Confessio Augustana si riproponeva quell'eredità della Chiesa antica, che era stata tradita dal cattolicesimo medievale. Flaccio Illirico, il primo storico di rilievo della Riforma, lo ha seguito sullo stesso indirizzo, come pure l'opera di Calvino con il suo volgersi ad Agostino in modo radicale. Al contrario la posizione di Lutero nei confronti dei Padri, compreso Agostino, divenne sempre più critica e in lui sembra confermarsi progressivamente la convinzione che il distacco dal Vangelo sia avvenuto molto presto. Basta ricordarne un testo molto indicativo: «Sono convinto di avere io stesso sciupato e perduto molto tempo con Gregorio, Cipriano, Agostino ed Origene. Dato che i Padri ai loro tempi provavano un gusto ed una simpatia straordinari per le allegorie, sono con ciò stesso eliminati e tutti i loro libri diventano bazzecole... La causa di tutto è questa: essi si sono rivolti alle loro incertezze e alle loro proprie convinzioni, non hanno seguito san Paolo che vuole lasciare libertà all'azione interna dello Spirito». A motivo del loro metodo allegorico sembra qui che i Padri siano screditati e il rapporto con loro una perdita di tempo rispetto all'accostamento diretto con la Parola della Scrittura»[5].
D’altro canto l’importanza dei Padri non può dipendere semplicemente dalla loro antichità, perché, da un punto di vista cristiano, antico non vuol dire necessariamente migliore:
«Anche escludendo il fatto che resta difficile dire per quanto tempo nella Chiesa si possa parlare di antichità, s'impone l'interrogativo se per il cristiano il fatto dell'età storica possa essere di per sé un criterio oppure se nella stima per il passato non si ripresenti una categoria fondamentalmente mitica, già espressa in Platone nei concetti di pálai ed arkaîoi, che gli fanno dire degli antichi: «essi erano privilegiati rispetto a noi e stavano più vicino agli dèi». Qui prevale un concetto naturale di antico, per il quale il primitivo in quanto tale è privilegiato, più prossimo al divino. Il passare del tempo sospinge i posteri sempre più lontano dall'origine, cosicché per loro diviene assolutamente necessario custodire l'elemento iniziale che comunica alla loro tarda ora l'annuncio della verità divenuta lontana. Al contrario nell'autocomprensione della teologia cristiana è stata programmatica, attraverso i secoli, una frase quasi incidentale di san Benedetto. Egli dice che sono da chiamare al capitolo monastico sia i giovani che i vecchi, «perché il Signore spesso rivela ad uno più giovane ciò che è meglio». Questo asserto ha reso possibile alla teologia medievale la delimitazione del principio dell'auctoritas e la formulazione dell'attualità della Rivelazione cristiana che non ha solo un pálai, bensì un autentico «oggi» a partire dalla fede nel Pneuma. Certo v'è anche per i cristiani un evento del passato, dell'«antico» che è originario, vincolante, e di conseguenza normativo. Esso però non si definisce in modo naturale, come l'elemento primordiale nel mito, così che quanto più una cosa è antica, tanto più è autentica in sé. Esso si definisce storicamente, è la nuova azione di Dio, che sorpassa ed annulla il mito dell'antico. A ciò si aggiunge la componente di presente già ricordata, la cui unità di tensione con l'origine deve sussistere in modo sempre nuovo. Pertanto è posta una distinzione fondamentale fra concezione mitica di tradizione e concezione cristiano-patristica. Anche se non si deve negare che, malgrado l'opposizione, fra i due esiste una certa analogia. Dobbiamo perciò dire che i Padri non sono ancora definiti semplicemente dal fatto che sono «antichi», e neppure l'essere cronologicamente vicini all'origine del Nuovo Testamento prova abbastanza che essi gli stanno al di dentro. Ed è proprio questo che importa: se la loro primitività cronologica deve avere un significato teologico positivo, questo può derivare soltanto dal fatto che essi in modo speciale appartengono all'evento originario, oppure che gli sono legati in qualche altro modo con una comunanza (Gemeinsamkeit), implicante in sé un significato distinto in senso teologico»[6].
Ci si avvicina, invece, al cuore della questione quando si riflette sul termine stesso di “padre”. Affermare che qualcuno ci è “padre”, implica affermare che noi abbiamo ricevuto la vita dalla sua, che ce ne sentiamo figli. Questo ha una grande rilevanza ecumenica, poiché le diverse comunità cristiane si sono divise esattamente sulla questione di chi siano i “padri” da cui si sente di aver ricevuto la fede evangelica:
«Ora possiamo dire che i Padri sono maestri di teologia della Chiesa non separata, e che la loro teologia è in senso originario «ecumenica», appartenente a tutti. Essi quindi sono «padri» non solo per una parte ma per tutta la Chiesa, indicabili realmente in senso distintivo e peculiare come «padri»»[7].
Saggiamente Ratzinger propone che i Padri siano chiamati tali esattamente perché senza di essi non si sarebbe ciò che noi siamo come figli: esistono figure, infatti, che sono Padri solo di una parte della Chiesa, mentre esistono altri che tutti ritengono essere Padri propri ed, insieme, della fede di tutti:
«Se [alcuni] possono essere padri solo per una parte, non ci si deve indirizzare a quelli che una volta erano padri per tutti e due [oriente ed occidente]?»[8].
c/ Quattro aspetti della "paternità" dei Padri: la determinazione del Canone, il Simbolo di fede come chiave interpretativa delle Scritture, l’elaborazione sorgiva della liturgia come celebrazione della presenza del Dio nel tempo, la fondazione della teologia come espressione della rivelazione stessa
Ratzinger, a questo punto, mostra come concretamente esista questa “paternità” dei Padri che conserva un senso anche a fianco della “paternità” della Sacra Scrittura, di modo che noi possiamo dirci figli di entrambi. Egli suggerisce che si possano paragonare i Padri alla risposta giusta e bella all’appello che la rivelazione rivolge all’uomo: la Rivelazione ed i Padri si appartengono come Parola e risposta alla Parola stessa. Infatti, noi siamo certamente figli della rivelazione, ma anche dei Padri che sono tali perché inaugurano per noi la via della risposta adeguata:
«Questo criterio si può approfondire ulteriormente e completare a livello contenutistico. Il dato concreto, in cui siamo incappati circa il fatto che la Scritturainqualche modo è sempre letta sulla scorta di determinati «padri», ora dev’essere formalizzato in modo più generale, nel senso cioè che Scrittura e Padri appartengono allo stesso ambito come parola e risposta. Certo, l’una non è l’altra, non hanno la stessa valenza e la stessa forza normativa: al primo posto sta la parola ed al secondo la risposta. Il loro ordine non è invertibile, ma entrambe, per quanto diverse e non confondibili tra loro, non sono però neppure separabili. Infatti solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva»[9].
La centralità della risposta dei Padri che, in qualche modo, viene ad appartenere allo stesso fondamento che è la rivelazione attestata dalle Scritture può essere sintetizzata in 4 elementi: la determinazione del Canone, l’elaborazione del Simbolo di fede come chiave interpretativa delle Scritture, la costruzione della liturgia come celebrazione della presenza del Dio rivelato nel tempo, la fondazione della teologia come espressione della rivelazione stessa.
c.1/ La determinazione del Canone delle Scritture
Noi non sapremmo cosa è la Scrittura senza i Padri. Sono stati i Padri ad elaborare, con un processo osmotico compiutosi nella lettura liturgica e nella predicazione, il canone delle Scritture, offrendo a tutte le generazioni successivela Bibbia come libro unitario e definito:
«Il canone della Scrittura risale rispettivamente a loro ed alla Chiesa indivisa che essi rappresentano. È opera loro il fatto che proprio questa letteratura, che oggi chiamiamo «Nuovo Testamento», sia stata raccolta fra una pluralità di testimonianze letterarie in circolazione, e che il canone greco della Bibbia ebraica sia stato ordinato come «Antico Testamento» ed insieme con loro e a partire da loro sia stato compreso come «Sacra Scrittura». La costituzione del canone e della Chiesa primitiva sono un unico e identico processo, varia solo il punto di osservazione. Il diventare «canonico» di un libro si fondava sul fatto di essere letto in Chiesa; ciò significava che le numerose Chiese orientali, nelle quali soprattutto dominavano diverse consuetudini di lettura, alla fine accoglievano unitariamente questo libro nei lezionari liturgici. A sua volta il fatto che un libro veniva accettato ed un altro rifiutato presupponeva una precedente decisione, della cui tensione drammatica possiamo a malapena farci un'idea se da una parte leggiamo i vangeli gnostici, che volevano diventare Scrittura, e dall'altra le opere antignostiche dei Padri, nelle quali oggi ci appare chiaramente delineato lo spartiacque, che a quel tempo attraversava la Chiesa proprio nel suo centro ed era riconosciuto, combattuto e sofferto come tale»[10].
La definizione del Canone non sarebbe mai avvenuta senza il travaglio dei Padri nel rispondere alla rivelazione e nel testimoniarla al mondo:
«Questo significa che il canone in quanto canone sarebbe impensabile senza quella tensione spirituale che percepiamo nella teologia patristica. Il canone poggia su quella tensione spirituale ed accoglierlo implica necessariamente accettare quelle decisioni spirituali di fondo, che lo hanno costituito come tale. Parola e risposta si intrecciano così in modo inseparabile, malgrado per i Padri si tratti precisamente di distinguere la propria risposta dalla parola ricevuta, in opposizione alla confusione delle due, tipica della gnosi, rilevabile nella sua forma più classica nella mescolanza fra tradizione ed interpretazione del cosiddetto Vangelo di Tommaso»[11].
c.2/ La Regula fidei, il Credo
I Padri non solo hanno stabilito per sempre il Canone dei libri ispirati, ma hanno anche sintetizzato nel Simbolo di fede ciò che è più bello, nuovo, originale, salvifico dell’intero messaggio biblico, di modo che il Credo non è altro dalle Scritture, ma ne è la chiave che ne schiude il significato: i Padri hanno così creduto e insegnato che nelle Scritture si rivela il mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito ed il loro disegno di creazione e salvezza, attraverso l’Incarnazione e poi la vita della Chiesa:
«Nella scelta degli scritti che si dovevano riconoscere come Bibbia la Chiesa primitiva ha applicato un criterio che essa stessa chiamò kanòn tês písteos, regula fidei, regula veritatis. Funzione non certo insignificante di questo canone era condurre alla divisione fra scritti falsi ed autentici della Scrittura ed aiutare così la costituzione del canone «della» Scrittura. La «regula» per parte sua si prolunga in diversi simboli conciliari ed extraconciliari in cui ha trovato stesura vincolante la lotta della Chiesa antica per la distinzione della realtà cristiana. In questo senso la Chiesa patristica, oltre alla costituzione del canone, si caratterizza secondariamente come tempo in cui vennero create le professioni di fede basilari per tutta la cristianità. In quanto questi simboli sono usati come preghiera e la cristianità dichiara la propria fede in Gesù come Uomo e Dio e adora Dio come Uno in Tre Persone, quei Padri sono i suoi Padri»[12].
c.3/ La “forma” liturgica
I Pari della Chiesa sono i nostri Padri, i Padri della Chiesa tutta, non solo per aver donato a tutte le generazioni il Canone ed il Simbolo di fede. Essi hanno anche chiarificato, una volta per sempre, l’essenziale della forma liturgica della celebrazione. Nonostante le infinite modulazioni possibili che questa forma può assumere, è evidente che una è la liturgia, nei suoi elementi essenziali. Sono stati i Padri a determinare questa forma che permette ad ogni comunità nel tempo di celebrare la presenza vivente di Cristo nella storia:
«E questo ci induce ad una terza caratteristica: la Chiesa antica ha creato le forme basilari della liturgia cristiana da considerarsi base permanente ed inevitabile punto di riferimento di ogni rinnovamento della liturgia. Il movimento liturgico, che fra le due guerre mondiali ha portato sia la cristianità cattolica sia quella evangelica ad un nuovo modo di sentire l’essenza e la forma della liturgia cristiana, ha trovato le indicazioni decisive nelle grandi liturgie della Chiesa antica»[13].
c.4/ La teologia patristica all’origine della teologia tutta
Infine, sottolinea Ratzinger, i Padri hanno fondato la teologia e – si porrebbe aggiungere – la catechesi. Comprendendo che non si dà opposizione fra ragione e fede, bensì che la fede esige un continuo approfondimento, hanno reso possibile tutto lo sviluppo successivo del pensiero cristiano. Anche in questo senso i Padri sono i nostri Padri:
«I Padri, concependo la fede come una «philosophia» e ponendola sotto il programma del credo ut intelligam, hanno riconosciuto la responsabilità razionale della fede dando così origine alla teologia, come l'abbiamo intesa fino ad oggi, nonostante tutte le divergenze metodologiche nei particolari. Anche questo orientamento verso la responsabilità razionale non è qualcosa di ovvio: era il presupposto per la sopravvivenza del cristianesimo nel mondo antico, e lo è ancora per la sopravvivenza del cristianesimo oggi e domani. Si è spesso biasimato questo «razionalismo» dei Padri, senza per questo potersi sottrarre alla strada iniziata da loro, come ha ben dimostrato Karl Barth nella sua opera così grandiosa di protesta radicale nei confronti di ogni volontà di fondazione razionale, ed insieme piena di sforzo affascinante per la comprensione profonda di ciò che Dio ha rivelato. In questo senso la teologia per il fatto stesso che esiste sarà sempre debitrice verso i Padri ed avrà sempre nuovi motivi per mettersi alla loro scuola»[14].
3/ Basta la Bibbia? I santi
Lumen gentium 50.
La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana coltivò con grande pietà la memoria dei defunti e, «poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti [152] perché siano assolti dai peccati», ha offerto per loro anche suffragi. Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l'effusione del loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli [153] e ha piamente implorato il soccorso della loro intercessione. A questi in breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitata la verginità e la povertà di Cristo [154] e infine altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane [155] e le grazie insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli [156].
Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno [157], potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno [158] verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo di Dio [159]. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio [160], «rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il nostro Redentore e Salvatore » [161]. Infatti ogni nostra vera attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è « la corona di tutti i santi » [162] e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è glorificato [163].
La nostra unione poi con la Chiesaceleste si attua in maniera nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti [164], di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in un'unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi [165].
Benedetto XVI, Esortazione Post-sinodale Verbum Domini
48. L’interpretazione della sacra Scrittura rimarrebbe incompiuta se non si mettesse in ascolto anche di chi ha vissuto veramente la Parola di Dio, ossia i Santi. Infatti, «viva lectio est vita bonorum» (S. Gregorio Magno, Moralia in Job XXIV, VIII, 16: PL 76, 295). L’interpretazione più profonda della Scrittura in effetti viene proprio da coloro che si sono lasciati plasmare dalla Parola di Dio, attraverso l’ascolto, la lettura e la meditazione assidua.ù
Non è certamente un caso che le grandi spiritualità che hanno segnato la storia della Chiesa siano sorte da un esplicito riferimento alla Scrittura. [...]
49. La santità in rapporto alla Parola di Dio si iscrive così, in un certo modo, nella tradizione profetica, in cui la Parola di Dio prende a servizio la vita stessa del profeta. In questo senso la santità nella Chiesa rappresenta un’ermeneutica della Scrittura dalla quale nessuno può prescindere. Lo Spirito Santo che ha ispirato gli autori sacri è lo stesso che anima i Santi a dare la vita per il Vangelo. Mettersi alla loro scuola costituisce una via sicura per intraprendere un’ermeneutica viva ed efficace della Parola di Dio.
da J. Ratzinger–Benedetto XVI, Gesù di Nazaret (Città del Vaticano 2007) 102
I santi sono gli autentici interpreti della Sacra Scrittura. Il significato di un'espressione si rende comprensibile in modo più chiaro proprio nelle persone che ne sono state completamente conquistate e l'hanno realizzata nella propria vita. L’interpretazione della Scrittura non può essere una faccenda puramente accademica e non può essere relegata nell’ambito esclusivamente storico.La Scrittura porta in ogni suo passo un potenziale di futuro che si dischiude solo quando le sue parole vengono vissute e sofferte fino in fondo.
da K. Koch, I santi e la teologia nel pensiero di Joseph Ratzinger/ Benedetto XVI
Ecco perché i santi sono così importanti nella teologia; i santi infatti ci si pongono davanti come “le figure viventi della fede vissuta e corroborata, della trascendenza sperimentata e comprovata” e si presentano come “spazi vitali in cui ci si può introdurre, spazi in cui la fede come esperienza è immagazzinata, preparata antropologicamente e avvicinata alla nostra vita” (J. Kardinal Ratzinger, Glaube und Erfahrung, in: Ders., Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie (München 1982) 359-372, zit. 369).
da J. Kardinal Ratzinger, Auf Christus schauen. Einübung in Glaube, Hoffnung, Liebe (Freiburg i. Br. 1989) 35-36
La teologia diventa un vuoto gioco intellettuale e perde anche il suo carattere scientifico senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà, che è proprio il punto cruciale.
da J. Ratzinger, Aggiornamento, in: Ders., ebda. (a. a. O. Anm. 51) 107-1086, zit. 1080
I Santi misura dell’aggiornamento... “Lo sono perché hanno portato il peso dell’oggi, lo hanno preso su di sé, non lo hanno evitato, ma hanno vissuto e sofferto come credenti. In tal modo, sono diventati coloro che hanno trasformato il Vangelo nell’oggi e l’oggi nel Vangelo”.
da Joseph Ratzinger, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo. Un colloquio con Peter Seewald (Milano 2005) 305
Il Concilio di Trento fu importante, ma poté avere successo come riforma cattolica, solo perché ci furono santi come Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo e molti altri, che di fatto furono profondamente colpiti dalla fede, la vissero con originalità, alla loro maniera e seppero incarnarla in forme grazie alle quali furono possibili anche le riforme allora necessarie per la santità della Chiesa.
da J. Cardinale Ratzinger, Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il Cardinale Joseph Ratzinger, Milano, 1985, 123-124
Il Signore è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella dell’arte esplose dentro la comunità credente, più che dalle astute scappatoie che l’apologetica ha elaborato per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della Chiesa.
da J. Ratzinger, Europa in der Krise der Kulturen, in: M. Pera / J. Ratzinger, Ohne Wurzeln. Der Relativismus und die Krise der europäischen Kultur (Augsburg 2005) 62-84, zit. 83
Abbiamo bisogno di uomini la cui mente sia illuminata dalla luce di Dio ed il cui cuore sia stato aperto da Dio, così che la loro mente possa parlare alla mente degli altri ed il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può ritornare a noi uomini.
da PAPA FRANCESCO, ANGELUS nella SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI, 1° novembre 2013
La festa di Tutti i Santi, che oggi celebriamo, ci ricorda che il traguardo della nostra esistenza non è la morte, è il Paradiso! Lo scrive l’apostolo Giovanni: «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2). I Santi, gli amici di Dio, ci assicurano che questa promessa non delude. Nella loro esistenza terrena, infatti, hanno vissuto in comunione profonda con Dio. Nel volto dei fratelli più piccoli e disprezzati hanno veduto il volto di Dio, e ora lo contemplano faccia a faccia nella sua bellezza gloriosa.
I Santi non sono superuomini, né sono nati perfetti. Sono come noi, come ognuno di noi, sono persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze. Ma cosa ha cambiato la loro vita? Quando hanno conosciuto l’amore di Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni e ipocrisie; hanno speso la loro vita al servizio degli altri, hanno sopportato sofferenze e avversità senza odiare e rispondendo al male con il bene, diffondendo gioia e pace. Questa è la vita dei Santi: persone che per amore di Dio nella loro vita non hanno posto condizioni a Lui; non sono stati ipocriti; hanno speso la loro vita al servizio degli altri per servire il prossimo; hanno sofferto tante avversità, ma senza odiare. I Santi non hanno mai odiato. Capite bene questo: l’amore è di Dio, ma l’odio da chi viene? L’odio non viene da Dio, ma dal diavolo! E i Santi si sono allontanati dal diavolo; i Santi sono uomini e donne che hanno la gioia nel cuore e la trasmettono agli altri. Mai odiare, ma servire gli altri, i più bisognosi; pregare e vivere nella gioia; questa è la strada della santità!
Essere santi non è un privilegio di pochi, come se qualcuno avesse avuto una grossa eredità; tutti noi nel Battesimo abbiamo l’eredità di poter diventare santi. [...]
4/ Basta San Francesco d’Assisi? La pluralità dei santi
da Perché San Francesco d’Assisi è stato un cristiano e non Gesù Cristo un francescano: una questione importante per orientarsi nella fede cristiana, di Andrea Lonardo, on-line su www.gliscritti.it
Chesterton come Vauchez al termine del suo scritto[7], pone una questione straordinariamente semplice, domandandosi se con Francesco era nata una nuova religione e se egli doveva essere considerato letteralmente un altro Cristo, cioè qualcuno che poteva pretendere di essere seguito esattamente come il Cristo aveva preteso di essere seguito. Se questa fosse stata l’interpretazione corretta del messaggio di Francesco, da quel momento in poi non avrebbero potuto esserci nella chiesa altro che francescani e tutti avrebbero dovuto o seguire il santo di Assisi o rinunciare al titolo di “cristiani”[8]:
«Riuscirà molto difficile, al candido osservatore benpensante, negare che il papa aveva ragione quando insisteva nel dire che il mondo non era fatto per soli francescani. In questo consisteva il problema della disputa. Ma c’era qualcosa di più ampio e importante che andava al di là di questo aspetto particolare e pratico. Mi riferisco a quell’agitazione di cui ci accorgiamo leggendo la controversia.
Penso di essere nel vero, riassumendo così la questione. San Francesco era un uomo così grande e originale che aveva in sé qualche cosa della sostanza che forma il Fondatore di una religione. Parecchi dei suoi seguaci erano più o meno pronti, nei loro animi, a trattarlo come tale. Essi desideravano far sì che lo spirito francescano si sottraesse al cristianesimo, come un tempo lo spirito cristiano aveva eclissato quello di Israele. Francesco, quel fuoco che correva attraverso le contrade d’Italia, doveva essere l’iniziatore di una conflagrazione nella quale si sarebbe consumata l’antica civiltà cristiana».
Se tutti avessero dovuto, per essere cristiani, vivere come Francesco non sarebbero potute sorgere successivamente figure come quella di Dante o comunque queste non avrebbero potuto meritare il titolo di “cristiane”[9]:
«Ho già notato che nel primo poeta italiano [Francesco d’Assisi] non c’è traccia di tutta quella mitologia pagana che seguì a lungo, anche dopo il paganesimo. Il primo poeta italiano sembra non aver mai udito Virgilio. È in questo senso speciale che egli è poeta. È perfettamente giusto che chiamasse usignolo un usignolo, il cui canto non era corrotto o rattristato come nei terribili racconti di Itilo o Procne. In breve, è perfettamente giusto e quasi desiderabile che San Francesco non conosca Virgilio.
Ma vorremmo davvero che Dante non conoscesse Virgilio? O che Dante non avesse mai letto una mitologia pagana? È stato detto che l’uso di queste favole, fatto da Dante, è parte di una più profonda ortodossia; che le gigantesche figure di Minosse e Caronte sono allegorie di un’enorme religione naturale, che serpeggia in tutta la storia e simboleggia la fede.
Va bene citare Sibilla, come Davide nel Dies irae, ma è pur vero che San Francesco avrebbe bruciato tutti i fogli di tutti i libri della Sibilla, in cambio di una foglia fresca dell’albero più vicino. E questo è tipico di San Francesco. Ma è bene avere tanto il Dies irae quanto il Cantico di frate sole».
Chesterton ritiene a ragione che la sapienza della chiesa, allora come oggi, seppe mostrare che esistevano diversi modi di vivere il cristianesimo – come , ad esempio, quello di Francesco e quello di Dante - in una relazione tale da non escludersi a vicenda[10]:
«Nella Chiesa del Signore ci sono diverse magioni. Ogni eresia è stato uno sforzo per rimpicciolire la Chiesa. Se il movimento francescano si fosse risolto in una nuova religione, questa sarebbe stata, dopo tutto, una religione meschina. E se degenerò, qua e là, in una quasi eresia, fu certamente una meschina eresia. Produsse ciò che l’eresia poteva produrre: oppose gli eccessi del sentimento francescano al vero spirito di Dio. ù
Quel sentimento, in origine, era quello buono e glorioso di San Francesco, ma quando non si ispirò più al vero spirito di Dio, degenerò in monomania. Sorse così la setta dei Fraticelli. Costoro si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alla condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano «il programma completo di Assisi».
In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco.
Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini. E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola.
Per quanto San Francesco possa sembrare impetuoso e romantico nella sua evoluzione, c’è comunque sempre un legame invisibile e indistruttibile che lo tiene avvinto alla ragione. Il grande Santo era sano e lo stesso suono della parola «sanità», simile al vibrare profondo di una corda dell’arpa, ci riporta a qualcosa di molto profondo in lui che sembrò quasi eccentrico.
Ma non fu un eccentrico, perché si girava sempre al centro e al cuore di ogni labirinto; attraversava con i più bizzarri zigzag i sentieri più brevi del bosco, ma dirigendosi sempre verso casa. Era non solo troppo umile per essere un eresiarca, ma troppo umano per essere un estremista nel senso di poter fuggire ai confini della terra. Quel sense of humour che si rivela nei racconti delle sue impetuose avventure, non permise l’irrigidirsi nella solennità dell’auto-giustizia del settario».
Chesterton ricorda anche come ogni esistenza cristiana si caratterizza non per una sopravvalutazione di se stessa, bensì per quello spirito di lode e di ringraziamento che permette di cogliere l’ampiezza dell’opera di Dio[11]:
«[Francesco] fu soprattutto un grande donatore, che ideò il miglior modo di donare, detto «ringraziamento». Se un altro grande uomo[12] scrisse una grammatica del consenso, di Francesco si può dire che scrisse una grammatica della gratitudine, perché comprese, in tutta la sua profondità, la teoria del ringraziare; e quella profondità è un abisso senza fondo.
Egli seppe che la gloria di Dio è posata sul suolo più forte quando appoggia sul nulla. E seppe anche che noi possiamo valutare meglio il grande miracolo della nostra semplice esistenza, se riusciamo a comprendere che è solo una straordinaria grazia, che ci ha fatto esistere. E qualche cosa di quella più grande verità è ripetuta, in forma più piccola, nei nostri rapporti con un così potente costruttore di storia.
Anch’egli ci ha donato dei premi che non avremmo neppure immaginato di potere avere, ed è stato così grande che non possiamo dargli nient’altro che la nostra gratitudine. [...] E chiunque riconosca il valore della sua ispirazione e ricordi, della sua storia, anche solo qualche aneddoto incompleto, sentirà dentro di sé almeno un poco di quel senso di impotenza che costituì gran parte del suo potere; e capirà, almeno in parte, ciò che San Francesco capì di quel debito, grande e buono, che non può essere mai pagato. Avvertirà il desiderio di voler fare infinitamente di più e, al tempo stesso, il vuoto di non aver fatto nulla.
Saprà cosa significa essere inondati da un tale diluvio di meraviglie e non avere nulla con cui ricambiarlo; nulla da appendere alle immense volte di un tempio così ampio, che è stato eretto nel tempo e nell’eternità, tranne questa piccola candela consumata tanto rapidamente al suo altare».
Dell’inopportunità di erigere la propria esistenza a norma della vita di ogni credente doveva essere consapevole lo stesso Francesco che non volle che gli sposati o i mercanti lo seguissero nella via della castità e della rinuncia ad ogni bene materiale. La stessa fondazione del Terz’ordine francescano – è di relativa importanza la questione se Francesco stesso ne sia stato l’iniziatore materiale o se esso sia nato immediatamente dopo su sua ispirazione – mostra la consapevolezza della prima generazione francescana che le beatitudini dovevano essere vissute con specificità diverse nel caso di laici sposati o di ecclesiastici con incarichi specifici o piuttosto nel caso di fratelli consacrati nell’ordine francescano stesso tramite i voti, come ha recentemente ricordato Joseph Ratzinger - Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[13]:
«L’interpretazione della Scrittura non può essere una faccenda puramente accademica e non può essere relegata nell’ambito esclusivamente storico. La Scrittura porta in ogni suo passo un potenziale di futuro che si dischiude solo quando le sue parole vengono vissute e sofferte fino in fondo. Francesco d’Assisi ha colto la promessa di questa Beatitudine [beati i poveri in spirito] nella sua radicalità estrema – fino al punto di dare via anche il proprio vestito e farsene dare uno dal Vescovo, rappresentante della bontà paterna di Dio, che veste i gigli del campo meglio di come vestiva Salomone (cfr. Mt 6,28s). Per Francesco questa umiltà estrema significava soprattutto libertà di servire, libertà per la missione, estrema fiducia in Dio che non provvede solo ai fiori del campo, ma si prende cura proprio dei suoi figli; significava un correttivo alla Chiesa del suo tempo che con il sistema feudale aveva perso la libertà e la dinamica dello slancio missionario; significava un’intima apertura a Cristo a cui, mediante lo strazio delle stigmate, veniva totalmente conformato cosicché ora egli veramente non viveva più se stesso, ma, in quanto persona rinata, esisteva completamente da Cristo e in Cristo. Francesco non aveva intenzione di fondare un Ordine religioso, ma voleva semplicemente radunare di nuovo il popolo di Dio per un ascolto della Parola che non si sottraesse con dotti commenti alla serietà della chiamata. Tuttavia, con la fondazione del Terz’ordine ha poi accettato la distinzione tra l’impegno radicale e la necessità di vivere nel mondo. Terz’ordine significa accettare in umiltà proprio il compito della professione secolare e delle sue esigenze, laddove ci si trova, ma vivere nello stesso tempo protesi verso la profonda comunione interiore con Cristo, nella quale il santo di Assisi ci ha preceduti. «Avere come se non si avesse» (cfr. 1 Cor 7,29ss): apprendere questa tensione interiore come la sfida forse più difficile e poterla veramente vivere in modo sempre nuovo, sostenuti in ciò da coloro che hanno scelto di seguire Cristo in modo radicale – è questo il senso dei Terz’ordini e in ciò si rivela che cosa può significare la Beatitudine per tutti. Soprattutto diventa anche evidente in Francesco che cosa vuol dire «regno di Dio». Francesco era collocato totalmente dentro la Chiesa e, d’altra parte, in figure come lui la Chiesa si protende verso la sua meta futura, ma già presente: il regno di Dio si avvicina».
L’esperienza francescana illumina così e specifica anche il ruolo dei nuovi movimenti e delle nuove comunità dopo il Concilio Vaticano II: la santità di un fondatore di una determinata realtà ecclesiale ed anche i frutti manifesti che lo Spirito dona alla chiesa tramite quella stessa comunità non implica assolutamente che tutti i credenti debbano assoggettarsi a quella forma poiché nessuna forma concreta di vivere il Vangelo può pretendere lo stesso posto del Vangelo stesso.
da Benedetto XVI, Angelus per la Solennità di Tutti i Santi, il 1 novembre 2008.
Davanti alla comunione dei santi, il mondo ci appare “come un giardino, dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di santi e sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua,
popolo e cultura”
5/ San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac
dalla Vita di San Vincenzo de’ Paoli di Antonio Maria Sicari, pp. 23-25
Possiamo descrivere la situazione servendoci di una lettera che proprio san Vincenzo de' Paoli scrisse a Papa Innocenzo X per chiedergli di intervenire a placare quelle laceranti discordie:
«Oserò esporle lo stato miserabile e certamente degnissimo di pietà della nostra Francia? La casa reale divisa da dissensi; il popolo scisso in opposti partiti; le città e le province rovinate dalle guerre civili; le borgate, i villaggi e i castelli abbattuti, rovinati e bruciati; i contadini messi nell'impossibilità di raccogliere quello che hanno seminato e di seminare negli anni futuri. I soldati si permettono impunemente tutte le angherie. Il popolo è esposto non solamente alle rapine e al brigantaggio, ma anche agli assassinii e a ogni sorta di torture da parte dei soldati: i contadini sono torturati o messi a morte; le vergini sono da essi disonorate; le religiose stesse esposte al loro libertinaggio e al loro furore; le chiese profanate, saccheggiate, distrutte; quelle rimaste in piedi sono per lo più abbandonate dai loro pastori, e quindi il popolo è quasi privo dei sacramenti... È poco udire o leggere queste cose, bisogna vederle e constatarle con i propri occhi».
La Chiesa non sembrava in grado di opporre la sua forza umana e spirituale a tanto sfacelo.
I decreti di riforma del Concilio di Trento erano rimasti quasi lettera morta: molte sedi episcopali restavano ancora in mano a famiglie nobiliari che se le tramandavano come eredità e senza alcuna preoccupazione d'ordine spirituale.
D'altra parte la designazione dei candidati all'episcopato spettava al consiglio reale che se ne serviva spesso come riserva di favori e di contrattazioni.
Quando Vincenzo de' Paoli sarà chiamato a intervenire autorevolmente proprio in questo settore dirà con amarezza e forza: «Temo che questo dannato traffico di vescovi attiri la maledizione di Dio su questo regno!».
La situazione del clero era ancora più preoccupante: dove non c'era immoralità, c'era una invincibile pigrizia e una ignoranza al limite del credibile: certi preti non sapevano nemmeno leggere e scrivere, altri non sapevano come celebrare i sacramenti.
Lo stesso Vincenzo de' Paoli raccontava d'aver conosciuto un prete che, dopo aver ascoltato la confessione, biascicava qualcosa perché non sapeva la formula dell'assoluzione e un altro che per ogni circostanza recitava l'Ave Maria, l'unica preghiera che conoscesse.
Conventi e monasteri erano spesso appesantiti da abituali inosservanze, da tradizioni corrotte e comportamenti riprovevoli.
Molte cose si spiegano sapendo che allora i nobili - per usare la colorita espressione di uno storico - «affidavano alla Chiesa i figli e le figlie in soprannumero che occorreva in qualche modo collocare decorosamente». (Siamo nello stesso tempo descritto dal Manzoni).
D'altra parte, a molti giovani di bassa condizione socialela Chiesaappariva come l'unico varco possibile per uscire in qualche modo dalla miseria e dal triste anonimato.
Così molti, quasi ragazzi, assolutamente privi della benché minima vocazione, si facevano consacrare preti da vescovi compiacenti.
Lo stesso Vincenzo de’ Paoli divenne prete probabilmente a diciotto anni, ordinato irregolarmente da un vescovo vecchissimo e quasi cieco.
p. 26
Vincenzo se ne andò dunque intestardito a dimenticare le sue origini e a farsi strada. Un giorno che il papà si presentò al collegio dove studiava il figlio, per una rara visita, il ragazzo si rifiutò sdegnosamente di scendere in parlatorio perché si vergognava che i compagni lo vedessero trattare con un poveraccio.
Divenuto ormai vecchio e santo, non riuscirà a dimenticarsene e piangendo racconterà lui stesso più volte l'episodio: «Io non volli andare a parlargli e commisi perciò un grande peccato». Allora sarà divenuto il prete più stimato e ricercato di Francia, ma a chiunque egli si premurerà di rivelare: «Non sono che un povero contadino e sono stato guardiano di porci. Mia madre faceva la serva».
Prima però di incontrare con amore e fierezza la povertà di Cristo e la sua stessa povertà, Vincenzo si lascerà irretire - come lui stesso dirà poi - in una «tela di ragno» fatta di ambizioni e di furbizie, pur di costruirsi una promettente carriera.
Dopo quella discutibile ordinazione sacerdotale di cui abbiamo parlato, c'è nella sua vita un periodo oscuro con strane avventure. Lo ritroviamo infine, chissà come, al seguito del Legato pontificio che lo conduce con sé a Roma, il centro della cristianità, di cui egli percepisce soprattutto l'importanza strategica.
A Roma infatti conosce l'ambasciatore di Francia e con lui torna a Parigi, dopo qualche anno, in buona confidenza, tanto da ottenere le credenziali per avere una udienza dal re Enrico IV. Così riuscì finalmente a farsi assegnare un piccolo beneficio ecclesiastico.
pp. 26-27
Proprio qui il Signore lo attese. I cappellani ricevevano a volte delle elargizioni o delle dotazioni a scopo di carità: ed ecco che un giorno qualcuno depositò nelle mani di Vincenzo la somma per lui favolosa di 15 mila lire-oro, corrispondente a parecchi milioni di oggi.
Che cosa accadde nel suo cuore di povero che sognava di maneggiare denaro e che pure manteneva una sua irriducibile inclinazione alla solidarietà tra i poveri? Non lo sappiamo. Sappiamo però che il giorno dopo il Signor Vincenzo si presentava al vicino Ospedale dei Fatebenefratelli e lasciava, ai malati e agli invalidi, l'intera somma.
Non fu certo l'unico «sì» che Vincenzo disse al suo Dio, ma fu il sì più espressivo: quello con cui Vincenzo accoglieva una vocazione che gli era riservata da tutta l'eternità.
Comprese di dover anzitutto diventare veramente un prete: si mise sotto la direzione spirituale di de Bérulle e costui lo spinse a impegnarsi generosamente nel ministero sacerdotale, facendogli assegnare una parrocchia alla periferia di Parigi. E per la prima volta, donandosi ai suoi poveri parrocchiani, Vincenzo conobbe cosa fosse la felicità.
«Sono felice – scriveva - perché ho attorno a me un popolo tanto buono, tanto obbediente a quello che gli dico... Neppure il Papa è felice quanto me!».
p. 28
Un giorno egli sta per iniziare la Messadomenicale, ed ecco vengono a dirgli che, in un casolare sperduto, un'intera famiglia se ne muore nella più assoluta indigenza: si sono ammalati tutti gravemente e nessuno riesce a dare aiuto all'altro.
Vincenzo sale sul pulpito e racconta: e affida al cuore dei suoi cristiani quella famiglia abbandonata. Ma ecco quello che accadde, raccontato con un certo umorismo da Vincenzo stesso, che aveva potuto muoversi personalmente solo al pomeriggio: «Dopo Vespro, presi con me un brav'uomo, un borghese della città, e ci mettemmo in cammino per andare a trovare quei poveretti. Lungo la strada, incontrammo delle donne che ci avevano preceduti e un po' più avanti altre che tornavano indietro. E siccome era estate e faceva caldo, quelle buone donne si sedevano lungo la strada per riposarsi e rinfrescarsi: ce n'erano tante che avreste detto che era una processione».
C'era da commuoversi, ma Vincenzo si irritò anche un po': la carità era grande, ma non era organizzata. A tutta quella abbondanza - di cibo e di aiuti - sarebbero succeduti ben presto giorni di trascuratezza e di privazioni.
Così egli decise di riunire tutte le sue «signore» in associazione. Diede loro una regola che, secondo gli storici, era «un piccolo capolavoro di organizzazione e di tenerezza», nella quale era previsto tutto: come accostare la famiglia bisognosa, come e con quale ordine garantire un servizio a rotazione, come procurarsi gli aiuti necessari e tenerne la contabilità, come servire gli ammalati per amore di Gesù, come dar loro da mangiare, come utilizzare intelligentemente il tempo disponibile...
Chiamò questa prima associazione laicale (in anticipo di secoli su certe realizzazioni di oggi!) con un nome cristianamente bruciante: «Carità».
p. 29
Ma intanto i de Gondi premevano per riavere il loro precettore: intervenne l'arcivescovo di Parigi, intervenne nuovamente il de Bérulle, intervennero altre personalità del regno, e Vincenzo dovette cedere: voleva stare coi poveri e doveva abitare coi ricchi. E paradossalmente proprio da qui passava la sua missione.
Nella casa dei ricchi, egli imparò a diventare responsabile dei poveri. Gli avvenne intanto di poter incontrare Francesco di Sales e, dalla amicizia con questo santo, portò con sé per tutta la vita l'immagine e il desiderio di una santità piena di pace, di cortesia, di energia, di forza indistruttibile ma dolce.
Aveva ormai più di quarant'anni e un'unica decisione in cuore: fare la volontà di Dio e non essere impaziente davanti al progressivo manifestarsi di questa volontà: «le opere di Dio non si fanno quando lo desideriamo noi – diceva - ma quando piace a Lui. Non bisogna saltare avanti alla provvidenza».
pp. 29-30
Divenne abile a utilizzare tutto - amicizie con nobili e regnanti, leggi dello stato e libere elargizioni, acquisto e riadattamento di immobili - per obbedire alla vocazione che Dio gli aveva assegnato.
Ecco come lo descrisse uno storico:
«Sottomesso alle circostanze, adattandosi agli ambienti nei quali lavora, cavando sempre il maggior profitto dagli uomini e dalle circostanze; è esatto, prudente, previdente; sa che non si è mai così bene aiutati da Dio come quando ci si aiuta da sé. Cura con lo stesso ordine rigoroso tutti gli interessi, grandi e piccoli che siano. S'impone e impone regole che non lasciano nessuno alla sprovvista. Si vieta e vieta agli altri i rischi inutili, le imprese mal preparate, in cui troppo spesso accade che falliscano le generose imprese religiose. Come un vero capo ha, ad un tempo, il senso delle grandi sintesi d'insieme e dei particolari che bisogna controllare».
Anzitutto - la prima grande opera - sono quegli amici, meglio quei figli e figlie, che Dio gli dona perché partecipino al suo carisma, perché «si muovano» nella terra di Francia e poi in tutto il mondo per rivitalizzarela Chiesa.
La Francia può allora dirsi scristianizzata, attaccata contemporaneamente da tre nemici: il protestantesimo serpeggiante (le «guerre di religione» non sono ancora concluse!), l'ignoranza religiosa largamente stagnante, e - tra i fedeli più fervorosi - il nascente giansenismo (rigorismo teologico e morale) ancor più grave perché va a intaccare le forze vive della Chiesa, gettandole in un moralismo tragico.
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«Io», diceva Vincenzo, «facevo dappertutto una sola predica che voltavo e giravo in mille modi: la predica del timore di Dio..., e Dio intanto faceva quello che aveva previsto da tutta l'eternità: benediceva il nostro lavoro».
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Alla morte di Vincenzo saranno state predicate 840 missioni e il santo avrà a disposizione 25 case, 131 preti, 44 chierici e 52 coadiutori. Ma questo non bastava, si trattava anche di scuotere gli altri preti e di formarli; e così Vincenzo - in un tempo in cui non si era ancora riusciti a creare dei seminari - iniziò dapprima l'opera degli Esercizi per Ordinandi che i suoi preti predicavano nelle varie diocesi, compensando spesso, con alcuni giorni di intensa formazione ascetica e teologica, la mancata preparazione di coloro che dovevano essere ordinati sacerdoti. Per dare a questi inizi una certa continuità, Vincenzo stesso si impegnò nelle Conferenze del Martedì che egli personalmente tenne per tutta la vita, tutte le settimane, quasi senza interruzione; conferenze nelle quali raccoglieva i preti che lo desideravano. E da questa libera scuola verranno tutti i migliori preti di Francia (tra cui anche il Bossuet che disse poi: «Sembrava che Dio si esprimesse per bocca sua!»). Si giunse infine (per la prima volta da quando quasi un secolo prima il Concilio di Trento li aveva raccomandati) alla fondazione del Grande e del Piccolo Seminario.
Le figlie di san Vincenzo invece furono all'inizio delle signore della nobiltà o della borghesia e si chiamavano «Dame della Carità». Vincenzo ne aggregò attorno a sé un numero notevolissimo: da esse riceveva tutti gli aiuti economici di cui aveva bisogno, e ad esse chiedeva tutta quella «carità» anche operativa di cui esse erano capaci, ben sapendo tuttavia che la società del tempo non permetteva loro l'esercizio di tutto quel lavoro manuale di cui i poveri avevano vera urgenza. Né Vincenzo sdegnava il fatto che nascesse anche qua e là una certa «moda della carità».
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Verso la fine del 1624 una giovane vedova di trentatré anni, di famiglia nobile, si presentava a Vincenzo per chiedergli la sua direzione spirituale: veniva controvoglia. Era stata tra le penitenti di san Francesco di Sales fino alla morte di lui, ma non aveva trovato la pace. Era una creatura tormentata, piena di angosce e di dubbi, con alle spalle un'esistenza problematica. Neppure il santo vescovo di Ginevra era riuscito a pacificarla, e ora Francesco di Sales era morto, e le veniva indicato quel «povero pretino tozzo, un contadino con degli occhi penetranti, vestito troppo poveramente». Luisa de Marillac - vedova Le Gras - aveva provato un senso di ripugnanza, ma aveva obbedito.
Neppure Vincenzo voleva saperne di guidare spiritualmente una nobildonna piena di problemi psicologici, ma non seppe rifiutare.
La annoverò tra le sue dame di carità e la osservò attentamente, senza parere. Ed ecco che scoprì qualcosa di strano: quella donna piena di rigidezze e di angosce spirituali, e dal sistema nervoso scosso, quando è a contatto coi poveri diventa dolce, tenera come una madre, serena. Allora Vincenzo puntò su questo tutta la sua attività di direzione spirituale e le insegnò a «dilatare il cuore prendendo su di sé il fardello degli altri».
Fino a quel tempo, nella Chiesa, una donna che voleva consacrarsi a Dio aveva una sola strada aperta davanti a sé: la vita monastica di religiose consacrate, con la sua clausura, le sue grate, l'abito religioso, i chiostri, le lunghe preghiere.
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Eppure Vincenzo riuscì in ciò che nessuno era riuscito a realizzare: assieme a Luisa de Marillac radunò alcune ragazze del popolo che intendevano consacrarsi al Signore, pur restando nel mondo, a completo servizio dei poveri e dei derelitti: nacquero così «le figlie della carità» che vennero chiamate popolarmente le «suore grigie».
Sono celebri - per il cambiamento epocale che esse significano - le parole con cui Vincenzo delineò la loro nuova e allora inaudita struttura giuridica: «Esse avranno per monastero le case degli ammalati e quella dove risiede la superiora. Per cella, una camera d'affitto. Per cappella, la chiesa parrocchiale. Per chiostro, le strade della città. Per clausura, l'obbedienza. Per grata, il timor di Dio. Per velo, la santa modestia. Per professione, la confidenza costante nella divina Provvidenza e l'offerta di tutto il loro essere».
Anche san Vincenzo e santa Luisa dovranno poi parzialmente istituzionalizzare le loro «suore», ma essi han posto l'inizio non solo di tutte le congregazioni moderne di vita attiva, apostolica, ma anche di tutti i moderni Istituti secolari e delle «associazioni laicali» di vergini, che oggi nascono all'interno dei «movimenti».
Anticipiamo soltanto un giudizio assai significativo: si racconta che un giorno Napoleone si trovò ad ascoltare un gruppo di filosofi che ragionavano su come l'Illuminismo avesse prodotto un vero atteggiamento filantropico. L'imperatore si mostrava sempre più infastidito finché a un certo punto sbottò: «Tutto questo è bello e buono, ma fatemi una suora grigia!».
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Le religiose incaricate della gestione dell'ospedale erano appunto (ecco il paradosso di cui parlavamo!) di clausura e dovevano dirigere a «distanza». Si era tentato di mobilitare tutte le comunità religiose maschili di Parigi senza molto successo.
Vincenzo dapprima vi inviò centinaia di Dame della carità (fino a 620, compresa la regina) per un servizio organizzato ma temporaneo, a turni, poi aggregò stabilmente all'ospedale le sue «figlie della carità» che cominciarono a gestirlo totalmente dal di dentro.
Come se non bastasse, diede contemporaneamente inizio all'Opera dei bambini trovatelli: ogni anno sono centinaia nella sola Parigi i bambini che vengono abbandonati per miseria o per colpa sulle porte delle chiese o alla Couche, una istituzione ufficiale che, priva di grandi mezzi, gestisce l'emergenza in modo abominevole. Le assistenti usano dare ai piccoli pillole di laudano o un po' d'alcol per farli dormire. A parte quelli che comunque muoiono o vengono lasciati morire, ci sono molti che vengono venduti.
Scrive Vincenzo: «Li vendevano per otto soldi ai mendicanti che rompevano loro le braccia e le gambe per eccitare la gente alla pietà e li lasciavano poi morire di fame»
Se nel 1638 le suore grigie possono raccogliere 12 bambini, essi saranno 820 nel 1647. E l'opera sarà così gravosa che si rischia più volte di dovervi rinunciare.
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«Somiglierete alla Madonna, perché sarete madri e vergini al tempo stesso. Vedete, figlie mie - spiegava - quel che ha fatto Dio per voi e per loro? Sin dalla eternità ha stabilito questo tempo per ispirare ad alcune signore il desiderio di prendersi cura di questi piccini che Egli considera suoi: sin dall'eternità ha scelto voi, figlie mie, per servirli. Che onore è questo per voi! Se le persone del mondo si tengono onorate a servire i figli dei grandi, quanto più dovete sentirvi onorate di servire i figli di Dio!».
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Vincenzo diventa dunque cappellano capo di tutte le galere del Regno e vi invia le sue «figlie della carità» per le quali fa costruire piccole case accanto alle prigioni.
Ed ecco come spiega loro questa nuova «opera» e come «ragiona»:
«Avendo noi preso le 'carità' delle parrocchie, Dio ci ha ricompensato con l'Hôtel-Dieu (l'ospedale); allora, contento di noi, per ricompensarci ci ha affidato l'opera dei trovatelli; poi, avendo visto che noi abbiamo accettato tutto con tanta carità, ha detto: 'voglio dar loro un altro incarico!'. Sì, sorelle mie, è stato Dio a darcelo senza che noi ci pensassimo, neanche Madamigella, né tanto meno io. Ma qual è questo incarico? È l'assistenza dei poveri forzati! Oh, sorelle mie, che felicità servire quei poveri forzati abbandonati in mani senza pietà! Io ho visto quei poveretti trattati come bestie, per questo Dio ne ha avuto compassione!».
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In una parola – egli dice - : «essere come i raggi del sole che si posano continuamente sopra l’immondizia, e nonostante questo non si sporcano».
Una sola volta Vincenzo rifiutò con durezza la sua opera: fu quando il Grand Bureau des Pauvres (il Grande Ufficio dei Poveri) tentò di risolvere l’immane problema dei mendicanti che infestavano la città e vi insediavano le «corti dei miracoli», veri centri di delinquenza organizzata. Il Grand Bureau varò il progetto della «Grande Reclusione», secondo cui tutti i mendicanti o coloro che non trovavano fisso lavoro dovevano essere rinchiusi in grandi «ospedali generali».
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Scelse quelli che più gli apparivano di «buona reputazione» e «non fannulloni» (venti uomini e venti donne) e aggregò ad essi degli operai che li aiutassero a riprendere il mestiere e a ritrovare il gusto del lavoro, un lavoro compatibile con la loro età, dal quale potessero comunque trarre un guadagno. Vi stabilì perfino dei «consigli di amministrazione».
Non si trattava solo di volontariato: Monsieur Vincent divenne di fatto quasi un ministro del regno che interloquiva con re e regine, con Richelieu e Mazarino, con i responsabili delle province e delle città, e che organizzava dovunque associazioni di uomini e donne destinati a ogni tipo di interventi e urgenze.
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Così Vincenzo meritò d'essere chiamato - ancora vivente - «il padre della Patria». Quando il re Luigi XIII, detto il Re Giusto, fu sul letto di morte nel 1643, lo fece chiamare e gli disse: «Ah, Monsieur Vincent, se ritorno in salute, voglio che tutti i vescovi stiano tre anni in casa vostra». Vincenzo lo aiutò a morire come un santo.
Alla morte del re, la regina Anna d'Austria lo scelse come Consigliere e così Vincenzo divenne un potente personaggio pubblico, una specie di Ministro per l'assistenza sociale, ed egli si servì di ciò senza pudori per rafforzare tutte le sue opere: moltiplicare le missioni, fondare seminari, dotare ospedali e opere caritative.
Ma difese anche la Veritàcattolica: nominato membro e segretario del cosiddetto Consiglio di coscienza (una specie di ministero per gli affari ecclesiastici del Regno di Francia, dove per nove anni si trovò faccia a faccia col cardinale Mazarino), influenzò come poté la nomina dei vescovi, mirando al buon andamento delle diocesi, e condusse una lotta senza quartiere contro l'eresia allora dilagante: il giansenismo.
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Diceva: «Il fine principale per il quale Dio ci ha chiamati è per amare Nostro Signore Gesù Cristo... Se ci allontaniamo anche di poco dal pensiero che i poveri sono le membra di Gesù Cristo, infallibilmente diminuiranno in noi la dolcezza e la carità».
6/ Altri santi educatori del settecento
6.1/ Jean-Baptiste de La Salle (Reims, 30 aprile 1651 – Rouen, 7 aprile 1719), fondatore delll’ Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane, Patrono degli Educatori Cristiani.
Giovanni Battista De La Salle nacque in un mondo molto diverso dal nostro. Primogenito di genitori facoltosi vissuti in Francia circa 300 anni fa, Giovanni Battista De La Sallenacque a Reims, ricevette la tonsura all’età di undici anni e a sedici divenne Canonico della Cattedrale di Reims. Alla morte dei suoi genitori, pur avendo dovuto assumersi l’onere dell’amministrazione del patrimonio familiare, completò gli studi di Teologia e fu ordinato sacerdote il 9 Aprile 1678. Due anni dopo ottenne il dottorato in Teologia. In quello stesso periodo, si impegnò con un gruppo di giovani uomini di modesta estrazione sociale e culturale, nel tentativo di istituire scuole per ragazzi poveri.
All’epoca solo pochi vivevano nel lusso, mentre la maggioranza era nell’indigenza; il popolo viveva miseramente nelle campagne o in squallidi tuguri nei centri urbani. Pochi privilegiati potevano mandare i loro figli a scuola e i giovani avevano, in genere, poche speranze per il futuro. Spinto dalla constatazione della triste condizione dei poveri che sembravano così “lontani dalla salvezza” in questo mondo come nell’altro, Giovanni Battista De La Salle decise di mettere le sue qualità e la sua cultura superiore al servizio dei giovani “così spesso abbandonati a se stessi e lasciati crescere privi di cure”. Per meglio realizzare il suo intendimento, abbandonò la casa paterna, si unì ai maestri, rinunciò al rango di Canonico e al suo patrimonio e formò una comunità che divenne nota col nome di Fratelli delle Scuole Cristiane.
L’opera di De La Sallefu contrastata dalle autorità ecclesiastiche che si opponevano alla creazione di una nuova forma di vita religiosa, una comunità di laici consacrati che gestivano scuole gratuite “insieme e per associazione”. I metodi innovativi e l’insistenza sulla gratuità dell’insegnamento per tutti, indipendentemente dalle possibilità economiche degli studenti, suscitarono l’ostilità degli ambienti didattici del tempo. Ciò nonostante, De La Salle e i suoi Fratelli riuscirono a creare una rete di scuole di qualità diffuse in tutta la Francia. In queste scuole, l’istruzione veniva impartita in Francese, gli studenti erano raggruppati per capacità e profitto, c’era integrazione tra istruzione religiosa e discipline di studio, gli insegnanti erano ben preparati e consapevoli della loro vocazione e missione educativa, alla quale anche i genitori degli alunni erano chiamati a partecipare. Inoltre, De La Salle fu all’avanguardia nella sperimentazione di programmi per la formazione dei docenti laici, di corsi domenicali per giovani studenti lavoratori e realizzò, in Francia, uno dei primi istituti per il recupero dei carcerati. Consumato dagli stenti e dalle fatiche, morì a Saint Yon, vicino Rouen, il Venerdì Santo del 1719, poche settimane prima del suo sessantottesimo compleanno.
Giovanni Battista De La Sallefu pioniere nella fondazione di scuole di formazione per insegnanti, scuole di recupero per carcerati, scuole professionali, scuole superiori di Lingue Moderne, Arti e Scienze. La sua opera si diffuse rapidamente in Francia e, dopo la sua morte, continuò a diffondersi nel mondo. Nel 1900, Giovanni Battista De La Sallefu proclamato Santo. Nel 1950, per la santità della sua vita e la forza dei suoi scritti, fu dichiarato Santo Patrono di tutti coloro che operano nel campo dell’educazione. Egli seppe indicare agli altri un modo nuovo di insegnare e assistere i giovani, incoraggiò a rispondere con la compassione a errori e debolezze, a rassicurare, rafforzare, curare.
193 – PRIMA MEDITAZIONE
E’ Dio che, nella sua Provvidenza, ha fondato le Scuole Cristiane
1º PUNTO Dio è davvero buono: non solo ha creato gli uomini, ma vuole che arrivino alla conoscenza della verità. Questa verità è Dio stesso e ciò che egli si è degnato rivelarci, sia per mezzo di Gesù Cristo, sia per mezzo degli Apostoli e della Chiesa. Egli vuole che tutti gli uomini siano istruiti e che il loro spirito sia illuminato dalla luce della fede. Ma è chiaro che per conoscere i misteri della nostra religione bisogna avere la fortuna di capirli e che questo vantaggio ci può venire solo dalla predicazione della parola di Dio. Difatti, gli uomini come potranno credere - si chiede l’Apostolo - in colui di cui non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? Perciò Dio che diffonde, per mezzo del ministero degli uomini, il profumo della sua dottrina nel mondo intero e che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, illuminò il cuore di quelli che ha destinato ad annunziare la sua parola ai fanciulli, in modo che essi possano illuminarli rivelando loro la gloria di Dio.
Poiché Dio per sua misericordia vi ha dato questo ministero, non falsificate la sua parola, acquistate anzi dinanzi a lui la gloria di scoprire la verità agli alunni che dovete istruire; impegnatevi dunque al massimo nell’impartire loro questa istruzione, considerandovi, nel farlo, come i ministri di Dio, e i dispensatori dei suoi misteri.
2º PUNTO Sono innanzi tutto i genitori che hanno il dovere di educare cristianamente i figli, insegnando loro la religione. Purtroppo, però, molti di essi non hanno una grande cultura religiosa, perché sono assorbiti dal lavoro per mandare avanti gli affari, e dalle preoccupazioni che dà loro la famiglia, soprattutto per procurare a loro stessi e ai loro figli il necessario per vivere. Non possono quindi dedicare molto tempo all’insegnamento dei doveri del cristiano.
Dio, allora, sempre provvidente e sempre vigile sul comportamento degli uomini, ha sostituito i genitori con persone, sufficientemente colte e zelanti per far conoscere ai loro figli la sua divinità e i suoi misteri. Queste persone cercano, con grande premura e grande attenzione, di porre nel cuore di questi ragazzi (molti dei quali sarebbero abbandonati a loro stessi) il fondamento della religione e della pietà cristiana, comportandosi come sapienti architetti, secondo la grazia (di Gesù Cristo) che Dio ha loro data.
Siete proprio voi, quelli che Dio ha chiamato a questo ministero: servitevi dunque dei doni diversi che la grazia vi ha dato per istruire e insegnare, per esortare e stimolare i ragazzi affidati alle vostre cure, guidandoli con vigile premura. Sarete voi a compiere il principale dovere che i padri e le madri hanno verso i loro figli.
3º PUNTO Dio, non solo vuole che tutti gli uomini arrivino alla conoscenza della verità, vuole anche che tutti siano salvi. Non potrebbe però volerlo seriamente, se non desse loro i mezzi: nel nostro caso senza dare ai fanciulli insegnanti che possano attuare, nel loro interesse, il piano divino. Questo - dice san Paolo - è il campo che Dio coltiva e l’edificio che egli innalza, e ha scelto voi per aiutarlo in questo lavoro, annunziando a questi fanciulli il Vangelo di suo Figlio e le verità che vi sono contenute.
Onorate, perciò, il vostro ministero, cercando di salvarne alcuni. Poiché, per continuare con lo steso Apostolo, Dio vi ha nominato suoi ministri per riconciliarli con lui e, a questo scopo, vi ha affidato la parola di riconciliazione a loro riguardo; esortateli, dunque, come se Dio stesso volesse esortarli per mezzo vostro, avendovi destinati ad annunziare a queste pianticelle le verità del Vangelo e a procurare loro i mezzi di salvezza che sono alla loro portata.
Istruiteli, ma non con parole studiate perché non venga annientata la Croce di Cristo che è la sorgente della nostra santificazione, altrimenti tutto ciò che direte non produrrà alcun frutto nel loro spirito e nel loro cuore. I ragazzi sono semplici e spesso poco educati; è dunque necessario che chi vuole aiutarli a salvarsi, lo faccia con molta semplicità, in modo che il loro discorso sia chiaro e facile a capirsi. Siate fedeli a questa pratica se volete contribuire, come Dio vi domanda, alla loro salvezza.
194. SECONDA MEDITAZIONE
Mezzi di cui deve servirsi un educatore per portare i fanciulli alla santità
1º PUNTO Riflettete sulla situazione, che purtroppo è abituale, in cui vengono a trovarsi le famiglie degli artigiani e dei poveri, costrette a lasciare troppa libertà ai loro figli, che si abituano così a vivere da vagabondi, scorrazzando di qua e di là, finché non riescono a trovare un lavoro. Non si preoccupano di mandarli a scuola, sia perché sono povere e non possono pagare gli insegnanti, sia perché - costrette a cercare lavoro fuori di casa - debbono necessariamente abbandonare i figli a loro stessi.
Le conseguenze sono, naturalmente, disastrose perché questi poveri ragazzi, abituati da anni a fare i fannulloni, stentano molto ad abituarsi al lavoro. Frequentando inoltre cattive compagnie, sono portati a commettere molti peccati, che non riescono più a lasciare a causa delle cattive e lunghe abitudini che hanno contratto durante tanti anni.
Dio ha avuto la bontà di rimediare a un inconveniente così grave istituendo le Scuole Cristiane, nelle quali si insegna gratuitamente e solo per la gloria di Dio. In queste scuole i ragazzi restano per tutto il giorno e imparano a leggere, a scrivere e anche i primi elementi della nostra religione. Abituati a essere sempre impegnati, non troveranno troppo faticose le ore di lavoro quando i genitori ve li manderanno.
Ringraziate Dio che ha avuto la bontà di servirsi di voi per procurare ai ragazzi un beneficio così grande. Siate fedeli ed esatti a concederlo senza pensare allo stipendio; potrete così dire con san Paolo: «Il motivo della mia consolazione è di annunciare gratuitamente il Vangelo, senza che i miei ascoltatori paghino nulla.
2° PUNTO Non basta che i ragazzi restino a scuola e siano occupati per quasi tutta la giornata, è necessario anche educarli nello spirito del cristianesimo, che può dare loro la sapienza che nessuno dei principi di questo mondo ha potuto conoscere e che si oppone decisamente allo spirito e alla sapienza del mondo, della quale i vostri alunni debbono avere orrore perché fa da copertura al peccato. Per quanto vi diate da fare, non sarà mai troppo quello che farete per tenerli lontani da un male così grande, il solo che può renderli sgraditi a Dio.
La vostra prima cura e il primo effetto della vostra vigilanza nel vostro impiego siano, dunque, di essere sempre attenti a impedire che commettano qualsiasi azione, non solo cattiva, ma anche minimamente indecente, dissuadendoli da ciò che ha anche la minima parvenza di peccato. È anche molto importante che la vostra vigilanza riesca a renderli modesti e riservati in chiesa e negli esercizi di pietà, che si fanno a scuola perché la pietà è utile a tutto e facilita molto la fuga del peccato e la pratica delle azioni virtuose, e perché attira numerose grazie su chi la possiede. Vi comportate così con i vostri alunni? Se non l’avete fatto nel passato, non omettete di farlo in avvenire.
3º PUNTO Per far acquistare ai vostri alunni lo spirito del cristianesimo, dovete insegnare loro le verità pratiche della fede di Gesù Cristo e le massime del santo Vangelo, almeno con la stessa premura che mettete nell’insegnamento delle verità speculative. E’ vero che la conoscenza di un gran numero di queste verità è assolutamente necessaria per salvarsi, ma a che servirebbe limitarsi alla sola conoscenza di esse, se non ci si preoccupasse anche di metterle in pratica? Ascoltiamo san Giacomo: la fede se non ha le opere è morta. Ascoltiamo anche san Paolo: Se conoscessi tutti i misteri, avessi tutta la scienza e tutta la fede così da trasportare le montagne, da un luogo all’altro, ma non avessi la carità - cioè la grazia santificante - non sono nulla.
La vostra prima sollecitudine sia dunque di insegnare ai vostri alunni le massime del santo Vangelo e la pratica delle virtù cristiane. Dovete fare di tutto perché vi si affezionino: nulla vi deve stare più a cuore. Siete convinti che il bene che farete loro è l’unico fondamento di quello che, in seguito, praticheranno durante tutta la loro vita? Le abitudini virtuose che si prendono negli anni giovanili, trovano minori ostacoli nella natura corrotta e gettano radici più profonde nel cuore di chi si è formato in esse.
Se volete però che le istruzioni che date ai vostri alunni, per attirarli alla pratica del bene, ottengano un risultato, dovete prima praticarle voi; dovete essere pieni di zelo per riuscire a trasfondere in essi le grazie che sono in voi, e che vi aiutano a compiere il bene. Che questo zelo attiri in voi lo spirito divino che vi permetterà di animare anche essi.
199. SETTIMA MEDITAZIONE Istruire i giovani è uno dei compiti più necessari alla Chiesa
1º PUNTO Dio scelse e destinò san Paolo per predicare il Vangelo ai pagani - come racconta egli stesso - gli diede una profonda conoscenza dei misteri di Gesù Cristo, che lo mise in condizione, come un bravo architetto, di porre le fondamenta dell’edificio della fede e della religione che Dio ha poi costruito nelle città dove annunziò il Vangelo aiutato dalla grazia conferitagli da Dio. Egli fu il primo a portare la Buona Novella in quei luoghi e perciò molto giustamente scrisse che quelli a cui aveva annunciato il Vangelo sono opera sua e che li ha generati in Gesù Cristo.
Anche senza volervi considerare all’altezza di questo grande santo, potete dire che - fatte le debite proporzioni - (tra il vostro impiego e il suo) voi fate la stessa cosa e che, nella vostra professione, esercitate lo stesso ministero. Dovete allora considerare questo impiego come una delle funzioni più considerevoli e più necessarie nella Chiesa, a voi affidata dai suoi Pastori, ma anche dai padri e dalle madri.
È questo il significato del detto: porre le fondamenta dell’edificio che èla Chiesa, che vuol dire: istruire i fanciulli nel mistero trinitario e nei misteri che Gesù ha compiuto quand’era sulla terra. Difatti, dice ancora san Paolo: senza la fede è impossibile piacere a Dio e quindi salvarsi e entrare nella patria celeste: perché la fede è il fondamento della speranza che abbiamo. Così la conoscenza che ognuno deve averne e l’istruzione che dobbiamo dare a chi l’ignora, sono le cose più importanti della nostra religione.
Stando così le cose, dovete considerarvi onorati che la Chiesa vi abbia destinato a una professione così santa e così sublime; pensate che essa vi ha scelto per procurare ai fanciulli la conoscenza della nostra religione e dello spirito del cristianesimo.
Pregate Dio che vi renda capaci di esercitare, in modo degno di lui, un ministero così importante.
2º PUNTO Il motivo che rende importante la vostra funzione educatrice è che i santi Vescovi della Chiesa primitiva la consideravano come il loro principale dovere e consideravano un onore istruire i catecumeni e i neocristiani e fare loro il catechismo. San Cirillo, patriarca di Gerusalemme e sant’Agostino hanno lasciato catechismi scritti di cui si servivano essi e i sacerdoti loro coadiutori nelle funzioni pastorali. San Girolamo, uomo di grandissima scienza, dà testimonianza nella sua lettera a Leta che catechizzare una bambina lo considerava un onore più grande di quello di essere il precettore di un grande imperatore.
Gerson, Gran Cancelliere dell’Università di Parigi, stimava moltissimo questa professione e l’ha praticata anche lui.
Il motivo per cui questi grandi santi si comportavano così è che essa è la prima funzione di cui Gesù Cristo ha incaricato i suoi santi Apostoli; racconta infatti san Luca che, non appena li ebbe scelti, li inviò a predicare il regno di Dio. Essa è anche l’ultima cosa che raccomandò espressamente agli Apostoli, immediatamente prima di lasciarli: Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Essa è anche la prima iniziativa che prese san Pietro nel tempio di Gerusalemme, dopo la discesa dello Spirito Santo e che ottenne subito la conversione di tremila persone che abbracciarono la fede di Gesù Cristo.
Essa fu anche la più importante incombenza di san Paolo, come si ricava dai suoi discorsi all’Aeropago e da quelli che indirizzò a Felice e a Festo e tramandateci dagli Atti degli Apostoli. Egli confessa anche ai Corinzi il dispiacere che proverebbe di andare da loro e di non poter essere utile con l’istruzione e la catechesi.
Gesù Cristo non si è accontentato di affidare agli Apostoli l’incarico di fare il catechismo; l’ha fatto egli stesso e ha insegnato le principali verità della nostra religione, come ci riferisce in molti punti il suo Vangelo, ripetendo ai suoi Apostoli: Bisogna che io annunzi il vangelo del regno di Dio; per questo sono stato mandato.
Dite la stessa cosa di voi e cioè che è Gesù che vi ha mandato e che è questo l’incarico che vi ha datola Chiesadi cui siete i ministri. Mettete l’impegno necessario per eseguirlo bene, con lo stesso zelo e lo stesso successo con cui l’hanno eseguito i Santi.
3º PUNTO Non bisogna meravigliarsi se i primi vescovi della Chiesa nascente e i santi Apostoli hanno stimato l’arte di istruire i catecumeni e i primi cristiani e se san Paolo, in modo particolare, si gloria di essere stato mandato a predicare il Vangelo e non con parole studiate, perché non venga resa vana la croce di Cristo. Dio, infatti, ha mutato la saggezza del mondo in follia. E aggiunge: Il mondo, infatti, illuminato dalla sapienza e dai lumi divini non ha riconosciuto Dio per la sua sapienza e allora è piaciuto a Dio salvare, con la follia della predicazione del Vangelo, quelli che accetteranno la fede.
La spiegazione che dà è questa: Per rivelazione gli è stato fatto conoscere il segreto di Dio e gli è stata concessa la grazia di annunciare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Gesù Cristo. Da questo consegue che quelli che, in quel tempo erano senza Cristo, erano estranei ai patti di Dio e senza speranza nelle sue promesse. Ora invece in Cristo Gesù, non erano più stranieri, ma concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli, innalzati da Gesù Cristo; sono così divenuti il santuario in cui Dio dimora con il suo Santo Spirito.
Questo è il frutto che, con le loro istruzioni, hanno raccolto nella Chiesa - dopo i santi Apostoli - i grandi vescovi e i pastori della Chiesa che si sono dedicati all’istruzione dei neofiti. Perciò essi stimavano tanto questo ministero e vi si dedicavano con tanta cura.
Anche voi dovete avere una stima particolarissima per l’istruzione e l’educazione cristiana dei fanciulli perché esse sono un mezzo per farli diventare veri figli di Dio e cittadini del cielo e perché sono sicuramente il fondamento e il sostegno della loro pietà e di tutto il bene che si compie nella Chiesa.
Ringraziate Dio della grazia che vi ha concesso affidandovi il compito di partecipare al ministero dei santi Apostoli e dei grandi vescovi e pastori della Chiesa; fate onore al vostro ministero diventando, come dice san Paolo, degni Ministri del Nuovo Testamento.
6.2 Santi della catechesi
6.2.1/ San Giovanni Leonardi 1541 circa – Roma, 9 ottobre 1609
Il farmacista fondatore
San Giovanni Leonardi nasce a Diecimo nei pressi di Lucca, l'anno 1541. Giovane zelante e pieno di amore apostolico, visse da laico impegnato la prima stagione della sua esistenza. Inviato dai familiari a Lucca per apprendere l'arte del farmacista, s'inserì nel tessuto cittadino attirando per la santità della vita e la radicale scelta evangelica, l'entusiasmo della gioventù lucchese.
Nell'associazione giovanile ispirata al Beato Giovanni Colombini (1304-1367), il Leonardi realizzò l'aspirazione a conseguire una più intensa vita cristiana, la preghiera comune e l'assistenza ai poveri. Così riferisce il Venerabile P. Cesare Franciotti nelle prime cronache: "Ebbe dunque principio questa nuova Compagnia intorno all'anno 1558: li esercizi suoi erano il frequentare la chiesa di S. Romano nei giorni festivi, il trovarsi ai Divini Offizi, il confessarsi tutti dal medesimo confessore e secondo il suo consiglio comunicarsi frequentemente […] et essi con molta semplicità ed obbedienza pigliavano dalle sue mani, il tutto come dalla mano di Dio" (Croniche, § 5).
Su consiglio del domenicano P. Paolino Bernardini a ventisei anni, il Leonardi lasciò l'attività di farmacista e intraprese gli studi ecclesiastici. Celebrò la sua prima eucaristia nell'Epifania del 1571 e il vescovo di Lucca gli affidò la Chiesa di San Giovanni della Magione, nella quale poté attuare un'intuizione che portava da tempo nel cuore: l'istituzione di una scuola che formasse soprattutto i più giovani nei principi della retta fede e della vita cristiana. Nacque così la "Compagnia della Dottrina Cristiana".
Dalla parte dei piccoli
La Chiesa si riforma dal basso, dai "piccoli". Giovanni è obbediente al monito del Vangelo: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato" (Mc 9,37) I "piccoli" per il Leonardi sono coloro che hanno bisogno di aiuto spirituale; coloro che non sanno, quelli che hanno poche sicurezze, sono soprattutto i peccatori, privi di difesa e schiacciati dalla loro indegnità. Il confessionale diviene la prima "cattedra" di Giovanni. E' scuola della misericordia divina: "che il buon cristiano dovrà avere sempre davanti ai suoi occhi e scrivere nel cuore" (Sermoni C. 318) e nello stesso tempo luogo della guarigione interiore. Così scrive il primo biografo: "era particolare la sua carità verso il prossimo, al quale sovveniva non solo con curarli per amore di Dio e dar loro i medicamenti necessari; ma molto più con sani documenti, con disporli alla confessione, e con procurare di rendere prima sana l'anima dalle spirituali infermità. Così era fatto Giovanni, non meno per l'anime che per i corpi operatore e dispensatore di medicine" (G. Bonafede, Vita). La cura del corpo ecclesiale fu dunque la prima preoccupazione del giovane presbitero. Nell'Oratorio lucchese il Leonardi, radunò numerosi giovani che già conoscevano le sue singolari virtù. La compagnia era solita ritrovarsi nell'ascolto della Parola di Dio, nella frequenza ai sacramenti, nell'orazione mentale e nelle pratiche di pietà.
Ma l'anelito missionario e la povertà spirituale del popolo, spinsero Giovanni ad occuparsi soprattutto dei fanciulli per insegnare ad essi: "la dottrina christiana, et indirizzarli nella devotione, sapendo egli (come spesso diceva) che dalla buona educatione della gioventù dipende più che da altre diligenze la riforma delle famiglie e delle repubbliche". Formare cristiani adulti nella fede: ecco l'intuizione del Leonardi che riorganizzò in modo sistematico e innovativo la catechesi in tuttala Diocesi di Lucca.
Una nuova famiglia religiosa nella Chiesa
Vita comune e apostolato: una sintesi vincente, sperimentata dai nuovi Ordini religiosi: i Chierici Regolari che precedettero, accompagnarono e seguirono il Concilio di Trento. Il Leonardi s'inserisce con i suoi primi compagni dentro questo singolare fioritura. Il settembre del 1574 diede inizio alla compagnia di "preti riformati" ed egli stesso redasse la prima regola di vita nel 1584: "Constitutioni e Regole della Compagnia dei sacerdoti e Chierici Secolari della Gloriosa Vergine Maria Habitanti a Lucca inla Chiesa della Santissima Maria Cort'Orlandini" e come egli stesso ebbe ad affermare "approvate da un papa Clemente" nel 1604.
Il successo dell'opera attirò consensi ed amici come il Vescovo Castelli di Rimini, ma anche tanta ostilità e rifiuto per il quale la vita dei profeti e mirabilmente intrecciata alle loro azioni e parole. In queste parole consegnate nelle prime Costituzioni il Leonardi individua lo scopo del nuovo istituto: "Avendo veduto che il Signore ci ha chiamati non solo perché attendiamo a noi stessi, ma anche al fine che con ogni diligenza cerchiamo la salute del nostro prossimo. Poi tutti i fratelli con animo acceso si sforzeranno eseguire questa volontà di Dio, e per ciò s'attendi alla ministratione dei santissimi sacramenti non perdonando a fatica o disagio quando vedranno qualche Anima peccatrice tornare allo stato della grazia. Si predichi o si legga la Divina scrittura in Chiesa nostra ogni giorno di festa comandata et insieme vi s'insegni la Dottrina Cristiana ai bambini" (Costituzioni del 1584, Archivio OMD).
Il santo pagò con molte tribolazioni il coraggio di predicare e di sostenere in tutti i modi la necessità di un ritorno alla genuina pratica del Vangelo in un'epoca di decadenza dei costumi e di profonde divisioni nella Chiesa. La Congregazionefu elevata alla dignità di Ordine con il titolo di Chierici Regolari della Madre di Dio da Gregorio XV (1621). Un piccola comunità apostolica che fosse in piena comunione per l'evangelizzazione, la santificazione e la riforma personale, fu l'intento del Leonardi.
Fecondo e profetico esilio: nella vigna della Chiesa
Se la santità non si esaurisce nella storia e vero che questa la caratterizza. L'avventura del Leonardi proseguì fuori dall'"Alborato cerchio", è cominciò ad assumere toni universali. La compostezza del suo carattere e la sua coerenza profonda nascevano da un amore affidato a Dio spesso segnato da amarezze, provocate da inquietudini e divisioni. L'ombra lunga della croce che il Signore riserva ai suoi eletti e che il Leonardi ebbe a celebrare nei suoi scritti come testimonia la lettera inviata ai confratelli il 16 maggio 1592: "A me non dovete cosa alcuna, perché per tutto il tempo non ho da parte mia fatto che guastare, ma se cosa di buono vi pare che vi sia stata, tutto è virtù e grazia di Dio, al quale tutto dovete. Quanto a portare la Croce, ha da essere virtù di Quello che ha da scacciare da voi il timore e la paura, et un poco più levate li vostri cuori a Dio e con lui misurate le cose" (G. Leonardi, Lettere). Sospetti, accuse di essere portavoce dell'Inquisizione e incomprensioni anche fra i suoi religiosi, sancirono l'esilio del Leonardi dall'amata città di Lucca. Alla richiesta di spiegazioni la risposta fu netta: "disturba l'ordine pubblico e manca di rispetto all'autorità costituita". Si, i profeti disturbano, i giusti inquietano, i saggi vanno tolti di mezzo. Ma la vigna sarà data ad altri che la faranno fruttificare (cfr. Mt 21,43). E' la vigna della grande Chiesa che il Leonardi è chiamato a servire. Cominciando da Roma dove dimora il Vicario di Cristo.
Giovanni propone con voce profetica la riorganizzazione del tessuto ecclesiale: concili provinciali e regionali convocati periodicamente per discutere delle questioni pastorali, i quali a sua volta devono confluire in concili nazionali da celebrarsi a Roma alla presenza del Papa il quale "procurerà d'aver cognizione di tutte le infermità che patisce la Chiesa […] e poi quelli che a riformare i costumi degli uomini devono attendere, ponghino loro medesimi avanti gli occhi di chi desiderano riformare come specchi di tutte le virtù e come lucerne poste sopra il candeliere". E a sottolineare l'importanza dell'universalità della Chiesa il Leonardi invita il Papa "a scegliere i cardinali di tutte le nazioni della cristianità" (G. Leonardi, Memoriale a Paolo V per la riforma universale di tuttala Chiesa, 1605).
L'ordine di non ritornare in patria raggiunge il Leonardi a Roma dove si era recato nel 1587. La sua causa fu più volte sostenuta e difesa da amici influenti, tuttavia il santo ebbe modo di dimostrare rispettosa obbedienza alla Chiesa e al Senato di Lucca. Lo sguardo al crocifisso, "il Patto con gli occhi per scoprire Cristo" come ebbe ad affermare nel commento a Giobbe e la fedeltà alla Chiesa, orientarono il tempo prezioso della prova come scrisse in altra occasione al Venerabile Giovanbattista Cioni: "So che vi sarà croce, ma pigliatela volentieri per amore di Quello che la pigliò per tutti, poiché altrimenti non si può fare, onde è bene patisca un membro, acciò tutto il corpo habbia bene" (Lettera del 1591). Il papa Clemente VIII, non solo allontanò dal Leonardi ogni accusa e sospetto, ma lo inviò più volte Visitatore e Commissario Apostolico perché fosse attuata con "prudenza e ponderata fermezza" la riforma della Chiesa già avviata dal concilio tridentino: "tam in capitis quam in membris". Instancabile, il santo visita più volte antichi e autorevoli monasteri: Montevergine, Vallombrosa e Montesenario. Fonda il popolare santuario della Madonna dell'Arco presso Napoli. Le intuizioni profetiche e l'esperienza lo conducono a stendere una sorta di trattato nel quale enumera i principi della riforma: "Pro Religionum et Religiosorum presenti et futura reformatione". Con lucida evidenza in questo documento afferma che: "Non è l'inflazione delle leggi a riformare gli Istituti, salvo poi osservarle".
A Roma suggerirà la costituzione di un "Dicastero" per i religiosi che sarà istituito da Innocenzo X nel 1652. Gli fu affidato l'incarico di Visitatore delle Scuole Pie le quali, in seguito, furono aggregate per tre anni alla Congregazione del Leonardi. L'amicizia fidata strinse san Giovanni e san Giuseppe Calasanzio soprattutto nelle ore difficili di sospetti e persecuzioni. Giovanni s'adoperò in questi laboriosi anni romani ad uffici di pace. Compose divergenze nel popolare Ospedale di Santo Spirito in Sassia a Roma; fra il Collegio Inglese ela Compagnia di Gesù (per il Collegio Germanico); fra la repubblica di Lucca e il Duca di Monaco.
Il Vangelo fino agli estremi confini della terra
Di ritorno da Loreto nel 1605 intensificò le relazioni in precedenza avviate con Mons. Giovan Battista Vives per dar vita ad un progetto missionario. Già intorno al 1603 nella casa del Vives, posta nelle vicinanze di piazza del Popolo, si radunarono alcuni giovani alunni sotto la direzione del leonardino P. Giuseppe Matraia, per dare concretezza alla "Congregazione di Propaganda Fide", la quale, aveva come scopo la formazione degli annunziatori del Vangelo nelle nuove terre: "Le Indie".
Per il nascente istituto il Leonardi revisionò le prime Costituzioni e firmò insieme a dodici Chierici Secolari il celebre memoriale a Paolo V come afferma il P. Ludovico Marracci: " Restano per anco appresso di noi le Regole, di questa Congregazione di Preti Apostolici, con altre scritture in tal proposito fatte da uomini insigni delle quali una è con queste parole soscritta: Martinus Funes Societatis Iesu, et duodecim Clerici Seculares". Il progetto attraversò molte vicissitudini ed ebbe la definizione canonica nel 1627 dal Papa Urbano VIII che assegnò il "Collegio di Propaganda Fide" a sacerdoti e chierici secolari "ex omni gente et natione". L'intensa giornata terrena del Leonardi si era chiusa qualche decennio prima il 9 ottobre del 1609 nella casa di Santa Maria in Portico a Roma. Durante una violenta peste, il Padre mosso da grande carità assistendo alcuni confratelli, rimase vittima del terribile morbo. Le sue spoglie mortali furono trasferite nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli nel 1667 e fu canonizzato da Pio XI il 17 aprile 1938.
dalla DOTTRINA CRISTIANA di San Giovanni Leonardo
M. Ora cominciamo nel Nome di Dio, chi siete voi?
D. Io son Cristiano per grazia di Dio.
M. Che vuol dire essere Cristiano?
D. Esser battezzato, e far professione di seguire il Nostro Signore GESU’ Cristo, Salvatore nostro, osservando i suoi Comandamenti, in vera ubbedienza della Santa Chiesa Cattolica Romana, Madre, e Maestra di tutti i Cristiani, fuor della quale non ti può alcun salvare.
M. Il Cristiano ha segno veruno per distinguersi dagli altri, che non sono?
D. Signor sì, ed è il Segno della Santa Croce, del quale dobbiamo spesso armarci, come d’un forte scudo, contro i nemici nostri, non solo la mattina, il giorno, e la sera, ma sempre, che abbiamo a dar principio a qualsivoglia cosa; e questo è un modo di invocare la SS. Trinità che si compiaccia d’assisterci in tutte l’opere, ed azioni nostre.
M. Come si fa questo Segno della Santa Croce?
D. Si fa in questo modo, mettendo la mano destra alla fronte, dicendo: In Nomine Patris, e discendendo diritto sotto il petto, dicendo, & Filii: stendendo poi la mano dalla spalla sinistra alla destra con dire, & Spiritus Sancti; e finalmente congiunte insieme le mani si dice, Amen.
M. Perché si fa in questo modo?
D. Per significare tre grandi Misterj della nostra S. Fede, che sono: La Trinita, l’Incarnazione, e la Redenzione, li quali si racchiudono in queste parole; Unità, e Trinità di Dio, Incarnazione,e Morte del Nostro Signore Gesù Cristo.
M. Che vuol dire Unità, e Trinità di Dio?
D. Vuol dire, che Iddio è un solo in divinità, in Essenza, e Natura: ma questo Iddio è il medesimo, che le tre Persone Divine, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo.
M. E Incarnazione,e Morte dei Gesù Cristo, che cosa vuol dire?
D. Vuol dire che la Seconda Persona della SS. Trinità, il Figliuolo di Dio Padre s’è fatto Uomo, è morto per salute dell’anima nostra.
M. Ditemi, come trovate voi nel Segno della Santa Croce il primo Misterio?
D. Perchè quella parola nel Nome significa l’Unità di Dio, e quell’altre parole: Padre, Figliuolo, e Spirito Santo mostranola Trinità delle Persone Divine.
M. E gli altri due dell’ Incarnazione,e Morte dei Gesù Cristo?
D. Questi sono espressi nel solo Segno della Croce, nella quale morì il Figlio di Dio fatto Uomo.
M. Chi v’ha creato?
D. Iddio.
M. Perché fine siete stato creato?
D. Per amarlo, e servirlo in questa vita, e poi goderlo nell’altra in Paradiso.
M. Che cosa è necessaria al Cristiano per arrivare al suo fine, e salvarsi?
D. Molte cose: ma tutte si contengono nelle tre Virtù Teologiche, Fede, Speranza, e Carità.
6.2.2/ Cesare de Bus (1544-1607), sepolto a Roma nella chiesa di Santa Maria in Monticelli, dove ha sede la curia generale della Congregazione
Cesare de Bus nasce a Cavaillon (Francia) il 3 Febbraio 1544. Nella sua giovinezza vive la vita di Corte a Parigi, fatta soprattutto di divertimento e feste. Tornato a Cavaillon, pur disgustato della vita di corte, non mutò atteggiamenti ed abitudini passate.
La conversione, anche se intesa soprattutto come passaggio da una vita “tiepida” ad una vita “fervorosa”, avvenne, in particolare ad opera di due persone semplici: Antonietta Réveillade, contadina e dama di compagnia in casa de Bus, e Luigi Guyot, sacrestano della cattedrale di Cavaillon e sarto di mestiere. Cesare non sopporta la frattura tra comportamento di vita quotidiana e fede e sente insistente il desiderio di uniformare la propria vita alla fede.
A trentadue anni si rimette a studiare con coraggio e umiltà. Una domenica d’Agosto del 1582 riceve l’Ordinazione e, sin dai primi mesi di sacerdozio, si dedica all’apostolato.
Il de Bus rendeva viva ed attraente l’esposizione mediante il dialogo, la libera discussione o addirittura con delle sacre rappresentazioni. Utilizzava cartelloni catechistici da lui dipinti, esposti alla porta della chiesa, quale sussidio per facilitare la comprensione delle verità che spiegava; la musica e la poesia per rendere interessante e piacevole l’insegnamento.
Attratti dal suo modo di fare apostolato, altri preti e laici vollero seguire il suo esempio e così, il 29 Settembre 1592, ci fu la prima riunione di quella che sarebbe stata la Congregazione dei Padri della Dottrina Cristiana.
Un altro motivo dominante, che accompagnò il B. Cesare in tutta la sua vita, fu una grande fiducia in Dio, che mostra la sua infinita misericordia nella missione salvifica di Cristo morto in croce per riscattarci dal peccato.
Nel 1594 inizia per Cesare il periodo della prova sia fisica, causata in particolare da un affievolimento della vista che da lì a pochi anni lo porterà alla cecità, sia morale, dovuta a problemi economici, al non vedere realizzato il suo progetto.
Quando morì il 15 Aprile del 1607, la Congregazione contava solo tre case e i pochi padri erano tutti attorno al letto di morte a raccogliere l’ultimo esempio del padre.
La Congregazione
La Congregazione vede i suoi inizi a L’Isle sur la Sorge (Francia) il 29 settembre 1592.
Nelle Prime Regole del 1592, si ha un filo rosso che congiunge le 12 brevi regole: l’esercizio della Dottrina Cristiana e la carità; esse sono il fondamento e la ragione dello stare insieme. La vita comunitaria era ritenuta importante anche per migliorare nella metodologia della trasmissione della Dottrina Cristiana.
I religiosi della Congregazione si impegnano a vivere ciò che il Fondatore aveva percepito nel suo cammino di ricerca, cioè che l’annuncio della Parola di Dio si fa, innanzitutto, con la testimonianza della vita, conciliando in maniera coerente la fede e la quotidianità della vita.
A proposito della efficacia dell’insegnamento e della predicazione dei primi dottrinari e del loro metodo, S. Vincenzo de’ Paoli disse: “Finalmente in Francia abbiamo dei preti che quando predicano, si sa quello che vogliono dire!”.
Confesso che cominciando ad insegnare il catechismo e ad esporre la Dottrina Cristiana in questa maniera, io credevo di abbassarmi grandemente, trattando di cose basse e puerili secondo il mondo. Ma Nostro Signore Gesù Cristo, avendomi fatto vedere la grandezza e l’eccellenza di quest’opera attraverso la lettura di Autori santi, mi fece cambiare pensiero e sentimento e così riconobbi di essere indegno di un ministero così santo e glorioso. Si dice che colui che vuole insegnare la Santa Dottrina (così la chiamano) deve essere fornito di numerose virtù. Bisogna infatti che sia pieno dello Spirito di Dio per superare gli impedimenti che dovrà incontrare. Inoltre il dottrinario ha bisogno di una grande purità, prudenza e destrezza. Dico che ha bisogno di una gran purità per poter essere sempre assistito dalla divina grazia, senza di cui nulla può fare per la salvezza. Dico che ha anche bisogno di prudenza e destrezza perché colui che vuole insegnare agli altri a combattere contro lo spirito del male deve essere egli stesso prudente e destro per conoscere le astuzie di questi nemici. Finalmente gli è necessaria un’ardente carità, poiché egli non persevererà mai in questo santo esercizio e non porterà mai gran frutto se non ama ardentemente Dio. Affinché io possa ottenere queste virtù, desidero essere aiutato dalle vostre preghiere e poi vi domando silenzio e attenzione per poter essere facilmente ascoltato e perché voi possiate memorizzare quanto io dico al catechismo. (Istruzioni familiari, vol. 1, 87-88)
Perché andare al catechismo
Cari ragazzi, venite alla Dottrina ed io vi farò da maestro. Ma cosa vi insegnerò? V’insegnerò ad essere veri e buoni cristiani; vi insegnerò il fine per cui Dio vi ha creato; vi insegnerò a conoscere Dio, il mondo e voi stessi; v’insegnerò a ben vivere e a ben morire. Venite, dunque, perché v’insegni queste cose, che sono così belle, utili e necessarie.
Qualcuno forse mi dirà: a che può servirmi andare ad ascoltare la Dottrina? Io conosco abbastanza ciò che è bene, senza volerlo praticare e ciò che è male senza volermi correggere. Ebbene sia pure così; non per questo dovete tralasciare di venire a sentire la Parola di Dio, la quale illumina e cambia il cuore. Ricordatevi infatti che i giudei se ne andavano col disegno di arrestare Gesù Cristo e tutti risoluti di commettere tale enormità, ma avendo essi inteso la sua Dottrina ne furono colpiti e non ebbero coraggio di mettergli le mani addosso; e quando i Sommi Sacerdoti e i farisei dissero loro: perché non l’avete arrestato? Sapete cosa risposero? “Mai nessun uomo ha parlato come Lui” (Gv 7,44ss). (Istruzioni familiari, vol. 1,10.17)
È soprattutto l’esercizio della Dottrina Cristiana il mezzo migliore per radicare la fede, per confermarla, per cacciare l’ignoranza e sradicare i vizi. Sapeva bene tutto ciò papa Pio V, uomo di santità che, con una sua Bolla pregava, esortava e comandava, che fossero erette in tutte le città delle Congregazioni della Dottrina Cristiana, concedendo a tutti coloro che l’avessero insegnata e che vi avessero partecipato copiose Indulgenze. Queste sono state accresciute da Gregorio XIII, e ancor di più dal Nostro Santo Padre il papa Clemente VIII, attuale Pontefice[1]. E certamente con gran ragione hanno fatto ciò, in quanto la Dottrina Cristiana è come un’Arca, che preserva i cristiani dal diluvio di questo mondo; è come la colonna e il fondamento che sostiene la Chiesa e non vi è mezzo più spedito per rimanere nel sentiero della salvezza e ricondurvi tante pecorelle smarrite che il continuo esercizio di questa santa Dottrina, che io ho intrapreso. (Istruzioni familiari, vol. 1, 58)
Quando io penso alla Dottrina Cristiana, la paragono ad eccellentissime erbe, esposte in mezzo ad una piazza, ma di cui nessuno ha stima, perché sono ignote le loro virtù. Ma dal momento che queste si vengono a conoscere, ciascuno corre e ne compera a qualunque prezzo. Infatti lo stesso avviene della Dottrina Cristiana che da molti viene snobbata, appunto perché non conosciuta: ma se la sua eccellenza e la sua necessità fossero ben comprese gli uomini se ne affezionerebbero e si vedrebbero molti abbandonare beni, case e parenti, tutte le cure e tutti gli affari mondani per attendere a questo santo esercizio, raccomandato dai sacerdoti e dai superiori. (Istruzioni familiari, vol. 1, 106)
7/ Santi della carità
7.1/ San Pietro Claver
dalla vita di San Pietro Claver di Antonio Maria Sicari, p. 58
Alfonso Rodriguez [vedovo fattosi gesuita] gli parlava, dunque, della vita eroica ch'era possibile condurre in missione e gli spiegava:
«Le anime degli indiani hanno un valore infinito, perché hanno lo stesso prezzo del sangue di Cristo... Andate nelle Indie a comprare tutte quelle anime che si perdono!».
Si sentiva nel linguaggio del vecchio maestro l'antica arte del commercio, ma egli lo usava anche perché conosceva l'infame mercato
che si svolgeva in quegli anni nelle Americhe.
pp. 59-61
Oggi, quando la Chiesa predica le sue alte dottrine e le sue impegnative norme morali, è facile che risuoni la contestazione di chi dice: «Non abbiamo bisogno di dottrine, ma di testimoni! Non fateci prediche, ma dateci l’esempio!».
Ebbene, nei secoli passati, su tante gravi questioni – come quella della schiavitù – proprio questo è accaduto: la Chiesa non dava dottrine, e forse non era nemmeno in grado di darne. Ma offriva esempi e modelli.
La durezza del cuore e della mente dei singoli e dei popoli era tale che certe verità e certi principi non potevano nemmeno essere né formulati, né compresi.
E tuttavia non sono mai mancati i santi che - in forza della loro familiarità con Cristo e della loro intuitiva carità - hanno messo in pratica quelle verità che essi stessi non sarebbero stati in grado di formulare.
Si veda il caso di Pietro Claver: forse non è possibile trovare nella sua vita o nei suoi detti un solo giudizio contro la schiavitù, o la messa in questione del preteso diritto delle nazioni cristiane a fare commercio di schiavi: nessuna posizione di principio, nessuna trattazione sui diritti umani o sul diritto internazionale.
Non avrebbe avuto nemmeno gli strumenti intellettuali per farlo. E tuttavia egli esemplificò la vera dottrina della Chiesa con tutta la sua vita, con quarant'anni di inesausta dedizione.
E non si trattava solo di dare un qualche conforto ai miserabili. Nell'esercizio della sua missione, Pietro Claver non esiterà a far saltare anche i più rigidi schemi sociali del suo tempo. Divenuto famoso e ricercato da cavalieri e dame che volevano ad ogni costo confessarsi da lui, li faceva tranquillamente aspettare finché non si fosse esaurita la lunghissima fila dei poveri schiavi.
Ma non lo faceva col gusto riformatore di chi finalmente poteva "mettere un po' d'ordine o di giustizia" in quella ingiusta società, ma con la semplicità di chi riteneva la cosa assolutamente ovvia.
Non erano i nobili che dovevano venire per ultimi, era lui che doveva andare prima dai suoi poveretti:
«No», diceva ai nobili che lo richiedevano, «no; ché io sono il confessore de' poveri negri. A persone della loro qualità non manca mai con chi poter confessarsi!».
Commenta il cronista: «Ed era cosa di maraviglia veder non pochi della primaria nobiltà dar la precedenza a' lor medesimi schiavi, e aspettare in un angolo le ore intere... ».
Pietro Claver arrivò a Cartagena in Colombia nel 1610.
La città, benché avesse un clima quasi intollerabile per i bianchi, era allora il più grande porto destinato allo sbarco e al mercato degli schiavi.
Dalle coste dell'Africa giungeva circa una nave al mese, ognuna con un carico da ottocento a mille schiavi: una quantità enorme se si pensa che, in pochi decenni, la popolazione della Colombia fu, per due terzi, negra.
Erano considerati «bestiame nero». Altri li definivano «legno di ebano», espressione ancora più orribile, perché li accomunava alle altre merci pregiate di cui facevano mercato, come lo zucchero e il tabacco.
Insomma, schiavisti e compratori si rifiutavano di riconoscere qualsiasi dignità umana a quei selvaggi, la cui ottusità sembrava loro animalesca.
Se qualche dubbio sfiorava la loro coscienza cristiana, la tacitavano con riflessioni che avevano una certa plausibilità: in fondo, essi non facevano altro che trasportare e utilizzare, oltre oceano, gente che era già schiava nei paesi d'origine, e non certo in condizioni migliori.
Li acquistavano, infatti, sulle coste della Guinea e dell'Angola, dove le tribù erano sempre in guerra tra loro, e i prigionieri schiavi abbondavano.
Li compravano "a prezzo di vino, di acquavite, di aceto o di altri simili cose, secondo il capriccio o il bisogno di que' barbari".
Perfino, il primo biografo di Claver, non deplora tanto il fatto che gli spagnoli vendessero e comprassero schiavi, ma che i negri stessi li vendessero sulle coste africane per "quattro corna di bue", e commenta indignato: «Tanto la nostra umanità perde a poco a poco di ragione, dove manca la vera fede». Insomma: non lo scandalizza il fatto che venissero venduti, ma che venissero svenduti per niente.
pp. 61-62
Durante la lunga traversata almeno un quarto di essi moriva, o anche la metà, se scoppiava il vaiolo. I cadaveri venivano dati in pasto agli squali.
Non c'era alcun interesse a che la merce giungesse in buone condizioni, dato che non costava nulla e i guadagni erano, comunque, esorbitanti.
Giungevano denutriti, piagati, atterriti, spesso sull'orlo della follia. Ammassati subito in capannoni altrettanto fetidi, attendevano curiosi e compratori che venivano a esaminare la merce; ed erano in condizioni tali che, ancor più, gli europei si convincevano d'avere a che fare con esseri inferiori, nati solo per essere schiavi.
Ebbene, in un tale orrendo scenario, Pietro Claver operò per quarant'anni: il carico di lavoro era tale, che non lo aveva mai concluso prima che un'altra nave arrivasse: e sempre ricominciava da capo con gli stessi gesti e con le stesse cure.
Si era impegnato con un voto in più, che egli aveva voluto liberamente aggiungere a quelli che professavano gli altri suoi confratelli: «il voto di dedicare tutta la vita alla conversione dei negri».
«Alla conversione»: all'intento, cioè, di fame dei cristiani, ma nella consapevolezza che doveva farsi carico, nei limiti del possibile, di quasi tutte le loro necessità.
E non dobbiamo nemmeno dimenticare che - secondo la giurisprudenza del tempo - quei pochi diritti che era possibile riconoscere agli schiavi dipendevano dal fatto che fossero o no cristiani.
Pietro Claver non voleva convertirli presentandosi come un padrone spirituale (come colui che pretendeva amministrare le loro anime come altri amministravano i loro corpi), ma offrendosi come loro schiavo.
Ed egli imparò, fin dai primi giorni, a firmarsi così: «Petrus Claver, Aethiopum semper servus», «Pietro Claver, schiavo dei negri per sempre».
pp. 63-64
Di solito gli schiavi restavano lì alcuni mesi, il tempo che ripigliassero le forze e che si organizzasse un vasto mercato.
E questo era il tempo lasciato alle cure evangelizzatrici del padre Claver. Soprattutto nei primi anni egli non conosceva nemmeno una parola dei numerosi dialetti d'origine di quei poveretti.
Ma, anche se avesse saputo come esprimersi, la sua persuasione era e resterà sempre quella che «agli infelici bisogna parlare prima con le mani che con la lingua»: prima col sorriso, col gesto, col dono.
Girava in mezzo a loro senza temere contagi o sozzure, con la sua povera veste nera, con un crocifisso sul petto, con due bisacce sulle spalle: in una c'era tutto il necessario per il suo ministero di prete, nell'altra c'era tutto ciò che riusciva a raccogliere e che poteva essere gradito a quegli infelici: dai dolciumi, alle medicine, all'acquavite.
Quando s'era stabilita una certa familiarità, cominciava la sua catechesi. Srotolava un gran cartellone nel quale aveva egli stesso disegnato, a colori vivacissimi, la più importante "lezione": poi, con una lunga bacchetta, indicava le diverse scene e le commentava con gesti, sospiri, parole più volte ripetute.
Nel mezzo c'era, dunque, un Crocifisso; ai suoi piedi, un prete che battezzava come se attingesse l'acqua purificatrice alle piaghe insanguinate del Redentore.
Da un lato era dipinta una fila di negri che accorrevano col volto gioioso e festante, accompagnati da angeli e santi; dall'altro, più lontano, negri deformi e tormentati, minacciati da brutti diavoli.
Comunque si immaginassero le cose, quei poveri schiavi qualcosa capivano: che cosa fossero diavoli, tormenti, minacce e deformità l'avevano esperimentato anche troppo duramente; restava, dunque, l'altra possibilità: essere accolti benevolmente, purificati, rinnovati.
Forse non capivano subito chi fosse quell'uomo crocifisso, ma il suo volto sofferente e buono rassomigliava a quello del missionario che li accoglieva e li abbracciava: tutti capivano almeno che non erano destinati alla dannazione (che già voleva afferrarli in terra), ma a un paradiso che poteva cominciare perfino in quell'orrore.
Poi, con lo stesso metodo, e con altri cartelli illustrati, Pietro raccontava loro il Vangelo, spiegava le verità della fede cristiana e insegnava i comandamenti di Dio.
Aveva con sé, come un tesoro prezioso da mostrare, la Vita Domini Nostri Jesu Christi che Bartolomeo Ricci aveva stampato a Roma qualche anno prima (nel 1606), con centosessantuno bellissime illustrazioni.
Ed era convinto d'aver raggiunto davvero il cuore dei suoi poveri negri quando li udiva ripetere esattamente quella formula che egli aveva loro insegnato insistentemente, ripetutamente, piangendo di commozione: «Gesù Cristo, Figliuol di Dio, voi siete mio padre, mia madre, e tutto il mio bene. Io vi amo molto, e sento un estremo dolore di avervi offeso. Signore, io vi amo molto, molto, molto!».
p. 64
L'invenzione più intelligente fu quella di cercarsi degli interpreti: fece mettere da parte, a suo nome, alcuni schiavi che erano in grado di parlare almeno due o tre dialetti, fino ad averne una piccola schiera capace di intendere tutta la trentina di linguaggi necessari.
Li prese a vivere stabilmente con sé, e ogni giorno li istruiva in modo che potessero, via via, prendersi cura dei loro fratelli negri.
Quando poi il gruppo, accolto e custodito in quei primi mesi, veniva venduto e trasferito nelle piantagioni o nelle miniere, egli con le lacrime agli occhi indicava i migliori tra loro - quelli che più avevano appreso e praticato la nuova fede - e chiedeva loro, per amar di Dio, che volessero custodire i più piccoli e i più deboli.
E non li dimenticava più, pronto a visitarli e a sostenerli, appena ne aveva la possibilità.
p. 66
Se poi in un villaggio scoppiava una sommossa, o il panico afferrava la popolazione, bastava la sola presenza del Padre a riportare la calma.
Così, quando si risvegliò un vulcano, e la popolazione dei villaggi vicini cominciò a fuggire terrorizzata, bastò la notizia che l'indomani sarebbe arrivato il Padre che tutti lo attesero spaventati, ma fiduciosi come bambini.
Pietro Claver giunse, li condusse tutti attorno al cratere fumante e piantò lì una croce, garantendo a tutti la salvezza.
Col tempo divenne semplicemente «l'apostolo di Cartagena», cioè di tutti gli abitanti indifferentemente, anche se i negri che giungevano al porto avevano sempre la preferenza.
Ma, poi, lo richiedevano i malati dell'ospedale, i lebbrosi del lazzaretto, i condannati a morte e i prigionieri, i soldati nelle caserme e sulle navi, i protestanti e i musulmani che lo accostavano per curiosità e finivano per convertirsi, gli schiavi che lavoravano da anni nelle miniere e nelle piantagioni, la povera gente nelle capanne e i signori nei loro palazzi.
Per tutti egli era «il Padre», e poteva tranquillamente permettersi di predicare, ammonire, correggere, castigare quand'era necessario, comporre liti, invitare tutti alla preghiera o alla penitenza, ma anche preoccuparsi se a qualcuno mancava il pane, il vestito o la salute.
p. 68
Durante la sua vita, secondo un computo approssimativo fatto da lui stesso, aveva battezzato circa trecentomila negri.
Quando la salma venne esposta in Chiesa, affinché tutti potessero baciargli le mani senza gettarsi sul suo corpo, gli stesero le braccia in croce.
Assunse così la bella forma crocifissa che egli aveva sempre amato, offerto e desiderato.
Venne proclamato Santo il 15 gennaio 1888, e quel giorno, accanto a lui, nella gloria, venne innalzato anche il vecchio saggio fratello Alfonso Rodriguez, quasi a ricordarci che, a volte, anche i Santi si generano l'un l'altro.
Nel 1896 la Chiesa proclamò san Pietro Claver «patrono universale delle missioni tra le popolazioni negre».
7.2/ San Camillo De Lellis
dalla vita di San Camillo De Lellis di Antonio Maria Sicari, pp. 53-54
Era nato da una madre molto anziana, «già bianca di capelli e con la faccia crespa» - dicono le cronache - tanto che la gioia della gravidanza si mescolava un po' alla vergogna. Aveva sessant'anni. La gente, ricordando il Vangelo, la chiamava S. Elisabetta. E la donna sentiva talmente il miracolo di quella nascita insperata che, quando fu l'ora, e il parto si annunciava assai difficile, scese nella stalla per vedere di far nascere il bambino su una mangiatoia, «come Gesù e S. Francesco». E lì il bambino nacque la domenica di Pentecoste dell'anno Santo 1550, mentre le campane suonavano a festa al momento della Elevazione. Era un bambino molto più robusto e più alto del normale (da grande sopravvanzerà quasi tutti dalla testa in su), ma la madre aveva anche il cuore stretto a causa della tarda età e di qualche triste premonizione.
Di fatto, nessuno riuscì ad educarlo. Il padre, quasi sempre lontano, era capitano di fanteria e militava nella tristemente celebre masnada di Fabrizio Maramaldo.
Lui personalmente, Giovanni De Lellis, era però considerato come uomo dabbene e anche, in qualche modo, «buon cristiano», anche se iniziò la sua carriera militare partecipando al terribile Sacco di Roma nel 1527 e la concluse con un episodio analogo nel 1559.
Non riuscì comunque ad essere un buon genitore. Gli morì la moglie quando Camillo aveva solo tredici anni ed era già allora un piccolo ribelle irriducibile; così il bambino iniziò ad accompagnare il padre da un presidio militare all'altro, assimilando da lui una passione distruttiva per il gioco dei dadi e delle carte, e dall'ambiente un atteggiamento da bravaccio involgarito.
Il padre morì, mentre - a 70 anni suonati – cercava di arruolarsi nella guerra contro i Turchi, dopo aver arruolato il figlio nella sua compagnia. Aveva perso tutto. Al figlio lasciava soltanto la spada e il pugnale.
pp. 54-55
Finì randagio come un cane, vagabondo senza meta, con vergogna, rubando, elemosinando davanti alle chiese con «infinito rossore». Alla fine dovette adattarsi a lavorare per la costruzione di un convento di cappuccini, conducendo due giumenti carichi di pietre, calce e acqua per i muratori.
Rifiutava la fatica con tale violenza da mordersi le mani per la rabbia, tentato - come confiderà più tardi - di scannare i due giumenti e fuggire.
Ma la vicinanza di quei frati - appena riformati e ancora nel loro pieno fervore - non gli era indifferente.
Già nel passato quando si era preso in battaglia qualche terribile spavento, aveva fatto un mezzo voto, subito rimangiato, di farsi frate.
Durante un viaggio al convento di S. Giovanni Rotondo - era l'anno Santo 1575 - incontrò un frate che se lo prese in disparte per dirgli: «Dio è tutto. Il resto è nulla. Bisogna salvare l'anima che non muore...». Nel lungo viaggio di ritorno, tra gli anfratti del Gargano, Camillo meditava.
Ad un tratto scese di sella, si buttò a terra piangendo:
«Signore, ho peccato. Perdona a questo gran peccatore! Me infelice che per tanti anni non ti ho conosciuto e non ti ho amato. Signore, dammi tempo per piangere a lungo i miei peccati».
Chiese di diventare cappuccino, ma per due volte venne dimesso dal convento, e il motivo è legato a quell'episodio che finora ho omesso di raccontare.
Già al tempo delle sue scorribande guerresche con il padre, nella gamba di Camillo s'era aperta una piaga che resterà incurabile per tutta la vita e diverrà sempre più orribile. Un medico che lo visiterà a Genova dirà poi che era «un'ulcera putrida, corrosiva e cava grandissima».
Qualcuno pensa oggi che si trattasse del terribile male del secolo: la sifilide - acquisita o ereditaria - dovuta ai suoi vizi o a quelli del padre. La maggior parte dei biografi lo esclude e si parla solo di ulcere distrofiche.
Comunque Camillo apparteneva ormai alla categoria degli «incurabili».
Era già stato per un periodo all'Ospedale romano di S. Giacomo, dove si trattavano appunto le più orribili malattie e vi si era perfino impiegato per curare gli altri malati.
pp. 55-56
È bene qui fermarsi a descrivere qual era la situazione degli ospedali del tempo, sapendo che comunque quelli di Roma erano i migliori del mondo.
All'ospedale degli Incurabili giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che venivano addirittura scaricati sulla porta dell'edificio.
Normalmente vi erano disponibili una settantina di letti, che diventavano cinquecento ad anni alterni quando si somministrava una cura radicale (la cura dell'acqua del legno, costosa e celebre a quel tempo). Era soprattutto la cura della sifilide, ma anche di chi pensava di doversi in qualche modo «smorbare». La vollero anche Torquato Tasso per il suo «umore malinconico» e Aldo Manuzio per gli occhi. Durava 40 giorni.
Ma se gli ospedali erano abbastanza celebri dal punto di vista della medicina di allora, erano terribili per un altro verso. A mala pena si trovava chi volesse prendersi cura di quegli esseri ripugnanti, perfino i preti rifuggivano dall'assistenza religiosa. E i malati erano in mano a dei mercenari: alcuni, delinquenti costretti a quel lavoro con la forza, altri, per non aver diversa possibilità di guadagno. Ciò che avveniva è per noi inimmaginabile.
Ecco una pagina di un cronista del '600:
«Erano forzati... a servirsi, per così dire, della feccia del mondo cioè de Ministri ignoranti, banditi o inquisiti d'alcun delitto, confinandoli per penitenza e castigo dentro li suddetti luoghi...
Almeno certa cosa era che li poveri agonizzanti stavano alhora dui o tre giorni interi, stentando e penando nelle loro penose agonie senza ch'alcuno mai gli dicesse una pur minima parola di consolatione o conforto...
Quante volte... per mancamento di chi gli aiutasse e cibasse passavano li giorni interi che non gustavano alcuna sorta di cibo? Quanti poveri gravi, per non essergli rifatti i letti appena qualche volta in tutta la settimana, si marcivano ne' vermi e nelle bruttezze?
Quanti poveri fiacchi levando da letto per alcun loro bisogno, cascando in terra morivano o si ferivano malamente? Quanti spasimandosi della sete non potevano haver un poco d'acqua per sciacquarsi e rinfrescarsi la bocca? Onde molti come arrabbiati dal grande ardore sappiamo che si bevevano l'orina...
Ma questa che dirò hora chi la crederebbe mai? Quanti poveri morenti non ancor finiti di morire erano da quei giovani mercenarj poco accorti pigliati subito da' letti e portati così mezzi vivi tra' corpi morti per essere poi sepolti vivi?... ».
Pagg. 57-58
Agli «Incurabili» Camillo è ormai noto per la sua conversione. Ben presto lo nominano Maestro di Casa, colui cioè che ha la responsabilità immediata dell'andamento economico ed organizzativo. Comincia a mettere ordine.
Sa per esperienza come è fatta quella «diavolata gente anormale», conosce i trucchi degli scioperati per averli lui stesso esercitati, e diviene onnipresente. Notte e giorno. Compare quando nessuno se lo aspetta: richiama, rimprovera, costringe ognuno a far il suo lavoro e bene.
Controlla gli acquisti, litiga con i mercanti, rimanda indietro le partite di merce avariata. E, per quello che non può imporre, offre come modello se stesso.
Si tratta della «tenerezza».
Lo vedono pulire a mani nude i volti dei poverelli divorati dal cancro, e baciarli.
Introduce, e cura lui personalmente, il rito dell'accoglienza: ogni malato viene ricevuto alla porta, abbracciato, gli vengono lavati e baciati i piedi, viene spogliato dei suoi stracci, rivestito di biancheria pulita, sistemato in un letto ben rifatto.
Spiega ai mercenari che: «I poveri infermi sono pupilla et cuore di Dio et... quello che facevano alli detti poverelli era fatto allo stesso Dio».
Comincia a radunare intorno a sé i più sensibili, prega con loro e a loro comunica (lui che a mala pena sa leggere e scrivere) i primi principi di una teologia della sofferenza.
Un pensiero fisso lo va ormai ossessionando: bisogna sostituire tutti i mercenari con persone disposte a stare coi malati solo per amore.
Vuole gente che «non per mercede, ma volontariamente e per amore d'Iddio gli servissero con quell'amorevolezza che soglio no fare le madri verso i propri figli infermi». Questo è il progetto. E desta subito preoccupazione. Quei pochi amici che si ritrovano a pregare e a discutere sull'argomento sono isolati: c'è chi intravede già che interessi e abitudini verranno messi in discussione, altri sospettano che Camillo voglia impadronirsi dell'ospedale, altri ancora considerano il progetto irrealizzabile.
Lo stesso S. Filippo Neri, confessore di Camillo, lo sconsiglia perché crede che quell'«uomo ignorante e senza lettere non è atto né sufficiente a governare gente congregata assieme».
Da parte sua Camillo è tranquillo: «Mi pareva che tutto l'inferno non mi poteva disturbare né impedire l'incominciata impresa». È convinto che gliela chiede lo stesso Cristo Crocifisso.
Capisce tuttavia che, per acquistare credibilità, lui e i suoi devono imboccare la strada del sacerdozio. Riesce miracolosamente a farsi ordinare anche se di teologia speculativa non sa quasi nulla e non riesce nemmeno a scrivere una pagina senza fare molteplici e ridicolissimi errori di ortografia.
Lascia l'ospedale degli «Incurabili» dove ormai non lo vogliono più e raduna i suoi in una poverissima casetta dove hanno due coperte in tre, e la notte devono fare a turno per coprirsi. Cominciano la loro libera attività nel grande ospedale romano di Santo Spirito.
È il glorioso Hospitium Apostolorum, l'ospedale voluto direttamente dal Papa e da lui affidato ai religiosi di S. Spirito. L'ha fondato Innocenzo III, il grande Papa del '200, perché in esso «abitassero i padroni (cioè i malati) e i servi (cioè tutti gli altri cristiani)».
I frati che lo dirigono hanno fatto voto di essere «servi dei loro padroni, gli infermi, per tutta la vita».
p. 59
L'ingresso nella corsia è libero. Chi entra tutte le mattine per ascoltare la Messapuò poi servire quel Gesù che ha adorato nella Eucarestia, nel corpo malato dei suoi fratelli. Infatti all'ospedale di S. Spirito accedono liberamente tutti coloro che vogliono esercitare la carità: l'assistenza volontaria è permessa e suggerita ai pellegrini che vengono a Roma, ai religiosi, ai sacerdoti, ai cardinali, ai letterati, agli artigiani, ai penitenti, ai peccatori che devono espiare, ai santi...
Sul portale dell'ospedale Maggiore di Torino - e di molti altri - era scritto:
«Culto d'amore dovuto a Cristo, Dio e uomo, ammalato nei poveri».
Al «S. Spirito» questa dichiarazione di fede era resa strutturalmente evidente. Purtroppo, come vi si manifestava la fede grande della Chiesa, vi si manifestava anche la sua miseria terrena.
pp. 59-60
A Camillo piace la musica. Qualche volta va nelle chiese a sentire dei concerti, ma quando esce dice:
«A me però di più gusta un altro genere di musica... quella che fanno i poveri infermi nell'ospedale quando molti assieme chiamano e dicono: Padre, dammi da sciacquare la bocca, rifammi il letto, riscaldami i piedi...».
Una notte lo vedono (citiamo nel bell'italiano antico):
«stare ingenocchiato vicino a un povero infermo ch'aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tolerarsi tanto fetore, e con tutto ciò esso Camillo standogli appresso a fiato a fiato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell'amar suo, chiamandolo particolarmente: Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio? pensando egli che fosse l'amato suo Signore Giesù Christo...».
p. 61
Quando qualche sera tornava in convento, chiamava i suoi frati in capitolo, metteva un letto in mezzo alla sala, ammucchiava materassi e coperte, chiedeva a uno di distendersi, e poi insegnava agli altri come si rifaceva un letto senza disturbare troppo il malato, come si cambiava la biancheria, come bisognava atteggiare il volto verso i sofferenti. Poi li faceva provare e riprovare.
Ogni tanto gridava: «Più cuore, voglio vedere più affetto materno». Oppure: «Più anima nelle mani».
Un giorno, arriva in Ospedale il Commendatore di S. Spirito (la più alta autorità) che chiede impazientemente di parlare con Camillo, ma lui sta imboccando un infermo:
«Dite a Monsignore - fa rispondere - che adesso sono occupato con Giesù Christo, appena avrò finito mi presenterò dinnanzi a Sua Signoria illustrissima». E non lo dice per puntiglio, ma perché ne è davvero convinto.
p. 62
Restò celebre lo straripamento del Tevere nel Natale 1598, quando Camillo davanti al pericolo - mentre frati e servi mugugnano e dicono che non c'è tanto rischio - li obbliga a trasportare al piano superiore tutti e trecento i malati con le loro robe.
Quando ha trasferito l'ultimo malato, il Tevere irrompe e l'acqua giunge a tre metri di altezza dal pavimento, sommergendo tutto. Ma i malati sono salvi.
p. 63
Muore a 64 anni, ma prima ha voluto scrivere il suo testamento per lasciare in eredità tutto se stesso. Lo fa firmare dai suoi frati e chiede che gliela mettano al collo e lo lascino così fin dentro la tomba.
Il testamento è una totale e minuziosa consegna di se stesso:
«Io Camillo de Lellis... lascio il mio corpo di terra alla medesima terra di dove è stato prodotto.
... Lascio al Demonio, tentatore iniquo, tutti i peccati e tutte le offese che ho commesso contro Dio e mi pento sin dentro l'anima...
Item lascio al mondo tutte le vanità e desidero cambiare questa terrena vita con la certezza del Paradiso… tutte le robbe mie con gli eterni beni, tutti gli amici con la compagnia dei Santi, tutti li Parenti con la dolcezza degli Angeli e finalmente tutte le curiosità mondane con la vera visione della faccia di Dio.
Item lascio et dono l'anima mia e ciascheduna potestà di quella al mio amato Gesù e alla sua S. Madre... e all'angelo mio Custode.
Item lascio la mia volontà nelle mani di Maria Vergine Madre dello Onnipotente Iddio e intendo non volere se non quello che la Regina degli Angeli vuole.
Finalmente lascio a Giesù Christo Crocefisso tutto me stesso in anima e corpo e confido che, per sua immensa bontà e misericordia, mi riceva e mi perdonerà come perdonò alla Maddalena, e mi sarà piacevole come lo fu al buon ladrone nell'estremo di sua vita stando in Croce...».
8/ I Santi nella catechesi
cfr. G. Giacometti, Riflessi del mistero. Profili e vite dei santi nella catechesi. Come scegliere, come proporre, on-line su www.gliscritti.it
[1] Le Bolle di cui si parla sono: Pio V, Ex debito Pastoralis officii, 1571; Gregorio XIII, Illius qui gregis Domini, 1572.