L’incomprensibile leggerezza delle droghe, di Marco Pappalardo
Riprendiamo dal sito Cogito et volo un articolo di Marco Pappalardo pubblicato il 14/1/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2014)
Quando frequentavo il liceo, ormai quasi vent’anni fa, cominciavo a prendere consapevolezza del problema legato all’uso delle droghe leggere e soprattutto non riuscivo a capire in cosa consistesse la “leggerezza” di una droga. In questi giorni, come accade periodicamente, ritorna il dibattito sulla liberalizzazione. Nasce sempre in ambito politico, passa attraverso i giornalisti, i medici e gli psicologi, l’opinione della gente per strada, i docenti, pochissime voci di chi si prende cura dei tossicodipendenti per riabilitarli, quasi nessuna di ex-tossicodipendenti.
Negli anni non ho mai smesso di avere a che fare con il mondo dei ragazzi, e la mia consapevolezza si è allargata fino al rendermi conto che quello delle droghe leggere è un vero problema anche tra gli adulti che, poi, in fin dei conti, sono i giovani di ieri!
Torna allora la questione della “leggerezza”: che “leggerezza” c’è in qualcosa che ogni volta ti ruba la personalità, altera le sensazioni, offusca la percezione della realtà, ti esalta e stordisce allo stesso tempo?
La “leggerezza” è ciò che fa spiccare il volo con le ali, che fa prendere il largo a vele spiegate, che si mostra nella destrezza degli acrobati, nei passi di una ballerina, nel cadere di una piuma, nella carezza di un bambino, nello sfiorarsi degli innamorati. Certo chi assume droghe leggere magari ha pure qualcuna di queste sensazioni, forse persino di poter toccare il cielo con un dito, ma che senso ha quando avviene solo a causa di un agente esterno seppur naturale?
Sempre a scuola nasceva il dibattito sulla liberalizzazione, molti compagni erano a favore e sicuramente più d’uno ne faceva uso, “in fondo – dicevano – che c’è di male”? Oppure “non faccio male a nessuno” o ancora il classico “smetto quando voglio”. Erano gli stessi che, quando ci furono in quegli anni le stragi di mafia, gridavano e manifestavano contro la delinquenza organizzata e a favore della giustizia.
Che strano, però? Spinello sì, mafia no? Ma da chi lo compri lo spinello? E quando lo compri, non finanzi forse la mafia o la delinquenza oltre a fare un’azione illegale?
Già, che c’è di male? Dinanzi a questa obiezione, nessuna parola, solo silenzio; lo stesso silenzio, straziante, di quando con l’intenzione di non far male a nessuno, ci si mette a guidare “fumati” e per questo si causano gli incidenti e le morti. Lo stesso silenzio di chi, continuando a dire di smetterla a piacimento, nel frattempo ha dovuto riabilitarsi già due volte. Il medesimo silenzio, di compassione e mera tristezza, che ti viene dinanzi ad un uomo che, per affrontare questo o quel momento, ha bisogno di un aiutino dall’esterno, di qualcosa che lo tiri su o che lo distenda, di mandare in fumo il cervello per una sensazione momentanea: peccato che questi uomini sono spesso padri, medici, giudici, politici, autisti, docenti, gente che ha a che fare con la vita delle persone e non solo con la propria. Sono solo cattivi maestri da aiutare!